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Estratto del documento

Si alternano nella lirica quattro ordini di immagini: quelle della casa (che bisbiglia

mentre tutto tace), del fiore (invito all’amore), dei morti (che ricorrono

costantemente, segno di un legame oscuro ed ossessivo che gli impedisce di uscire

dal cerchio chiuso, geloso e soffocante della famiglia) e del “nido” come “celle”,

“Chioccetta”, “pigolio di stelle”, (che riproducono l’immagine protettiva e gelosa del

“nido” originario, quello andato perduto e che deve essere ricostruito dai superstiti,

quello dove i piccoli sono protetti dai grandi ed il sesso inquietante è assente).

Nell’ultima quartina si assiste nel miracolo notturno alla gestazione di una nuova vita

nell’“urna molle e segreta”; il fiore viene totalmente umanizzato.

Dalla visione del mondo scaturisce la poetica pascoliana.

L’idea centrale è che il poeta coincide con il fanciullo che sopravvive al fondo di ogni

uomo: un fanciullo che vede ogni cosa come per la prima volta, con ingenuo stupore;

come Adamo anche il poeta “fanciullino” dà il nome alle cose e trovandosi come in

presenza di un mondo novello deve utilizzare una parola novella che si sottragga ai

meccanismi mortificanti della comunicazione abituale e sappia andare all’intimo

delle cose.

La poesia diviene conoscenza “aurorale”, prerazionale, immaginosa.

L’atteggiamento irrazionale ed intuitivo consente una conoscenza intima della realtà e

permette di cogliere l’essenza segreta delle cose, scoprendo le relazioni e le

somiglianze più ingegnose.

Il poeta appare come un veggente dotato di una vista più acuta di quella degli uomini

comuni, colui che può spingere lo sguardo oltre le apparenze sensibili, attingere

all’ignoto, esplorare il mistero.

Qui si colloca la concezione di poesia pura: il poeta canta solo per cantare, non vuole

assumere il ruolo di consigliere, non si propone obiettivi civili, morali, pedagogici.

Il sentimento poetico, tuttavia, dando vita al fanciullo che è in noi, sopisce gli odi e

gli impulsi violenti propri dell’uomo, induce alla bontà, all’amore e alla fratellanza,

placa il desiderio di accrescere i propri possessi.

Nella poesia pura, quindi, è implicita un’utopia umanitaria che invita

all’affratellamento di tutti gli uomini.

Si arriva all’abolizione della lotta tra classi ed ad una socialismo umanitario ed

utopico.

Questa sorta di predicazione si avvale anche di miti, impiegati per il loro potente

valore suggestivo, che trovano un immediato riscontro in un pubblico: il fanciullino,

che rappresenta la nostra parte buona ed ingenua garantisce la fraternità tra uomini; il

“nido” familiare caldo e protettivo, in cui i componenti si possono stringere per

trovare conforto e riparo dall’urto di una realtà esterna minacciosa e paurosa. Al

“nido” si collega il motivo ossessivo dei morti che scaturisce dall’assassinio del

padre. La tragedia personale è trasformata in una vicenda esemplare; il poeta diviene

poeta ufficiale, poeta vate allargando la sua predicazione a temi più vasti che

investono l’umanità intera.

Pascoli è il contrario del poeta maledetto, incarna piuttosto l’immagine del piccolo

borghese, appagato dalla sua mediocrità di vita, chiuso nella sfera privata degli affetti

domestici, degli studi, del lavoro, nella pace del “nido”; rappresenta il celebratore

della realtà piccolo borghese e dei suoi valori.

Da questo senso geloso della proprietà, del “nido”, chiuso che si allarga ad inglobare

l’intera nazione nasce il suo nazionalismo; egli, infatti sente il dramma

dell’emigrazione.

Al di là del cantore borghese, però, si delinea il poeta dell’irrazionale, capace di

raggiungere in questa zona inedita profondità inaudite.

I “due Pascoli” hanno una radice comune, sono connessi da legami profondi e

necessari: la celebrazione del nido, delle piccole cose, della mediocrità, della

fraternità umana è proposta per erigere un baluardo rassicurante dinanzi all’urgere di

forze minacciose, che Pascoli avverte con paura, sgomento ed inquietudine.

LAVANDARE

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero

resta un aratro senza buoi che pare

dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene

lo sciabordare delle lavandare

con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,

e tu non torni ancora al tuo paese!

quando partisti, come son rimasta!

come l’aratro in mezzo alla maggese

In “lavandare”, tratta il delicato tema dell’abbandono e della solitudine. Descrive la

figura di un aratro abbandonato da chissà chi in mezzo ad un campo, passando poi al

rumore delle donne che lavano i panni, e chiudendo infine con i loro canti.

Il componimento può essere più correttamente chiamato madrigale, in quanto la sua

lettura risulta estremamente musicale, e tratta di elementi pastorali. “Lavandare” è

una poesia composta da due terzine e una quartina con versi endecasillabi, e rime

alternate; ciascuna strofa ha una particolare caratteristica: la terzina iniziale è statica,

non descrive nessun tipo di azione, ed è pervasa da sensazioni visive che l’autore

comunica attraverso l’accurata scelta di vocaboli e di figure retoriche come in questo

caso l’enjambement presente nel secondo e terzo verso “pare/dimenticato”, che in un

certo senso, costringe a proseguire con maggior interesse la lettura del

componimento. Nella seconda terzina invece, prevalgono sensazioni di tipo acustico

indotte soprattutto dalle numerose onomatopeiche che attribuiscono alla strofa un

ritmo cadenzato molto particolare scandito proprio da parole come “sciabordare” e

“tonfi” che anche se non sono propriamente onomatopeiche sembrano riprodurre

rumori. Questa terzina è risulta essere dinamica in quanto le rime al mezzo

contribuiscono a velocizzare e scandire il ritmo della strofa. La terza ed ultima

quartina può essere definita drammatica perché riporta un triste canto di amore e

nostalgia e il ritmo sembra improvvisamente rallentato, effetto dato dalle “e”, dalla

quantità delle “r” e delle “s”, e dalla sostituzione di rime alternate con assonanze

come “frasca e rimasta”.

Alla base dell’opera letteraria di Svevo vi è una robusta cultura filosofica.

Il filosofo che ebbe un ruolo determinate della sua formazione fu Schopenhauer, il

pensatore che opponeva il misticismo irrazionalistico al sistema hegeliano per il quale

“tutto ciò che è reale è razionale” e che affermava un pessimismo radicale indicando

come unica via di salvezza dal dolore la contemplazione e la rinuncia.

L’altro grande punto di riferimento per Svevo fu Darwin, autore della teoria

evoluzionistica fondata sulle nozioni di “selezione naturale” e di “lotta per la vita”.

Subì, inoltre, l’influenza di Freud, portatore sia di elementi positivisti (come la

necessità di ricondurre lo studio a chiarezza scientifica) sia antipositivisti

(evidenziamento dei limiti della ragione rispetto all’inconscio).

Con Freud e Darwin condivise la propensione all’utilizzo di metodi scientifici di

conoscenza ed il rifiuto della visione metafisica senza accettare nei confronti di

Darwin la fiducia nel progresso e nei confronti di Freud la psicanalisi come terapia.

Svevo nei suoi romanzi mira a smascherare gli autoinganni che i suoi personaggi si

costruiscono per occultare ai loro stessi occhi le vere motivazioni dei propri atti e per

tacitare i sensi di colpa e sentirsi innocenti.

L’autore iniziò il suo primo romanzo “Una Vita” nel 1888 e lo pubblicò nel 1892.

In realtà il primo titolo fu un inetto ma, poi, fu sconsigliato dall’editore.

Il romanzo mostra legami con i modelli più illustri del romanzo moderno: da un lato

il romanzo della “scalata sociale”, in cui un giovane provinciale ambizioso si propone

di conquistare il successo nella società cittadina; dall’altro lato il romanzo di

formazione.

“Una Vita” è la storia di un giovane Alfonso Nitti, che abbandona il paese per venire

a lavorare a Trieste, dopo che la morte del padre ha lasciato la famiglia in ristrettezze.

Si impiega presso la banca Maller, ma il lavoro gli sembra mortificante.

L’occasione per il riscatto dalla sua vita vuota e solitaria, riempita solo dalle avida

letture presso la Biblioteca comunale, gli è offerta da un invito a casa del padre

padrone della banca.

Qui Alfonso conosce Macario, giovane brillante e sicuro si sé.

E stringe con lui una forma di amicizia trovandolo come una sorta di modello.

La figlia di Maller, Annetta, ha anch’essa ambizioni letterarie e sceglie Alfonso come

collaboratore nella stesura di un romanzo.

L’eroe, pur senza amare Annetta, la seduce e la possiede.

A questo punto avrebbe la possibilità di trasformare la sua vita, sposando la ricca

ereditiera.

A questa soluzione è spinto insistentemente da Francesca, istitutrice in casa di Maller

e sua amante, che aspira anch’essa al salto di classe attraverso il matrimonio con il

padrone.

Alfonso, invece, preso da un’inspiegabile paura, fugge da Annette e da Trieste,

adducendo come pretesto una malattia della madre.

Tornato al paese, trova effettivamente la madre gravemente malata e, solo dopo la sua

morte, ritorna a Trieste.

Credendo di aver scoperto nella rinuncia e nella contemplazione la sua vera natura,

Alfonso crede di aver superato le passioni, ma nell’apprendere che Annetta si è

fidanzata con Macario è invaso dalla gelosia; riteneva di non curarsi più del giudizio

degli altri ed invece si sente ferito dal disprezzo e dall’odio che lo circonda nella

banca.

Trasferito ad un compito di minor importanza, affronta indignato Maller, ma

nell’emozione si lascia sfuggire frasi che vengono interpretate come ricatti.

Da questo momento commette errori irreparabili: scrive ad Annetta per chiederle che

cessino le persecuzioni nei sui confronti ma di nuovo il gesto è avvertito dai Maller

come ricattatorio.

All’appuntamento che ha chiesto alla ragazza, per una definitiva spiegazione, si

presenta il fratello che lo sfida a duello.

Alfonso, sentendosi “incapace alla vita”, decide di cercare nella morte una via di

scampo, distruggendo la fonte dalla sua infelicità, il suo organismo “che non

conosceva la pace”.

La figura di Alfonso inaugura il personaggio dell’inetto.

L’inettitudine è un’insicurezza psicologica che rende l’eroe incapace alla vita.

Alfonso è un intellettuale, ancora legato ad una cultura di tipo umanistico.

E’ questo che lo rende un diverso nella società, e la sua diversità sociale diviene

impotenza psicologica.

Egli ha bisogno di crearsi una realtà compensatoria: la vocazione letteraria si

trasforma ai suoi occhi nel segno distintivo di un privilegio spirituale.

Così, il provinciale timido, incapace di stabilire relazioni con gli altri, “nei suoi sogni

da megalomane” si costruisce una maschera fittizia che lo risarcisce dalle frustrazioni

reali.

Se Alfonso non è un’immagine virile, forte, gli si contrappone il rivale Macario.

La narrazione è condotta da una voce fuori campo che non si intromette in prima

persona, ma il racconto assume comunque le vesti di un processo alla menzogne e

alle doppiezze di Alfonso.

Il secondo romanzo di Svevo “Senilità” esce nel 1898 ed incorre in un forte

insuccesso non ottenendo “una sola parola di lode o di biasimo” dalla critica.

Questo romanzo si concentra esclusivamente sui quattro personaggi protagonisti.

La vicenda si svolge essenzialmente nella mente di Emilio.

Questi, dal punto di vista sociale, è un piccolo borghese, la cui squallida condizione

è, anche nel suo caso, effetto di un processo di declassazione e al tempo stesso è un

intellettuale che in gioventù ha scritto un romanzo.

Dal punto di vista psicologico è un inetto che ha paura di affrontare la realtà e per

questo si è costruito una sorta di limbo “la senilità”, conducendo un’esistenza calma e

sicura che implica, però, la mortificazione della vita.

Questo sistema protettivo si oggettiva nella chiusura nel nido domestico che si

compendia nella figura materna della sorella Amalia.

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