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Questa tesina di maturità descrive la poesia, intendendola anche come motore del mondo. Tesina maturità argomenti: in Italiano il culto della parola tra D'Annunzio e Petrarca, la poesia dell'ineffabile dallo Stilnovismo alla Commedia, in Latino l'Apuleio presimbolista, in Greco la poesia come estasi: l'anonimo del Sublime, in Filosofia la poesia come sospensione del dolore, della volontà, del tempo: Schopenahuer, la poesia come creazione del mondo e principio cosmico: Novalis, in Inglese The poet in English Romanticism: Wordsworth and Keats.
Italiano - Il culto della parola tra D'Annunzio e Petrarca, la poesia dell'ineffabile dallo Stilnovismo alla Commedia.
Latino - L'Apuleio presimbolista.
Greco - La poesia come estasi: l'anonimo del Sublime.
Filosofia - La poesia come sospensione del dolore, della volontà, del tempo: Schopenahuer; la poesia come creazione del mondo e principio cosmico: Novalis.
Inglese - The poet in English Romanticism: Wordsworth and Keats.
Quel valore estetico della parola assoluto e puro sembra essere derivato alla letteratura italiana, secondo il
critico e amico del vate A. Conti, direttamente da Petrarca, dal suo “linguaggio eletto, filtrato”, a cui
D’Annunzio attribuirà quel “mistero” che soltanto la “potenza occulta della musica” sa effondere “intorno ai
fantasmi poetici”. Del resto, fortissimi sono i legami tra Petrarca e D’Annunzio, dalla trasfigurazione del
reale – che nel Canzoniere significava dissoluzione del corpo di Laura nella natura, alla ricerca ossessiva di
una rivitalizzazione del mito (Luperini) – basti pensare al mito petrarchesco di Apollo e Dafni, al
fonosimbolismo tutto petrarchesco mutuato dal simbolismo, dal luogo fisico e dell’anima al petrarchismo de
“La Sera Fiesolana”. E proprio le parole del Petrarca, che per D’Annunzio “pajono divenire immateriali e
disolversi nell’Indefinito”, ancora per A. Conti sono quelle in cui la critica simbolista proietta e riflette la
propria stessa poetica.
Proprio dal simbolismo francese giunge al vate quella concezione della poesia come rivelazione
dell’Assoluto: una poesia che si dissolve in musica e colore, che si fa pura evocazione ed astrazione
penetrando nel mistero delle cose, divenendo poi la parola “nuda”, “scavata come in un abisso” di Ungaretti
e la teologia degli ermetici. È nelle Laudi che egli parla della natura e dell’arte nei termini d’un dio bifronte:
e se la poesia è arte tecnica è al contempo attività spontanea e inconsapevole, continuazione della natura, e
nel suo estetismo anche superiore alla natura stessa. Lo stesso D’Annunzio, ne “La sera fiesolana”, esprime
quella inesausta tensione a infrangere il silenzio delle labbra della natura, una natura che anche qui si
trasfigura, nei connotati di una sensuale donna di eco stilnovistico, sennonché anche i cartigli del Notturno,
scritti in un periodo di semicecità, sono quelli dello scriba egizio o del cieco Omero.
E tale concezione è presente anche nel preumanista che per primo rivendicò la dignità della poesia rispetto
alle altre scienze (come nelle “Invective contra medicum quendam”, 1355 e nel “De ipsius et multorum
ignorantia”, 1367 ) e che, durante la propria incoronazione poetica, accostò la poesia proprio alla sacra
scrittura.
La poesia dell’ineffabile dallo Stilnovismo alla Commedia
In realtà, una concezione mistico-esoterica della poesia compare per la prima volta nella letteratura italiana
con lo Stilnovismo, in cui è l’Amore a dettare al poeta la materia del suo canto. Rispetto alle tradizioni
liriche precedenti, si impone una concezione dell’ispirazione poetica come impulso trascendente,
strettamente collegato alla forza dell’amore e alla figura della donna intesa come angelo, strumento di
elevazione tra l’uomo e Dio. Dice Dante nel XXIV canto del Purgatorio: “I’ mi son un che, quando Amor mi
spira, noto, e a quel modo ch’e ditta dentro vo significando”. E nella Vita Nova, nella canzone “Donne
ch’avete intelletto d’amore” il poeta parla di una “lingua che parlò quasi come per se stessa mossa”,
affermando così quella natura mistica dell’ispirazione poetica che è chiara nelle cantiche del Paradiso, in cui
è l’ispirazione divina a dover necessariamente supportare Dante nella rievocazione di una esperienza che
trascende i limiti dell’umano. Addirittura è Amore, nella quarta stanza, a prendere direttamente la parola. E
nell’ultima stanza la canzone stessa viene definita “figliuola d’Amor”. Il tema della ineffabilità che pervade
tutto il Paradiso è già annunciato in questa canzone: è impossibile esprimere con i suoi limitati mezzi
espressivi una lode perfetta e piena di Beatrice, e la forza di Amore è tale in lui che se potesse adeguare la
propria parola al proprio stato d’animo, riuscirebbe a fare innamorare chiunque lo ascoltasse.
Ma è nella Commedia che si assiste alla elezione del poeta come profeta, o teologo. Dante compie un viaggio
straordinario nell’aldilà, da vivo, terzo solo ad Enea e a san Paolo, come rappresentante di sé stesso ma anche
di tutta l’umanità, in un cammino di redenzione dal peccato e dal traviamento morale. Ad accompagnarlo è
un altro poeta dell’al di là, Virgilio, colui che in virtù della sua egogla IV – la quale annunciava la nascita di
un fanciullo divino che avrebbe portato sulla terra l’età dell’oro – si era fatto profeta della venuta di Cristo. E
la poesia si fa continua profezia, dalla profezia del veltro del primo canto dell’Inferno alle numerose post
eventum sul futuro di Dante, pronunciate dalle diverse anime con le quali il poeta colloquia.
L’esperienza dell’al di là culmina nella terza cantica, quella del Paradiso: è nel primo canto, quando egli sta
attraversando la sfera del fuoco fissando nello sguardo di Beatrice il riflesso del sole, che Dante afferma che
“trasuman per verba non si porìa”, facendo riferimento al limiti del linguaggio umano nell’esprimere una
esperienza ultraterrena e ultraumana. Per questo motivo egli non può che ricorrere al mito di Glauco, per
esplicare la sua condizione. Lo stesso atteggiamento di Dante risulta essere ambivalente: se da un lato egli è
orgoglioso dell’unicità e dell’eccezionalità del suo viaggio, egli avverte l’ineffabilità di tale esperienza.
Nell’ultimo canto della Commedia, nel quale finalmente si ha la visione triadica e dinamica di Dio, egli si
rivolge direttamente a quest’ultimo, senza più lo schermo di figure pagane quali le muse e gli dei: “O somma
luce che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua
mia tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciar a la futura gente; ché, per tornare
alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, più si conceperà di tua vittoria”. Anche la
memoria, infatti, registra un cedimento ed esso viene reso da Dante attraverso tre similitudini: il sogno che
non si è più in grado di ricordare, ma che lascia una sensazione viva, al risveglio; la neve che si scioglie al
sole; gli oracoli della Sibilla ormai perduti nelle foglie allontanate dal vento. Così, alla fine, il poeta si
dichiara sconfitto, chiudendo il poema con l’immagine sempre presente dell’Amore: “A l’alta fantasia qui
mancò possa; ma già volgeva il mio disio e l’ mio velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che
move il sole e l’altre stelle”.
L’Apuleio presimbolista
La prosa di Apuleio è «un ininterrotto fuoco pirotecnico di pezzi di bravura e di artifici
stilistici: vi sono profusi immagini barocche, giochi di parole, preziosismi sonori, costrutti e
termini popolareschi, mescolati con tirate retoriche e declamatorie. Caratteristica costante
della prosa apuleiana è la ricerca di valori musicali, con cadenze ora dal suono languido e
sensuale, ora dal ritmo concitato e incalzante; la musica verbale acquista un suo valore
evocativo autonomo, [...] è rivelatrice di valori mistici, simbolici, irrazionali e magici; l’arte
di Apuleio pertanto riesce a cogliere il nesso profondo che nella sua epoca lega il culto
della parola e l’inclinazione al mistico e all’irrazionale. Apuleio è l'ultimo grande artista
della letteratura latina, ma proprio per la sua capacità di interpretare profondamente il suo
tempo, così diverso dall'età di Augusto, si trova già al di fuori dell'arte che si suole
chiamare classica» (L. Perelli)
Vissuto in un’epoca di fervori arcaizzanti, Apuleio conosce la predilezione dei suoi contemporanei per la
parola obsoleta e per gli autori arcaici. Egli – e questa è la sua peculiarità – fa rientrare tale predilezione in
una generale ricerca di letterarietà, di preziosità verbale, che trascende un uso linguistico puramente
comunicativo della lingua, tant’è che le parole si fanno evocative, richiamando suggestive connotazioni
implicite. Si è pensato anche che “Le metamorfosi” abbiano alla base una struttura musicale, che esse siano
costruire non secondo un preciso ordine architettonico ma che si sostanzi di richiami ed echi, come fosse una
sinfonia. Tutto ciò viene realizzato grazie all’impiego di figure di suono – quali anafore, allitterazioni,
omeoteleuti, rime, assonanze - e di clausole, che chiudono armoniosamente frasi e periodi. La
musicalizzazione della prosa è chiara anche nel tono enfatico e ridondante, che propone numerose ripetizioni
e copiosità di sinonimi. Non mancano i giochi di parole, elementi per i quali alcuni critici, come N. Terzaghi,
hanno ritenuto che Apuleio avesse in realtà trascurato il contenuto per la forma.
A differenza di Petronio, che nel Satyricon si fa pittore della realtà sociale dell’epoca, Apuleio ci presenta
inoltre un mondo al di fuori dal tempo, trasfigurato e sublimato come in una favola. Anche i passi del
romanzo più burleschi e licenziosi lasciano a disagio il lettore, proponendogli un mondo che supera ciò che è
convenzionale, umano, razionale. Secondo L. Perelli, “la fuga di Apuleio dalla normalità e dalla razionalità
si svolge in varie direzioni, verso la bestialità e la perversione, verso la crudeltà gratuita, verso il magico e
“
il tenebroso, verso il favoloso e il surreale, infine verso l’ebbrezza mistica” e Certe tendenze
irrazionalistiche e la fuga dalla misura e dall’equilibrio classico, che già erano proprie dei maggiori
scrittori latini dell'età imperiale, con Apuleio celebrano il loro trionfo”.
Per tali caratteristiche, quali la musicalità della prosa, il potere evocativo della parola e la tendenza alla fuga
dalla realtà mediante la letteratura, possiamo parlare di Apuleio nei termini di un precursore del simbolismo
decadente. Ancora scrive Perelli: “ Il compiacimento per gli abbaglianti giochi sonori e per i preziosismi
stilistici non è semplicemente una splendida veste che nasconde l'assenza di un contenuto sentito, ma è
connesso con la sua intuitiva fede, di natura, decadentistica, nella capacità della parola musicale di
suscitare vibrazioni magiche e stupefatte”.
La poesia come estasi: l’anonimo del Sublime
La bellezza estetica dell’arte, soprattutto dell’arte poetica, è quella che viene definita “sublime” nel trattato
anonimo di retorica e di critica stilistica “Sul sublime”, che ha influenzando enormemente l’estetica europea
dell’ultimo settecento e l’omonimo concetto teorizzato a suo tempo da E. Burke. Per la retorica antica,
infatti, secondo la concezione di Aristotele e Teofrasto, il sublime è una categoria stilistica generalmente
legata all’argomento trattato e al genere letterario, non la mera bellezza estetica dell’opera artistica. Poesia ed
eloquenza, secondo Longino, devono non tanto persuadere quanto indurre in uno stato di delirio, incantare
gli uditori inducendoli in uno stato di empatia. La concezione della poesia come follia, furore, invasamento
dal dio, risale a Democrito e al Platone dello Ione e del Fedro e sottintende una concezione tendenzialmente
irrazionale della creazione poetica.
La concezione della natura ultrarazionale dell’arte è chiaramente espressa dall’anonimo sin dall’inizio del
trattato, nel quale si afferma che il sublime poetico è, paradossalmente, qualcosa posto al di là della parola,
qualcosa di ineffabile che può però servirsi soltanto del linguaggio e che conduce l’ascoltatore ad uno stato
di estasi.
“Il sublime è una sorta di eccellenza del linguaggio, e i massimi poeti e prosatori non altrove che di qui
raggiunsero il primato e consegnarono la loro fama all'eternità. Infatti il sublime trascina gli ascoltatori
non alla persuasione, ma all'estasi: perché ciò che è meraviglioso s'accompagna sempre a un senso di
smarrimento, e prevale su ciò che è solo convincente o grazioso, dato che la persuasione in genere è alla
nostra portata, mentre esso, conferendo al discorso un potere e una forza invincibile, sovrasta qualunque
ascoltatore".