SOMMARIO
Presentazione 4
Introduzione 5
Giovanni Verga 6
Vita 6
Novella 9
Pietro Mascagni 16
Vita 16
Opera 18
Confronto tra la novella e l’opera 20
Diritti d’autore 21
Il suono 23
La fisica del suono 26
La Questione Meridionale 31
Lo zolfo 34
Bibliografia 38
Sitografia 39
PRESENTAZIONE
Grazie a mia madre, all’età di sei anni sono stato avvicinato al mondo della musica e da quel momento, aiutato da validi insegnanti, ho avuto la possibilità di amarla.
Il punto centrale su cui si è sviluppata tutta la tesina è quindi la musica.
Confrontando una novella studiata in classe con l’analogo melodramma, ho potuto apprezzare la vicinanza tra le attività scolastiche ed extrascolastiche.
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Dopo aver brevemente analizzato le vite dei due autori e le corrispettive opere, ho cercato di esaminare l’argomento sotto un punto di vista scolastico, correlandolo alle attività svolte in classe, passando dall’italiano alla fisica e dalla chimica alla storia.
La musica è una disciplina che coinvolge non solo il lato artistico della personalità,
ma anche quello più profondamente razionale. Note e accordi sono, in fondo,
precisi valori matematici che, uniti sotto il segno di una geometria acustica nota più
propriamente come "armonia", danno vita a questo straordinario linguaggio universale.
Lo studio e la pratica della musica è uno strumento di crescita eccellente,
un "allenamento" continuo della mente.
[Anonimo]
GIOVANNI VERGA
LA VITA
Verga nasce il 31 Agosto 1840 a Catania da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, dal padre Giovanni Battista Verga e dalla madre Caterina di Mauro. Verga aveva due fratelli, Mario e Pietro.
Nel 1854 a causa di un’epidemia di colera, la famiglia si rifugia nella campagna di Tèbidi e vi ritornerà nel 1855 per lo stesso motivo. I ricordi di questo periodo, legati alle prime esperienze adolescenziali dello scrittore, ispireranno molte delle sue novelle, come Cavalleria rusticana e Jeli il pastore, oltre al romanzo Mastro-Don Gesualdo.
Nel 1858 s’iscrive alla facoltà di legge all’Università di Catania ma non essendo molto interessato alle materie giuridiche si ritira, preferendo dedicarsi alle attività letterarie e al giornalismo politico.
La sua formazione scolastica è stata quindi irregolare e i testi su cui si forma il suo gusto in questi anni provengono da scrittori francesi ai limiti con la letteratura di consumo, come Dumas con I tre moschettieri. Oltre a questi romanzi egli predilige gli scritti storici italiani a carattere romantico.
Con l’arrivo di Garibaldi viene istituita la Guardia Nazionale e nel 1860 Verga si arruola, presentando servizio per circa quattro anni, ma non avendo anche qui inclinazioni per la disciplina militare se ne libera con un versamento di 3100 lire alla Tesoreria Provinciale.
Nel 1865 lascia per la prima volta il suo paese recandosi a Firenze, il punto d’incontro degli intellettuali italiani, dove Verga scrisse la commedia I nuovi tartufi e il romanzo Una peccatrice.
Ritornerà a Firenze nell'aprile 1869 e ci rimarrà fino al 1871 avendo compreso che la sua cultura provinciale era troppo restrittiva e gli impediva di realizzarsi come scrittore. In questo periodo, nel 1870, Verga scrive il romanzo romantico Storia di una capinera grazie al quale ottiene i suoi primi guadagni.
Nel 1872 si trasferisce a Milano, dove conosce i maggiori esponenti del secondo romanticismo lombardo e entra in contatto con l’ambiente degli scapigliati , s’interessa poi alla corrente del verismo e naturalismo da Zola a D’Annunzio. Risalgono a questi anni Eva, Nedda ed Eros e un abbozzo del romanzo I Malavoglia.
Nel 1878 muore la madre di Verga e viene pubblicata su una rivista la novella Rosso Malpelo, inizia il progetto annunciato in una lettera a un amico, la scrittura di un ciclo formato da cinque romanzi (Padron'Ntoni, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa delle Gargantas, L'onorevole Scipioni, L'uomo di lusso) inizialmente con il titolo di Marea ma successivamente cambiato nel Ciclo dei Vinti.
Nel 1882, oppresso da bisogni economici, pubblica il romanzo Il marito di Elena dove riprende i temi erotico-mondani con una accurata indagine psicologica.
Dopo qualche viaggio in Francia pubblica nel 1883 la raccolta di dodici novelle con il titolo Novelle rusticane, dove predomina il tema della “roba”.
Il 1884 è caratterizzato dall’esordio teatrale dello scrittore, mettendo in scena la novella Cavalleria Rusticana sarà rappresentata il 14 Gennaio a Torino dalla compagnia di Cesare Rossi con attori principali come Eleonora Duse nella parte di Santuzza e Flavio Andò in quella di Turiddu.
Nel 1893 si trasferisce definitivamente a Catania, dove ha una crisi creativa che gli impedisce di proseguire sulla strada del verismo e non gli farà mai completare il Ciclo dei vinti.
Nel dopoguerra Verga si avvicina al movimento fascista, mostrando simpatia per la figura politica in ascesa di Benito Mussolini, anche se non si iscriverà mai ai Fasci di combattimento.
Il 24 Gennaio 1922, colto da ictus, non riprende più conoscenza e il 27 Gennaio 1922 muore per emorragia celebrale a Catania.
Firma dello scrittore
CAVALLERIA RUSTICANA – NOVELLA –
Turiddu Macca, il figlio della gnà Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll'uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quello della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini. Le ragazze se lo rubavano cogli occhi, mentre andavano a messa col naso dentro la mantellina, e i monelli gli ronzavano attorno come le mosche. Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella dalla pancia, voleva trargli, a quel di Licodia! però non ne fece nulla, e si sfogò coll'andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella.
- Che non ha nulla da fare Turiddu della gnà Nunzia, dicevano i vicini, che passa le notti a cantare come una passera solitaria?
Finalmente s'imbatté in Lola che tornava dal viaggio alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato fatto suo.
- Beato chi vi vede! le disse.
- Oh, compare Turiddu, me l'avevano detto che siete tornato al primo del mese.
- A me mi hanno detto delle altre cose ancora! rispose lui. Che è vero che vi maritate con compare Alfio, il carrettiere?
- Se c'è la volontà di Dio! rispose Lola tirandosi sul mento le due cocche del fazzoletto.
- La volontà di Dio la fate col tira e molla come vi torna conto! E la volontà di Dio fu che dovevo tornare da tanto lontano per trovare ste belle notizie, gnà Lola!
Il poveraccio tentava di fare ancora il bravo, ma la voce gli si era fatta roca; ed egli andava dietro alla ragazza dondolandosi colla nappa del berretto che gli ballava di qua e di là sulle spalle. A lei, in coscienza, rincresceva di vederlo così col viso lungo, però non aveva cuore di lusingarlo con belle parole.
- Sentite, compare Turiddu, gli disse alfine, lasciatemi raggiungere le mie compagne. Che direbbero in paese se mi vedessero con voi?...
- E giusto, rispose Turiddu; ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre invece, poveretta, la
dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch'ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra sul cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d'andarmene, che Dio sa quante lagrime ci ho pianto dentro nell'andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu.
La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli d'oro che le aveva regalati suo marito. Turiddu seguitava a passare e ripassare per la stradicciuola, colla pipa in bocca e le mani in tasca, in aria d'indifferenza, e occhieggiando le ragazze; ma dentro ci si rodeva che il marito di Lola avesse tutto quell'oro, e che ella fingesse di non accorgersi di lui quando passava. - Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia! borbottava.
Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiuolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza.
- Perché non andate a dirle alla gnà Lola ste belle cose? rispondeva Santa.
- La gnà Lola è una signorona! La gnà Lola ha sposato un re di corona, ora!
- Io non me li merito i re di corona.
- Voi ne valete cento delle Lole, e conosco uno che non guarderebbe la gnà Lola, né il suo santo, quando ci siete voi, ché la gnà Lola, non è degna di portarvi le scarpe, non è degna.
- La volpe quando all'uva non ci poté arrivare...
- Disse: come sei bella, racinedda mia!
- Ohé! quelle mani, compare Turiddu.
- Avete paura che vi mangi?
- Paura non ho né di voi, né del vostro Dio.
- Eh! vostra madre era di Licodia, lo sappiamo! Avete il sangue rissoso! Uh! che vi mangerei cogli occhi!
- Mangiatemi pure cogli occhi, che briciole non ne faremo; ma intanto tiratemi su quel fascio.
- Per voi tirerei su tutta la casa, tirerei!
Ella, per non farsi rossa, gli tirò un ceppo che aveva sottomano, e non lo colse per miracolo.
- Spicciamoci, che le chiacchiere non ne affastellano sarmenti.
- Se fossi ricco, vorrei cercarmi una moglie come voi, gnà Santa.
- Io non sposerò un re di corona come la gnà Lola, ma la mia dote ce l'ho anch'io, quando il Signore mi manderà qualcheduno.
- Lo sappiamo che siete ricca, lo sappiamo!
- Se lo sapete allora spicciatevi, ché il babbo sta per venire, e non vorrei farmi trovare nel cortile.
Il babbo cominciava a torcere il muso, ma la ragazza fingeva di non accorgersi, poiché la nappa del berretto del bersagliere gli aveva fatto il solletico dentro il cuore, e le ballava sempre dinanzi gli occhi. Come il babbo mise Turiddu fuori dell'uscio, la figliuola gli aprì la finestra, e stava a chiacchierare con lui tutta la sera, che tutto il vicinato non parlava d'altro.
Per te impazzisco, diceva Turiddu, e perdo il sonno e l'appetito.
- Chiacchiere.
- Vorrei essere il figlio di Vittorio Emanuele per sposarti!
- Chiacchiere.
- Per la Madonna che ti mangerei come il pane!
- Chiacchiere!
- Ah! sull'onor mio!
- Ah! mamma mia!
Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilico, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu.
- E così, compare Turiddu, gli amici vecchi non si salutano più?
- Ma! sospirò il giovinotto, beato chi può salutarvi!
- Se avete intenzione di salutarmi, lo sapete dove sto di casa! rispose Lola.
Turiddu tornò a salutarla così spesso che Santa se ne avvide, e gli batté la finestra sul muso. I vicini se lo mostravano con un sorriso, o con un moto del capo quando passava il bersagliere. Il marito di Lola era in giro per le fiere con le sue mule.
- Domenica voglio andare a confessarmi, ché stanotte ho sognato dell'uva nera, disse Lola.
- Lascia stare! lascia stare! supplicava Turiddu.
- No, ora che s'avvicina la Pasqua, mio marito lo vorrebbe sapere il perché non sono andata a confessarmi.
- Ah! mormorava Santa di massaro Cola, aspettando ginocchioni il suo turno dinanzi al confessionario dove Lola stava facendo il bucato dei suoi peccati. Sull'anima mia non voglio mandarti a Roma per la penitenza!
Compare Alfio tornò colle sue mule, carico di soldoni e portò in regalo alla moglie una bella veste nuova per le feste.
- Avete ragione di portarle dei regali, gli disse la vicina Santa, perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!
Compare Alfio era di quei carrettieri che portano il berretto sull'orecchio, e a sentir parlare in tal modo di sua moglie cambiò di colore come se l'avessero accoltellato. - Santo diavolone! esclamò, se non avete visto bene, non vi lascierò gli occhi per piangere! a voi e a tutto il vostro parentado!
- Non son usa a piangere! rispose Santa; non ho pianto nemmeno quando ho visto con questi occhi Turiddu della gnà Nunzia entrare di notte in casa di vostra moglie.
- Va bene, rispose compare Alfio, grazie tante.
Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l'uggia all'osteria, cogli amici; e la vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell'affare e posò la forchetta sul piatto.
- Avete comandi da darmi, compare Alfio? gli disse.
- Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e voleva parlarvi di quella cosa che sapete voi.
Turiddu da prima gli aveva presentato il bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse:
- Son qui, compar Alfio.
Il carrettiere gli buttò le braccia al collo.
- Se domattina volete venire nei fichidindia della Canziria potremo parlare di quell'affare, compare.
- Aspettatemi sullo stradone allo spuntar del sole, e ci andremo insieme.
Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l'orecchio del carrettiere, e così gli fece promessa solenne di non mancare.
Gli amici avevano lasciato la salciccia zitti zitti, e accompagnarono Turiddu sino a casa. La gnà Nunzia, poveretta, l'aspettava sin tardi ogni sera.
- Mamma, le disse Turiddu, vi rammentate quando sono andato soldato, che credevate non avessi a tornar più? Datemi un bel bacio come allora, perché domattina andrò lontano.
Prima di giorno si prese il suo coltello a molla, che aveva nascosto sotto il fieno quando era andato coscritto, e si mise in cammino pei fichidindia della Canziria.
- Oh! Gesummaria! dove andate con quella furia? piagnucolava Lola sgomenta, mentre suo marito stava per uscire.
- Vado qui vicino, rispose compar Alfio, ma per te sarebbe meglio che io non tornassi più.
Lola, in camicia, pregava ai piedi del letto e si stringeva sulle labbra il rosario che le aveva portato fra Bernardino dai Luoghi Santi, e recitava tutte le avemarie che potevano capirvi.
- Compare Alfio, cominciò Turiddu dopo che ebbe fatto un pezzo di strada accanto al suo compagno, il quale stava zitto, e col berretto sugli occhi. Come è vero Iddio so che ho torto e mi lascierei ammazzare. Ma prima di venir qui ho visto la mia vecchia che si era alzata per vedermi partire, col pretesto di governare il pollaio, quasi il cuore le parlasse, e quant'è vero Iddio vi ammazzerò come un cane per non far piangere la mia vecchierella.
- Così va bene, rispose compare Alfio, spogliandosi del farsetto, e picchieremo sodo tutt'e due.
Entrambi erano bravi tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tirò all'anguinaia.
- Ah! compare Turiddu! avete proprio intenzione di ammazzarmi!
- Sì, ve l'ho detto; ora che ho visto la mia vecchia nel pollaio, mi pare di averla sempre dinanzi agli occhi.
- Apriteli bene, gli occhi! gli gridò compar Alfio, che sto per rendervi la buona misura.
Come egli stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di polvere e la gettò negli occhi dell'avversario.
- Ah! urlò Turiddu accecato, son morto.
Ei cercava di salvarsi facendo salti disperati all'indietro; ma compar Alfio lo raggiunse con un'altra botta nello stomaco e una terza nella gola.
- E tre! questa è per la casa che tu m'hai adornato. Ora tua madre lascierà stare le galline.
Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là fra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola, e non poté profferire nemmeno: - Ah! mamma mia!
Questa novella nasce inizialmente come episodio del romanzo I Malavoglia ma poi viene pubblicata come racconto a se stante sul Fanfulla della Domenica , un settimanale politico.
Verga ne ricava in seguito un dramma in un solo atto, rappresentato per la prima volta al teatro Carignano di Torino il 14 gennaio 1884.
La Novella racconta la storia di Turiddu Macca, figlio di Nunzia che, tornato dal servizio militare, viene a sapere che Lola, figlia del massaio Angelo, si era sposata con compare Alfio, carrettiere di Licodia.
Il geloso Turiddu vuole vendicarsi dell'affronto così inizia a corteggiare Santa, la figlia del massaio Cola.
I due innamorati ogni sera trascorrono il tempo a chiacchierare e a dirsi parole dolci, "che tutto il vicinato non parlava d'altro". Ma Lola che ascoltava ogni sera, nascosta dietro il vaso di basilico, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu e i due ricominciano a salutarsi e a frequentarsi. Quando Santa se ne accorse, rifiutò di vedere di nuovo Turiddu.
Si avvicina intanto la Pasqua e Lola sogna dell'uva nera che, secondo la mentalità locale siciliana, significa guai per il suo innamorato.
Quando compare Alfio ritorna con tanti soldi e una bella veste nuova in regalo per la moglie ma Santa gli rivela della storia tra Lola e Turiddu.
Turiddu che non si faceva più vedere per le vie della città si trova in un’osteria quando vede entrare Alfio che gli lancia il “bacio della sfida”.
Arrivato il momento della sfida Alfio uccide con una coltellata Turiddu senza lasciargli nemmeno il tempo di dire “Ah, Mamma mia!”.
Copertina della Cavalleria Rusticana
PIETRO MASCAGNI
LA VITA
Pietro Antonio Stefano Mascagni nasce a Livorno il 7 dicembre 1863 da padre Domenico, proprietario di un forno. Pietro ha quattro fratelli, ma si mostra sin da subito il più intelligente e viene avviato agli studi umanistici.
Dal 1876 si dedica pienamente allo studio della musica presso l’istituto musicale di Livorno, dove impara a suonare pianoforte, organo, violino, contrabbasso e alcuni strumenti a fiato, oltre al quale segue lezioni di armonia e contrappunto.
Si trasferisce poi a Milano per studiare al conservatorio, periodo durante il quale Mascagni condivide per cinque anni una stanza in affitto con Giacomo Puccini .
In conservatorio però il musicista si trova presto in difficoltà perché la sua musica più moderna si scontra con la disciplina musicale impartita dai docenti.
Nel 1885 Mascagni abbandona il conservatorio per unirsi a compagnie d’operetta come direttore d’orchestra, fino a quando si stabilisce con la moglie a Cerignola rimanendoci una decina di anni. È in questo periodo che scrive la sua opera più famosa, la cavalleria rusticana.
Nel 1888 Mascagni s’iscrive a un concorso per un’opera in un singolo atto, chiede al suo amico Giovanni Tozzetti , poeta della Scapigliatura e professore di letteratura di scrivere il libretto.
Per l’opera Tozzetti sceglie la novella verghiana Cavalleria Rusticana facendosi aiutare da Guido Menasci .
L’opera viene completata l’ultimo giorno valido per l’iscrizione al concorso ed è proclamata vincitrice (su settantatré partecipanti).
Debutta il 17 maggio 1890 per la prima volta al Teatro Costanzi di Roma, ottenendo un successo clamoroso.
Nel 1927 Mascagni ricevette la delega dal Governo in qualità di rappresentante dell'Italia, in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte di Ludwig Van Beethoven, che ebbero luogo a Vienna.
Nel 1927 Mascagni riceve la delega dal governo in qualità di rappresentante dell’Italia, in occasione delle celebrazioni del centenario della morte di Beethoven.
Nel 1932 s’iscrive al Partito Nazionale Fascista.
Pietro Mascagni morì nel suo appartamento dell’Hotel di Roma il 2 Agosto del 1945.
Firma del compositore
CAVALLERIA RUSTICANA – OPERA –
È l’opera tratta dalla novella omonima di Verga in un unico atto di Pietro Mascagni, messa in scena per la prima volta il 17 Maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma, su libretto di Giovanni Tozzetti e Guido Menasci.
L’opera ottiene molto successo, e viene rappresentata in tutta Italia, oltre che in tutta Europa (a Berlino, Budapest e Londra) e in America. Alla morte di Mascagni l’opera era già stata rappresentata più di quattordici mila volte solo in Italia.
Nel 1888 l'editore milanese Edoardo Sonzogno annunciò un concorso aperto a tutti i giovani compositori italiani che non avevano ancora fatto rappresentare una loro opera. I partecipanti dovevano scrivere un'opera in un unico atto, e le tre migliori produzioni (selezionate da una giuria composta da cinque importanti musicisti e critici italiani) sarebbero state rappresentate a Roma a spese dello stesso Sonzogno.
Mascagni, che a quell’epoca dirigeva una piccola banda di paese nei pressi di Foggia, viene a conoscenza di questo concorso solo due mesi prima della chiusura delle iscrizioni. Completa l’opera solo l’ultimo giorno valido per l’iscrizione vincendo comunque il concorso.
La scena si svolge in un paese siciliano (ispirato a Vizzini) durante il giorno di Pasqua. Ancora a sipario calato, si sente Turiddu, il tenore, cantare una serenata a Lola, sua promessa sposa, che durante il servizio militare di Turiddu ha però sposato Alfio. La scena si riempie di paesani e paesane in festa, giunge anche Santa, detta Santuzza, attuale fidanzata di Turiddu, che decide di non entrare in chiesa sentendosi in grave peccato. Si rivolge allora a mamma Lucia, madre di Turiddu, chiedendole notizie del figlio.
Lucia dice a Santuzza che Turiddu è andato a Francofonte a comprare il vino, ma Santuzza risponde che Turiddu è stato visto in paese nel bel mezzo della notte. Lucia replica stizzita e le chiede di entrare in casa: ha paura che qualcuno possa sentire la loro conversazione, ma Santuzza rifiuta l'invito perché si sente disonorata. Intanto, Alfio giunge a far visita a Lucia e le domanda del vino: Lucia riferisce che Turiddu è andato a Francofonte per comprarne, ma Alfio replica di averlo visto al mattino vicino casa sua. Compare Alfio se ne va e a questo punto Santuzza svela a Lucia la relazione tra Turiddu e Lola, pur essendo quest'ultima sposata: Lucia, attonita, invoca la Madonna e si allontana. Giunge Turiddu che discute animatamente con Santuzza; quindi, interviene anche Lola, diretta alla chiesa, e le due donne si scambiano battute ironiche.
Dopo che Lola è entrata in chiesa, la discussione tra Turiddu e Santuzza degenera in lite violenta fino a che, gettata a terra da Turiddu, al colmo dello sdegno, Santuzza gli augura la malapasqua. Quindi Turiddu entra in chiesa. Santuzza, rialzatasi, vede arrivare Alfio e gli denuncia la tresca amorosa della moglie. Dopo la messa, Turiddu offre vino a tutti i paesani per stare più tempo con Lola. Giunge Alfio, Turiddu gli offre del vino, ma questi rifiuta. Così, Turiddu getta via il vino e, con la scusa di un abbraccio pacificatore, morde l'orecchio ad Alfio sfidandolo a duello. Turiddu corre a salutare la madre e, ubriaco, le dice addio affidandole Santuzza.
Subito dopo si sente un vociare di donne e popolani. Un urlo sovrasta gli altri: "Hanno ammazzato compare Turiddu!".
L’opera è divisa in due parti diseguali dall’Intermezzo, brano puramente orchestrale senza accompagnamento di voci.
La partitura di Mascagni prevede l'utilizzo di:
2 ottavini, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti;
4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, tuba;
timpani, grancassa, piatti, triangolo, tamburo, campane tubolari, frusta;
arpa, organo;
archi.
CONFRONTO TRA LA NOVELLA E L’OPERA
Tra la Cavalleria Rusticana di Verga e quella di Mascagni emergono in maniera evidente delle differenze. Tali differenze sono principalmente dovute ai diversi intenti degli autori e soprattutto ai contesti in cui hanno operato.
La novella è indirizzata a un ampio pubblico di lettori, che non comprende necessariamente la borghesia. Il melodramma di Mascagni, in quanto opera teatrale, è rivolta a una ristretta porzione di società, la medio-alta borghesia.
Anche gli obbiettivi dei due autori sono diversi, e quindi risulta diverso il linguaggio usato, Verga utilizza un basso livello, mentre con Mascagni è più elevato poetico.
Per questi motivi l’opera di Mascagni non rispecchia i presupposti estetici del verismo usati da Verga, attraverso l’eclissi dell’autore e la regressione nell’ambiente rappresentato.
L’opera musicale viene interpretata da Mascagni più che dal punto di vista realistico da quello della finzione.
Con il Verismo si cerca di descrivere la vicenda dal punto di vista dei personaggi, come se fosse un contadino del luogo a raccontare la situazione, per questo in Verga troviamo spesso alcune parole scritte in dialetto locale, mente quest’aspetto non si trova nel melodramma.
Un piccolo esempio si può trovare subito con i nomi dei personaggi, la madre di Turiddu che in Verga prende il nome di Gnà Nunzia, in Mascagni è caratterizzata da un tono più elevato, essendo ribattezzato nel nome più elegante di Lucia.
Inoltre a livello di trama Mascagni rende ogni azione finalizzata a una catastrofe, facendo venir meno ogni giudizio morale sugli eventi, cosa a cui Verga teneva molto.
Altre differenze si possono vedere in alcuni accorgimenti linguistici usati da Mascagni per adattare la novella al palcoscenico, per portare effetti immediati sul pubblico, le frasi infatti sono molto più brevi e cariche di pathos.
DIRITTI D’AUTORE
Nel mese di marzo, precedente la prima rappresentazione, Verga aveva concesso l’autorizzazione a elaborare la Cavalleria Rusticana offrendosi di collaborare al libretto, quando però Tozzetti e Menasci l’avevano già terminato da qualche tempo.
Mascagni assicura a Verga l’impegno di corrispondere il denaro per i diritti d’autore secondo le norme della Società Italiana degli Autori e degli Editori (SIAE) fondata a Milano nel 1882.
Quando però Verga si accorge dell’enorme successo del melodramma, cita Pietro Mascagni in giudizio di fronte al tribunale di Milano, reclamando la metà dei guadagni dell’opera, con l’argomentazione di essere il vero autore del libretto.
Una prima sentenza da ragione a Verga, relegando Tozzetti e Menasci al semplice ruolo di adattatori di un libretto già esistente. Qualche mese dopo la sentenza d’appello riconobbe ai due librettisti la piena dignità del lavoro da loro svolto.
Inizialmente venne offerta allo scrittore una modesta cifra di mille lire che Verga non volle accettare. Alla fine dopo tre anni di vicende giudiziarie Verga accetta una tantum di centoquarantatremila lire come “compensazione finale”.
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Il diritto di distribuzione, cioè il diritto di porre in commercio l’opera.
Il diritto di elaborazione, cioè il diritto di apportare modifiche all’opera originale, di trasformarla, adattarla, ridurla.
Tutti questi diritti permettono all’autore dell’opera di autorizzare la riproduzione della sua opera traendone i benefici economici. Questi diritti durano per tutta la vita dell’autore e per settanta anni dopo la sua morte, trascorso questo periodo l’opera dell’autore diventa di dominio pubblico e quindi diventa utilizzabile senza alcuna autorizzazione e senza nessun compenso per i diritti d’autore.
IL SUONO
Il suono può essere definito come l’effetto sensibile all’orecchio delle vibrazioni di un corpo elastico che si trasmettono al mezzo che lo circonda sotto forma di variazioni di pressione, cioè sotto forma di onde sonore.
Come ogni vibrazione anche il suono possiede quattro caratteristiche principali:
Altezza (acuto-grave, alto-basso) definita come il numero di vibrazioni nell’unità di tempo, viene misurata in Hertz essendo una frequenza.
Intensità (forte-piano) è direttamente proporzionale all’ampiezza delle vibrazioni ed è misurata in decibel, maggiore è l’estensione dell’onda maggiore sarà l’intensità del suono.
Timbro o colore (chiaro-scuro, aspro-dolce) è legato alla forma complessiva dell’onda sonora, dipende principalmente dallo strumento che la emette, un pianoforte produrrà un timbro differente da un flauto o da una voce umana.
Durata (lunga-breve) è il prolungarsi dell’onda sonora nel tempo.
Per quanto riguarda l’altezza di un suono, questi possono essere rappresentati graficamente mediante segni puntiformi chiamati note.
La disposizione spaziale delle note dipende rispetto all’asse verticale indicando l’altezza di una nota, e rispetto all’asse orizzontale che lega le note alla produzione dei suoni nel tempo.
Le note per essere ordinate vengono disposte su una griglia grafica definita come pentagramma, un insieme di cinque linee parallele alle quali s’intersecano quattro spazi.
Nella teoria musicale tradizionale le note di base sono sette, e vengono denominate con sillabe oppure con lettere dell’alfabeto (il la corrisponde alla lettera A dell’alfabeto).
La chiave è il simbolo che fissa un suono di riferimento rispetto al quale si leggono tutti gli altri suoni, le chiavi sono di Sol o di Violino, la chiave di Do e la chiave di Fa o di Basso. Confrontando tra di loro le diverse chiavi si può osservare che le tre note di riferimento delle chiavi sono situate a una distanza di quinte (ci sono 5 note di distanza tra una chiave e l’altra).
Spostando le chiavi all’interno del pentagramma si ha una maggiore facilità nella scrittura delle note, per non usare tagli addizionali.
Tra una nota e la successiva intercorrono delle distanze, che possono essere di toni o semitoni. Un tono è la distanza più grande tra due gradi congiunti. Un semitono è la distanza più piccola e rappresenta la metà di un tono.
Nella scala di Do Maggiore troviamo la successione di due toni, un semitono, tre toni e di nuovo un semitono, come rappresentato in figura.
Un semitono diatonico è tra due note di nome diverso, come Mi-Fa, Do-Re♭, mentre un semitono cromatico è un semitono tra due note dello stesso nome, come Do-Do ♯.
Quindi, i segni e i simboli moderni possono definire in assoluto le altezze dei suoni, ma comunque la notazione di un’altezza rimane sempre qualcosa di non perfettamente definito, per farlo bisogna fare dei cenni all’acustica, quella branca della fisica che si occupa dello studio del suono.
Come si può osservare dall’immagine, nel basso è raffigurata una tastiera del pianoforte standard formata da 88 tasti con un’estensione di 7 ottave, con la continua successione di tono-tono-semitono, tono-tono-tono-semitono.
Si può anche osservare l’estensione di due ottave delle diverse voci presenti in un coro, basso, baritono, tenore, contralto e soprano.
LA FISICA DEL SUONO
Il suono puro è una vibrazione sinusoidale isolata, la quale viene trasmessa sotto forma di onde sonore, all’aria o a un altro mezzo elastico, con una velocità costante di 331 m/s.
Questo valore è stato misurato sperimentalmente per la prima volta nell’aria alla temperatura di 0 °C e alla pressione di 1 atm per la prima volta da Mersenne .
Collegato all’aspetto fisico di suono, c’è anche l’aspetto fisiologico, che riguarda la percezione del suono.
Le sensazioni fisiologiche prodotte dalle onde sonore non crescono secondo una relazione lineare con lo stimolo, ma seguono un andamento logaritmico della grandezza fisica che produce il suono.
Se ad esempio l’intensità dello stimolo cresce secondo potenze di 10 (102, 103, 104,…) le conseguenti sensazioni aumentano secondo i valori espressi dagli esponenti, quindi di due, tre, quattro,… volte.
In generale, vale la relazione:
β=k∙log_10(I/I^' )
Dove β è la sensazione fisiologica del soggetto, k una costante adimensionale, I l’intensità fisica dello stimolo e I’ un valore di riferimento per l’intensità.
Se I1 e I2 rappresentano le intensità di due suoni, la differenza delle corrispondenti sensazioni acustiche è fornita, per le proprietà dei logaritmi , dalla relazione:
β_2-β_1=k∙log_10〖I_2-k∙log_10〖I_1=k∙log_10(I_2/I_1 ) 〗 〗
Facendo corrispondere a I1 l’intensità I0 della soglia di udibilità di un orecchio normale, ogni sensazione β può essere valutata rispetto alla soglia di udibilità, considerata come intensità di riferimento:
β=k∙log_10(I_2/I_0 )
Fissando anche il valore della costante k, la sensazione fisiologica diventa:
β=log_10(I/I_0 )
In particolare quando I è pari a 10 I0, β è uguale a uno, caso nel quale la sensazione fisiologica è chiamata bel, cioè un suono con intensità dieci volte più grande del valore di riferimento I0, al di sotto della quale il suono non è più percepito.
Solitamente viene utilizzato un sottomultiplo del bel, il decibel [dB], pari a 10-1 bel.
L’orecchio umano capta i rumori esterni e invia i segnali al cervello, ma riesce a percepire solo una parte di tutti i suoni emessi, un intervallo che va da 20 Hz a 20000 Hz, con una sensibilità che varia da 1000 Hz a 5000 Hz.
Mantenendo fissa una frequenza, ad esempio 1000 Hz, l’unità di misura della sensazione uditiva viene chiamata fon o phon (con simbolo F).
Le due grandezze fisiche, fon e decibel si uguagliano solo alla frequenza di 1000 Hz, mente per frequenze diverse non esistono vere e proprie relazioni matematiche precise, ma più relazioni empiriche, di solito espresse graficamente, come si può vedere in figura dalle curve isofoniche, cioè le curve lungo le quali il livello sonoro percepito è costante.
L’equazione di un’onda è un’equazione che permette di calcolare in ogni istante lo spostamento dalla posizione di equilibrio di un qualsiasi punto del mezzo.
Considerando una particella che è stata spostata a causa di un movimento d’aria per una vibrazione, questa inizia a oscillare. Se ipoteticamente potessimo mettere dell’inchiostro sulla particella e inserire un foglio bianco dietro la particella disposto parallelamente, la particella traccerebbe un segno, una curva tipica delle onde chiamata curva sinusoidale.
Supponendo che al tempo t=0 il profilo dell’onda di lunghezza d’onda λ e ampiezza A, si ha una funzione sinusoidale della coordinata x:
y=A∙sin((2∙π)/λ∙x)
Dove y è lo spostamento dalla posizione di equilibrio del punto individuato dalla coordinata x nel mezzo in cui si propaga l’onda.
Esprimendo la funzione in un generico istante t, l’equazione precedente diventa:
y=A∙sin[(2∙π)/λ∙(x-v∙t)]
Riscrivibile tenendo conto che il rapporto tra la velocità e la lunghezza d’onda è pari alla frequenza, cioè il reciproco del periodo:
y=A∙sin[2∙π∙( x/λ-t/T )]
Da questo grafico si possono individuare alcune grandezze:
Periodo (T) definito come il più piccolo intervallo di tempo dopo il quale il moto riassume le stesse caratteristiche in ogni punto del mezzo in cui si propaga l’onda, nel Sistema Internazionale viene misurato in secondi
Frequenza che rappresenta il numero di vibrazioni complete che avvengono in un secondo, è l’inverso del periodo, e per questo la sua unità di misura è l’Hertz, pari a un secondo alla meno uno [Hz].
Elongazione (e) è lo spostamento della particella dalla posizione di equilibrio.
Ampiezza (A) rappresenta la distanza massima di tale spostamento, l’intensità di un suono è direttamente proporzionale a questa grandezza.
Fase è la posizione raggiunta dalla vibrazione in un istante dato e alla quale corrisponde un angolo di fase (ϕ).
Lunghezza d’onda (λ) è la distanza percorsa dall’onda in un periodo, è legata alle caratteristiche del mezzo in cui il suono si propaga.
Le voci e gli strumenti musicali sono organismi complessi in cui anche il semplice elemento vibrante, come una membrana, una colonna d’aria o una corda vibra contemporaneamente nella sua tonalità e nelle sue proporzioni, producendo una frequenza fondamentale e altre frequenze armoniche.
L’orecchio umano tende a identificare la frequenza fondamentale come connotazione dell’altezza assoluta e le altre frequenze armoniche come timbro.
Il suono naturale di qualsiasi cosa è quindi complesso, dato dalla somma di più curve sinusoidali che si fondono insieme.
Dal grafico si può osservare che il suono complesso tracciato dalla curva rossa può essere considerato come somma di tre suoni semplici: I (giallo), II (verde) e III (blu).
Il diapason, oggetto utilizzato per accordare gli strumenti musicali, ha una frequenza fissa di 440 Hz, mentre ad esempio suonando il tasto do1 sul pianoforte o analogamente la corda di un violoncello, viene prodotta la frequenza fondamentale di 65 Hz, e le sue armoniche a intervalli fissi, perché fisse sono le porzioni della corda che entrano in vibrazione.
LA QUESTIONE MERIDIONALE
Verga nasce a Catania, città siciliana, in cui la vita non era sempre semplice a causa di alcuni problemi economici come la Questione Meridionale e il brigantaggio.
Il termine Questione Meridionale viene usata per la prima volta nel 1873 dal deputato lombardo Antonio Billia per intendere la situazione economico-sociale dell’Italia meridionale in confronto alle regioni della penisola unificata.
I contadini del Sud Italia speravano che la rivoluzione garibaldina portasse una riforma agraria che li rendesse proprietari della terra che lavoravano, invece si trovarono ad affrontare vari problemi come la leva obbligatoria e alcune crisi agricole.
Oltre ad essere un problema di tipo economico, la Questione Meridionale divenne anche un dibattito politico e culturale.
Nella letteratura la Questione Meridionale è ben evidenziata da autori come Franchetti e Sonnino , Croce e Verga.
Uno dei Romanzi che rispecchiano di più la Questione Meridionale successiva all’Unità d’Italia del 1861 è “I Malavoglia”, Componimento di Giovanni Verga del Ciclo dei Vinti.
Nel primo capitolo viene affrontato il problema della leva obbligatoria (istituita dai Savoia accusati della piemontizzazione), come deve affrontare Luca, secondo genito di Bastianazzo costretto a partecipare alla Battaglia di Lissa, nella quale poi morirà.
Nel secondo capitolo c’è una distinzione tra i pescatori poveri del Sud e le aziende della pesca del Nord, infatti il capofamiglia Bastianazzo, figlio di Padron ‘Ntoni, che per cercare di arricchire la famiglia muore su una barca con un carico di lupini.
Nel terzo capitolo del romanzo viene accennata la tassa sul sale e sulla successione, nel quarto si parla del continuo aumento di tasse da parte dello stato.
Verga riprende più volte il discorso economico, anche durante le tragedie famigliari, anche per sottolineare che, in quel periodo, era il punto fisso per ogni persona.
Al confronto, Zio Crocefisso, l’usuraio del paese che finanzia la famiglia di padron ‘Ntoni, il simbolo delle forme sociali che rappresentano l’improduttività, come dice Verga “si pappava il meglio della pesca senza pericolo”.
Verga guarda con sospetto l’industrializzazione in atto a spese del Sud Italia. Già nella prefazione del romanzo non è presente alcuna ideologia evoluzionistica con un senso positivo. L’autore descrive il progresso come una “fiumana”, può sembrare stupendo solo per chi lo vede da lontano, ma osservandolo da vicino si scoprono lotte feroci e conseguenti sconfitte dei deboli da parte dei grandi imprenditori.
La rapida trasformazione politica che divise il Nord dal Mezzogiorno italiano suscitò ovunque dei malcontenti, uno dei maggiori distacchi era il fenomeno del brigantaggio.
La nascita e le cause sono antiche e profonde, ma la situazione si aggravò subito dopo l’asta dei beni demaniali ed ecclesiastici. I compratori appartenevano prevalentemente alla borghesia rurale.
Questo fece aggravare le condizioni dei contadini che in pochi mesi causarono la ripresa dei disordini che in pochi mesi assunsero le proporzioni di una guerriglia.
In tutto il Sud alcune bande armate di briganti iniziarono a rapinare, uccidere, sequestrare e incendiare le proprietà dei nuovi ricchi. Si riuscirono a rifugiare nelle montagne nascosti da poveri contadini e antichi proprietari terrieri che desideravano il ritorno dei Borboni .
Le bande di briganti erano costituite principalmente da braccianti, contadini salariati esasperati dalla miseria, ex garibaldini ed ex borbonici.
Gli scopi di queste bande erano di ottenere una riforma agraria che Garibaldi non aveva concesso e impedire la realizzazione dell’Unità d’Italia per far tornare i Borboni.
I contadini meridionali, tenuti per secoli nell’ignoranza e nella miseria, non avevano ancora maturato una coscienza politica dei loro diritti e tantomeno un cambiamento attraverso mezzi legali.
Lo Stato italiano rispose con una guerra nei confronti della rivolta sociale, nel 1863 quasi la metà dell’esercito italiano era impegnato nella lotta al brigantaggio.
Nello stesso anno vennero proclamate le leggi marziali, processi sommari nei confronti dei briganti e di tuti i loro fiancheggiatori.
Nel 1865 il brigantaggio era stato in sostanza sconfitto, ma comunque le classi povere contadine immaginarono spesso i briganti come degli eroi popolari e figure buone.
Elementi di una banda di briganti
LO ZOLFO
Sempre nell’isola natia dello scrittore verista, il territorio dal punto di vista naturalistico ricco di miniere di zolfo, estratto e riutilizzato come materia prima.
Lo zolfo, elemento chimico di simbolo S , numero atomico 16 e perso molecolare 32,064.
Dello zolfo si conoscono 4 diversi isotopi stabili (3216, 3316, 3416,3616), è presente in natura allo stato elementare, o spesso unito a calcare gesso o bitume soprattutto in Sicilia in depositi più e meno abbondanti alla bocca dei vulcani.
In queste zone si formano gas e vapori solforosi e lo zolfo forma solfuri (di ferro, di zinco, di piombo,…) e solfati (di calcio).
Lo zolfo si presenta in diverse forme cristalline, la più stabile è la forma rombica (α) costituita da catene cicliche di 8 atomi disposti a zig-zag, stabile fino alla temperatura di 95,5°C e alla pressione di 1 atm.
Quando la temperatura è maggiore prevale la forma monoclina (β), che rimane stabile fino alla temperatura di 115°C.
L’origine dello zolfo può essere vulcanica, per reazioni tra acido solfidrico e anidride solforosa come nelle solfatare:
2H_2 S+ 〖SO〗_2→3S+ 〖2H〗_2 O
Acido solfidrico+Anidride solforosa→Zolfo+acqua
La figura rappresenta un diagramma di fase dello zolfo indicante alcune zone di stabilità di alcuni stati di aggregazione dello zolfo, mettendo in relazione la pressione con la temperatura.
Lo zolfo, com’è stato detto prima, si forma nelle vicinanze dei vulcani, e i fenomeni a esso legati sono le zolfatare.
Una zolfatara è un apparato vulcanico in cui è presente un campo fumarolico in parte esteso, che emette vapore e gas principalmente sulfurei.
Questo fenomeno è presente nella Sicilia del tempo di Verga, nel corso dell’ottocento, in cui erano presenti grandi miniere di estrazione dello zolfo che ha dato da vivere a molte persone. Le miniere di zolfo sono state l’asse portante dell’economia siciliana.
Allo steso tempo queste fonti di guadagno sono state fonti di morte, a causa della pericolosità nel sottosuolo, che Verga definisce “tane dei lupi” nelle quali l’autore fa smarrire Rosso Malpelo, il protagonista dell’omonima novella:
"Così si persero perfino le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, che hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhi grigi".
Giovanni Verga, Rosso Malpelo.
Restare fino alla fine dei propri giorni a lavorare in miniera non significava necessariamente diventare vecchi; gli incidenti in miniera erano frequenti, dovuti a esplosioni, crolli e incendi, e lo stesso lavoro all'esterno era molto pericoloso per le esalazioni di anidride solforosa.
La facilità con cui si poteva rimanere coinvolti in un incidente spaventava molto gli zolfatai, ma allo stesso tempo essi erano rassegnati, pronti ad accettare il destino.