Sintesi
I segreti della longevità
• Qual è la combinazione dei fattori genetico-biologici che ci fanno invecchiare?
• C’è un rapporto fra l’alimentazione e l’invecchiamento precoce?
• Possiamo intervenire sulla durata della vita?
• Esistono dei tratti caratteriali tipici dell’uomo longevo?
• Quali sarebbero le conseguenze etico-economiche di una società “longeva”?
Questa tesina nasce a seguito della partecipazione ad un convegno internazionale – intitolato The future of Science – organizzato come ogni anno dalla Fondazione Cini e dalla Fondazione Veronesi. Si tratta di un ciclo di conferenze rivolte prevalentemente ad un pubblico di esperti, cui si aggiungono alcuni alunni fra i più meritevoli in Italia. La selezione degli alunni viene fatta su base nazionale – tramite un test di biologia molecolare di trenta domande, fra cui tre in inglese – allo scopo di divulgare i risultati delle ricerche scientifiche più all’avanguardia alle nuove generazioni di studiosi.
Secrets of longevity è il titolo della nona edizione del Convegno – tenutosi a Venezia nel settembre del 2013 – che ha visto come protagonisti i professori Thomas Kierkwood, Luigi Fontana e Howard Friedman, e fra i nomi più altisonanti Elisabeth Blackburn, Premio Nobel per la medicina 2009, Marco Tronchetti-Provera, Umberto Veronesi, Paolo Veronesi e Kathleen Kennedy Townsend, nipote di John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati Uniti d’America.
La tesi
Sintetizzare tre giorni di conferenze in appena quindici minuti non è cosa possibile. Necessariamente, bisogna passare sotto silenzio moltissime informazioni di estremo interesse scientifico, operare delle scelte, privilegiare una direzione di indagine a discapito di altre possibili. Consapevole di questo limite obiettivo, mi accingo adesso ad esporvi la mia direzione di indagine.
1988 e 1999: due esperimenti provano che nel nostro corredo genetico si trovano due famiglie di geni aventi a che fare con il processo di invecchiamento. Si tratta dei “geni dell’invecchiamento” – che rendono tale processo più veloce – e dei “geni della longevità”, che lo tengono a freno.
Gli studiosi si interrogano in particolare sulla funzione della prima famiglia di geni. Rifacendosi alle leggi della selezione naturale di Charles Darwin, se è vero che ogni gene è originato in maniera casuale, è pur vero che è piuttosto improbabile che una mutazione “nociva” venga trasmessa alle generazioni successive. E allora? Come si spiega la presenza di una programmazione genetica che ci incalza al fine vita? La risposta – banale e sconvolgente al tempo stesso – è che i geni dell’invecchiamento svolgono per definizione una funzione comunque positiva per la specie. Da qui ne discendono due alternative:
1. La prima: certi geni hanno solo ed esclusivamente la funzione di fare invecchiare l’organismo biologico. Il vantaggio di questo dato di fatto è da ricercarsi nelle maggiori possibilità di sopravvivenza della specie e non già dei singoli individui che la compongono. Solo per fare qualche esempio, ci sarebbe così un minore depauperamento delle risorse nutrizionali e un maggior spazio vitale per ciascun individuo.
2. La seconda: in gioventù anche questi geni svolgerebbero una funzione positiva per l’organismo. L’invecchiamento sarebbe quindi solo un effetto collaterale della loro attività nel corso del tempo. Questa seconda ipotesi è attualmente la più accreditata: gli oncosoppressori e i geni responsabili della produzione dei radicali dell’ossigeno sono fra gli esempi più celebri a favore di tale ipotesi.

È stato osservato che i geni dell’invecchiamento e quelli della longevità sono sempre collegati all’attività dell’insulina, l’ormone responsabile della produzione dell’energia a partire dai nutrienti assunti. Indagando più a fondo in questa direzione, gli scienziati hanno preso in considerazione la correlazione esistente fra “apporto calorico” e “espressione dei geni della longevità o dell’invecchiamento”, notando che una restrizione calorica rigida, tendente alla soglia della malnutrizione, determina un allungamento della vita in numerose specie, oltre alla prevenzione di alcune malattie quali il diabete e i tumori . Un altro esperimento – condotto in Siberia negli unici stabulari all’aperto del mondo – ha prodotto dei risultati che inizialmente hanno lasciato interdetti gli studiosi. Mentre un ceppo di topi veniva privato del gene dell’invecchiamento, un altro veniva allevato senza essere sottoposto a modificazione genetica. A questo punto i due ceppi venivano divisi. Alcuni animali venivano posti nei sopracitati stabulari all’aperto, altri venivano mantenuti in laboratorio. Qui, secondo previsione, i topi privati del gene dell’invecchiamento sopravvivevano più a lungo rispetto ai topi non trattati; ma al contrario, generando stupore tra i ricercatori, si notava che fra i topi che vivevano all’aperto quelli privi del gene dell’invecchiamento morivano tutti, quando invece quelli non privati del gene sopravvivevano. Infine, nei topi “longevi” veniva rilevato un tasso di sterilità più elevato. Partendo da questi dati, gli studiosi sono arrivati alla seguente conclusione:
• In periodi di abbondanza di cibo si invecchia precocemente perché gran parte dell’energia viene concentrata sulla procreazione e non sul mantenimento dell’integrità del corpo (elevata espressione dei geni dell’invecchiamento);
• In periodi di scarsità di cibo e di condizioni climatiche avverse il metabolismo energetico è invece finalizzato al mantenimento dell’integrità del corpo (prevalenza dei geni della longevità), con conseguente allungamento della vita media.
Nell’uomo, la dieta ipocalorica renderebbe quindi attivi i geni della longevità, ma è evidente che ciò comporta dei sacrifici per l’individuo. Un’alternativa percorribile per massimizzare i benefici e minimizzare i costi potrebbe essere la via farmaceutica, che prevede l’inattivazione artificiale dei geni dell’invecchiamen-to, considerando che l’uomo ormai non vive più in ambienti ostili e pertanto non dovrebbe correre i rischi già paventati nei topi che vivevano all’aperto e non in laboratorio. È chiaro che tale pratica comporta non pochi risvolti etici, su cui la collettività dovrebbe prima interrogarsi per poi poter prendere una decisione condivisa dai più e non imposta da una minoranza economicamente interessata.
In conclusione: se da una parte la scienza è protesa alla ricerca dell’elisir di lunga vita, dall’altra l’’innalzamento della vita media della popolazione altera notevolmente il sistema della previdenza sociale, poiché la disponibilità di fondi rischia di diventare enormemente inferiore al fabbisogno. Una soluzione prospettata è l’indicizzazione dell’età pensionabile, che invece di essere legata all’età anagrafica, verrebbe ancorata per l’appunto alle crescenti aspettative di vita. Come dire: innalzando via via l’età media della popolazione si innalzerebbe di pari passo il momento dell’andare in quiescenza. Questo sistema comporta ovviamente un sacrificio a carico delle generazioni votanti e di fatto non distinguerebbe fra lavori usuranti, lavori manuali, lavoro intellettuale. Detto altrimenti, questo sistema potrebbe prima incontrare una resistenza sociale alla sua applicabilità e potrebbe comunque non garantire una equità di trattamento per le diverse tipologie di lavoratori. Insomma, come sopra implicitamente adombrato, le conquiste scientifiche hanno sempre delle ricadute sociali; e se è pressoché unanimemente accettata l’idea che lo scienziato debba avere la possibilità di indagare l’ignoto nella direzione che più gli aggrada, dovrebbe essere altrettanto pacifico che l’ultima decisione sull’opportunità o meno di tradurre nel concreto il risultato della sua opera dovrebbe essere demandato alla politica. Alla politica, certamente: alla Politica con la maiuscola, al consesso dei cittadini nelle sue forme espressive più alte: la democrazia diretta del referendum e la democrazia indiretta dei rappresentanti democraticamente eletti dal popolo.
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