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MAPPA CONCETTUALE

FILOSOFIA

 Sigmund Freud, “L’

interpretazione dei sogni, le

due topiche” LATINO

 Petronio “Satirycon”

 Apuleio “Le

metamorfosi”

Il mito del

viaggio

INGLESE

 Jack Kerouac “On the ARTE

Road”  C. D. Friedrich “Il

viandante sul mare di

nebbia”

ITALIANO

 Dante “La divina commedia”

 Leopardi “Canto notturno di un

pastore errante nell’ Asia”

 Leopardi “dialogo della Natura e di

un Islandese

 Saba “Ulisse” 3

FILOSOFIA

 Sigmund Freud “L’ interpretazione dei sogni, le due topiche”

Freud sostiene che la mente umana non sia un’ unità monolitica, ma sia composta da

due topiche suddivise a loro volta da un certo numero di sottoinsiemi.

Il medico viennese elabora nel 1900 una teoria che afferma che la maggior parte della

vita mentale si svolge al di fuori della coscienza e della ragione, in una dimensione

psichica a cui da il nome di inconscio.

La prima topica definisce tre luoghi psichici: il conscio, il preconscio e l’ inconscio.

Il conscio è formato dai contenuti psichici coscienti,

Il preconscio è il luogo della memoria. Non solo della memoria prossima, ma anche di

quella che può emergere con un piccolo sforzo di attenzione

L’ inconscio è il luogo dove risiedono i ricordi più profondi e permanenti. I ricordi sono

mantenuti in quel luogo da una forza detta “rimozione”. E talvolta si manifestano in

maniera incontrollabile razionalmente, cioè sotto forma di sogni o sintomi.

Rimozione Psicanalisi

Conscio

Preconscio

Inconscio

Attraverso la metafora dell’ iceberg Freud spiega le

relazioni esistenti tra conscio, preconscio e

inconscio. 4

La seconda topica viene ideata da Freud più tardi, nel 1920. Essa distingue tre entità

che muovono la mente umana.

L’ es è l’ insieme delle pulsioni. È una forza che spinge costantemente sull’ io e che ha

come unico obiettivo l’ appagamento dei bisogni naturali. Questa forza ignora la logica

e i principi morali.

Il super-io è la coscienza morale, l’ insieme delle proibizioni che sono state instillate

nell’ uomo dagli altri nei primi anni di vita e che lo accompagnano per tutta la vita in

modo inconsapevole.

I’ io è la parte organizzata della personalità, che si trova in una posizione di mediatore

tra la le rivendicazioni dell’ es e gli imperativi del super-io e la realtà esterna.

Per tutta la vita l’ io lotta per mantenere un equilibrio tra le tre forze che lo schiacciano

. REALTA’ ESTERNA

ES IO SUPER-IO

5

ITALIANO

 La Divina Commedia, il viaggio di Dante.

<<[…]né dolcezza di figlio, né la pieta

del vecchio padre, né 'l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore

ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,

e de li vizi umani e del valore >>

;

Dante Alighieri, La Divina Commedia. INFERNO Canto XXVI vv94-99

La Divina Commedia, la più celebre tra le opere di Dante Alighieri, fu stesa nell’ arco di

diciassette anni tra il 1304 e il 1321 circa. La commedia è suddivisa in 100 canti riuniti

in tre cantiche. È stata scritta in versi endecasillabi raggruppati in terzine di rime

incatenate. La monumentale opera che vanta ben 14.233 versi racconta la storia del viaggio di

Dante attraverso i tre regni dell’ oltretomba.

A un primo livello di lettura la Divina Commedia appare innanzitutto come la storia del

viaggio che Dante immagina di aver compiuto nei tre regni dell’oltretomba (Inferno,

Purgatorio, Paradiso) nell'arco della settimana santa dall’ 8 al 14 aprile del 1300, anno

in cui fu indetto il Giubileo da papa Bonifacio VIII.

Ma ad un secondo livello di interpretazione la Divina Commedia può essere letta come

l’allegoria del processo di perfezionamento compiuto da Dante nel passaggio dalla

fase di ottenebramento e di peccato in cui era caduto dopo la morte di Beatrice (lo

smarrimento nella selva oscura) alla redenzione morale e alla riconquista della fede

(l’ascesa a Dio). Ad un terzo livello è rappresentazione allegorica del cammino di

caduta e redenzione che ogni uomo può compiere, una rappresentazione

dell’universale percorso dell’anima cristiana dal peccato alla salvezza eterna.

L’allegoria è una figura retorica

mediante la quale si attribuisce

al discorso un significato

simbolico e quindi diverso da

quello letterale. Infatti il termine

deriva dal greco allei =

altrimenti + agoreuo = parlo;

quindi letteralmente equivale a

dire altro da ciò che si vuol

significare. Dante non è il primo

scrittore che si serve dell’

allegoria come chiave di lettura

dei suoi testi: secondo Agostino

e Tommaso, maestri della

filosofia cristiana medievale,

spesso bisogna dare

un’interpretazione allegorica di

ciò che la Bibbia narra; ed è 6

probabilmente a questo esempio che Dante si ispira. L’ allegoria usata da Dante

tuttavia è più ricca di quella tipicamente medioevale poiché fa ricorso a un sistema

più profondo di figura: personaggi, situazioni, non sono più semplicemente inventati,

privi di una loro consistenza reale e di un vero valore morale; al contrario, nel

figuralismo dantesco, viene eliminata ogni astrazione, ogni personaggio acquista una

sua consistenza terrena , una realtà psicologica e umana. Nel mondo medievale

l’allegoria è tenuta in grande considerazione: Tommaso d’Aquino la definisce “modus

loquendi, quo aliud dicitur et aliud intelligitur”. Allegoricamente il soggetto è l’uomo

che, meritando o demeritando per la libertà d’arbitrio, è soggetto alla giustizia del

premio o del castigo.

La Divina Commedia va quindi considerata un viaggio allegorico, in cui Dante–

personaggio rappresenta se stesso ma anche l’intera umanità: un viaggio di salvezza

che conduce dal buio alla luce, dallo smarrimento alla comprensione, dal male al bene,

dalla bestialità (tre fiere) alla spiritualità, fino all’accostamento alla natura angelica, al

transumanare (trascendere la condizione umana) all’ indiarsi (al penetrare cioè nella

visione di dio). In questo viaggio, per giungere alla beatitudine, occorre dapprima aver

compreso le conseguenze nefaste del male e degli errori (Inferno), quindi

intraprendere un cammino di purificazione che comporta sofferenza (Purgatorio), per

giungere infine al traguardo della beatitudine (Paradiso).

7

 Umberto Saba, “Ulisse”.

Nella mia giovinezza ho navigato

lungo le coste dalmate. Isolotti

a fior d’onda emergevano, ove raro

un uccello sostava intento a prede,

coperti d’alghe, scivolosi, al sole

belli come smeraldi. Quando l’alta

marea e la notte li annullava, vele

sottovento sbandavano più al largo,

per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno

è quella terra di nessuno. Il porto

accende ad altri i suoi lumi; me al largo

sospinge ancora il non domato spirito,

e della vita il doloroso amore.

La lirica chiude la raccolta “Mediterranee”che Saba scrisse in un arco di tempo

compreso tra il 1944 e il 1945. La raccolta entrò nel 1945 a far parte della seconda

edizione del canzoniere, l’ opera più celebre di Saba. Il testo della lirica è formato da

13 endecasillabi sciolti.

L’ opera ,che non presenta alcuna scansione strofica, si può comunque dividere in due

parti (versi 1-9, 9-13) introdotte dalle parole “nella mia giovinezza” e “oggi”. Si

definisce quindi un rapporto tra due diversi campi temporali: il passato che riemerge

vivido nel ricordo e il presente. L’ ultimo periodo della poesie è occupato dalla

metafora della vita come navigazione: se il porto illuminato rappresenta l’ approdo, la

quiete, ma anche la stasi rinunciataria; il mare aperto è l’ immagine della ricerca di

emozioni e di amore per la vita. L’ autore descrive la situazione dell’ uomo che deve

scegliere se ritirarsi nel porto delle piccole certezze rassicuranti e protettive o virare al

largo, cioè affrontare il vasto mare della vita nonostante l’ insidia degli isolotti.

Ciò che accomuna Saba a Ulisse è la lunga peregrinazione sul mare, anche se

purtroppo nessuna Ita1ca appare all’ orizzonte del poeta. Il nome Ulisse tuttavia non

compare mai all’ interno della lirica; è piuttosto il poeta stesso che diviene una

metafora dell’ eroe greco. 8

 Giacomo Leopardi, "Canto notturno di un pastore errante

dell'Asia" Canti.

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

la vita del pastore.

Sorge in sul primo albore

move la greggia oltre pel campo, e vede

greggi, fontane ed erbe;

poi stanco si riposa in su la sera:

altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

al pastor la sua vita,

la vostra vita a voi? dimmi: ove tende

questo vagar mio breve,

il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

mezzo vestito e scalzo,

con gravissimo fascio in su le spalle,

per montagna e per valle,

per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

al vento, alla tempesta, e quando avvampa

l'ora, e quando poi gela,

corre via, corre, anela,

varca torrenti e stagni,

cade, risorge, e piú e piú s'affretta,

senza posa o ristoro,

lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

colà dove la via

e dove il tanto affaticar fu vòlto:

abisso orrido, immenso,

ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

è la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

per prima cosa; e in sul principio stesso

la madre e il genitore

il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

con atti e con parole

studiasi fargli core,

e consolarlo dell'umano stato:

9

altro ufficio piú grato

non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

perché reggere in vita

chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

è lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,

che sí pensosa sei, tu forse intendi,

questo viver terreno,

il patir nostro, il sospirar, che sia;

che sia questo morir, questo supremo

scolorar del sembiante,

e perir dalla terra, e venir meno

ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

il perché delle cose, e vedi il frutto

del mattin, della sera,

del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

rida la primavera,

a chi giovi l'ardore, e che procacci

il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

che son celate al semplice pastore.

spesso quand'io ti miro

star cosí muta in sul deserto piano,

che, in suo giro lontano, al ciel confina;

ovver con la mia greggia

seguirmi viaggiando a mano a mano;

e quando miro in cielo arder le stelle;

dico fra me pensando:

a che tante facelle?

che fa l'aria infinita, e quel profondo

infinito seren? che vuol dir questa

solitudine immensa? ed io che sono?

Cosí meco ragiono: e della stanza

smisurata e superba,

e dell'innumerabile famiglia;

poi di tanto adoprar, di tanti moti

d'ogni celeste, ogni terrena cosa,

girando senza posa,

per tornar sempre là donde son mosse;

uso alcuno, alcun frutto

indovinar non so. Ma tu per certo,

giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell'esser mio frale,

qualche bene o contento

avrà fors'altri; a me la vita è male.

10

O greggia mia che posi, oh te beata,

che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

quasi libera vai;

ch'ogni stento, ogni danno,

ogni estremo timor subito scordi;

ma piú perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

tu se' queta e contenta;

e gran parte dell'anno

senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

e un fastidio m'ingombra

la mente, ed uno spron quasi mi punge

sí che, sedendo, piú che mai son lunge

da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

e non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

se tu parlar sapessi, io chiederei:

- Dimmi: perché giacendo

a bell'agio, ozioso,

s'appaga ogni animale;

me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? -

Forse s'avess'io l'ale

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