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Elaborazione del lutto
Elaborazione del lutto
La nozione psicanalitica di “ elaborazione del lutto “ che ho scelto come titolo per questo percorso
sarà tenuta in conto solo lateralmente dalla mia trattazione.
Intendo cominciare con un breve giudizio in merito al film “ La stanza del figlio” di Nanni Moretti.
Come accadeva anche nella tragedia greca, la morte del ragazzino sedicenne, è lasciata
rispettosamente fuori scena.
Da quel momento, che costituisce il nucleo tematico e temporale della vicenda, il tenore del film
muta radicalmente e quella che nella prima parte appariva una quasi banale “ radiografia” della vita
quotidiana di una famiglia medio-borghese, si trasforma in una dolente ricognizione tra le pieghe
dell’angoscia che assale i parenti del ragazzo e in particolare il padre; ma tale processo di dolorosa e
faticosa elaborazione del lutto non viene espresso attraverso effetti di grande tragicità e nemmeno
attraverso i toni urlati tipici dell’odierna TV del dolore : no, tutto quanto è appena sussurrato,
accennato.
La pacatezza quasi surreale dei toni in cui la reazione al tragico trova espressione sembra voler
significare l’assoluta incapacità dell’uomo contemporaneo di confrontarsi con la morte, la quale
diventa così una realtà ineffabile, un argomento di cui non si riesce a parlare : l’individuo è solo con
la propria sofferenza e non sa più nemmeno comunicarla.
A questa solitudine dell’uomo moderno si contrappongono quei modelli di cultura saldamente
socializzata, quali quelli proposti dalle civiltà arcaiche e classiche greche e latine, in cui la forte
ritualizzazione delle forme di cordoglio permetteva uno sfogo controllato del dolore e consentiva
un rapido reinserimento dell’individuo nella società.
L’intellettualizzazione e il progresso della cultura hanno lentamente privato queste forme di pianto
collettivo della loro eccezionale funzione catartica, negando così all’individuo un importante
supporto. Consolatio
E’ questo probabilmente il presupposto della come genere letterario latino, attestato in
questo senso già con Cicerone e sviluppato in maniera compiuta da Seneca.
Consolatio
In particolare nella senecana, la ragione e la parola, le due fedi della civiltà classica
λο;γο∀
sintetizzate nell’unico termine , diventano uno strumento di eccezionale potenza
consolatoria, che per certi aspetti, è, a mio parere, molto simile ai moderni supporti di tipo
psicoanalitico.
Consolatio ad Marciam PRAECEPTA,
Nella i cioè i consigli di ordine pratico su come affrontare il
dolore e superarlo, sono sostenuti da una serie ampia e filosoficamente giustificata di riflessioni di
MAXIMA EXEMPLA
ordine generale, nonché da alcuni . PROBABILIUS,
Al modello di Ottavia viene giustapposto per antitesi quello cioè più opportuno, in
MODERATIUS MITIUS,
quanto e di Livia, che rappresenta così un vero e proprio caso di matura
e consapevole “elaborazione del lutto”.
Proprio il richiamo alla moderazione, caposaldo per altro della morale stoica, mette in luce
l’innaturale disposizione dell’uomo a prolungare oltre modo la propria sofferenza .
Solo capendo la ragione ultima di tale comportamento, che è lo stesso per cui il dolore di Marcia e
VITIUM
un che “ si fa una perversa voluttà di soffrire”, è possibile opporvi un rimedio efficace,
proprio come si fa con le malattie divenute patologiche, che viene da Seneca individuato nella
PRAEMEDITATIO FUTURORUM MALORUM . θρη∋νο∀,
Ritornerei ora a quella modalità di cordoglio collettivo costituita dallo proprio della
civiltà classica greca, i cui moduli epressivi furono in parte ripresi dalla tragedia attica cui , anche
per questa ragione, Aristotele riconosceva una particolare funzione catartica.
Troades
Le di Euripide, datate 415 a. C., si scostano almeno in parte da questo modello:
il patetico raggiunge livelli mai conosciuti dalla precedente produzione dell’autore, che scrive
questo dramma in un contesto storico, quello della guerra del Peloponneso, che sembra non lasciare
adito a speranze. in medias res,
Il dramma comincia quando la tragedia si può dire già consumata, e il prologo
dialogato in cui Posidone abbandona deluso la propria città e Atena mette in luce l’assoluta inanità
delle azioni umane, frutto esclusivamente dei capricci divini, introduce un’azione tragica che non è
in grado di realizzare uno sviluppo drammatico vero e proprio e la cui unica cifra di interpretazione
è data dal pianto e dalla disperazione .
In particolare se nella prima parte al dolore si alternano alcuni momenti di eccezionale e lucida
consapevolezza, per lo più nel personaggio di Ecuba, dopo la morte del piccolo Astianatte ogni
seppur minima speranza per il futuro non ha più ragion d’essere e la tragedia precipita, a partire
dallo struggente addio di Andromaca al figlioletto.
Come anche in Filottete ampio e reiterato è il linguaggio della sofferenza :
Pure l’appello alla divinità è frequente, ma si tratta di invocazioni per lo più formali, perché la
divinità è anzi sentita come lontana e ingiusta, in quanto ha distrutto una città che aveva sempre
rispettato gli dei.
Da segnalare infine l’ingiustizia per cui gli dei
“ elevano in alto gli uomini che non valgono nulla e abbattono coloro che sembrano insigni “
La possibilità di pensare la divinità di fronte alla tragedia è il nucleo fondamentale della riflessione
del popolo ebraico dopo l’Olocausto .
E’ questo un dramma di dimensioni spropositate rispetto al quale il Dio della Rivelazione, il Dio
che ha fatto di Israele il suo popolo eletto, è rimasto muto.
Al proposito comincio col leggere un passo tratto dalla testimonianza di Elie Wiesel nel suo
romanzo “ La notte “, da cui emergono fin troppo chiaramente i termini in cui la questione di
Auschwitz va affrontata, se si vuole assumere come prospettiva quella interna al popolo ebraico.
Di primo acchito la pagina di Wiesel richiama un noto passo de “ La gaia scienza “ di Nietzsche, in
cui l’uomo folle annuncia con profondo senso tragico la morte di Dio .
Ma questa associazione rischia di liquidare il problema in modo superficiale, mentre nell’ambito
della complessa teologia ebraica richiede un ripensamento molto più approfondito e consapevole .
Per questo ho deciso di riferirmi al saggio di Hans Jonas intitolato “ Il concetto di Dio dopo
Auschwitz “ nel quale l’autore, prendendo in considerazione una serie di attributi della divinità
tramandati dalla tradizione, giunge a ricomporre, in perfetta coerenza con le scritture, l’immagine di
un Dio che l’esperienza dello sterminio aveva a dir poco cancellato.
Parla in primo luogo di Dio diveniente, in quanto profondamente ed essenzialmente legato, a partire
dalla Creazione, alle sorti dell’umanità , e di un Dio sofferente , in quanto costantemente ferito dalle
azioni dell’uomo ( Jonas dice che Dio sta “ col fiato sospeso “ ); ma questa sua preoccupazione non
è tale che Dio realizzi lo scopo della sua sollecitudine, per migliorare le condizioni del mondo.
Da qui emerge la questione fondamentale dell’onnipotenza divina su cui la speculazione di Jonas
diventa squisitamente filosofica: egli esplicita infatti il paradosso implicito al concetto di potenza
assoluta.
Onnipotenza significa infatti potenza che non è limitata da nulla, neppure dall’esistenza di qualcosa
di estraneo. La potenza assoluta non ha un oggetto su cui agire ed è perciò potenza vuota, in quanto
priva di senso.
Potenza cioè, è un concetto di relazione ed esige perciò un rapporto multipolare .
Non è possibile che tutta la potenza si trovi unicamente dalla parte di un soggetto agente: perché
esista potenza in generale, essa deve essere spartita.
Oltre a questa giustificazione di carattere logico e ontologico dell’insensatezza del concetto di
onnipotenza divina, Jonas propone una riflessione di carattere teologico e squisitamente religioso.
La Onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta solo al prezzo di una totale non-
comprensibilità di Dio .
La bontà è però inseparabile dal modo di pensare Dio della fede ebraica, a cui per altro il concetto
deus absconditus
di è del tutto estraneo.
Il Dio ebraico è un Dio buono ed è il Dio della Rivelazione.
Il nostro grado di conoscibilità di Dio, in quanto buono, deve escludere l’attributo dell’onnipotenza.