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Sintesi


Tesina: la luna
Estratto del documento

ITALIANO

Giacomo Leopardi Canto di un pastore errante dell’Asia: il pessimismo cosmico

Il canto è forse il più filosofico dei Grandi idilli , quello che meglio esprime il pessimismo

cosmico di Leopardi: in ogni tempo ed in ogni luogo l’essenza del vivere è dolore ed

infelicità. Sono qui presenti tutti i temi della riflessione leopardiana: la sventura del

nascere, l’uguaglianza fra vita e male, il tedio che è fatale e il peggiore di tutti i mali.

Composto a Recanati fra il 1829 e il 1830, il canto è di sei strofe di varia lunghezza,

che si chiudono tutte con la rima in –ale.

La lingua è semplice e lineare, efficacissima nel sottolineare la drammaticità della

condizione dell’uomo.

In questo, che è sicuramente uno dei più bei canti di Leopardi, il poeta non parla in

prima persona, ma, per dare universalità al suo pensiero, costruisce un protagonista, il

pastore nomade dell’Asia, che, di fronte alla ferma e silenziosa luce della luna che lo

segue in tutti i suoi spostamenti, si pone interrogativi sul senso dell’esistenza e sulla

posizione dell’uomo all’interno dell’universo. Le domande/invocazioni del pastore

suonano come una illusoria richiesta di aiuto alla natura e rimarranno senza risposta.

Al pastore non resta che riferirsi alle sue osservazioni ed esperienze dirette della

realtà, per concludere che il destino di ogni creatura, uomo o animale, è il dolore.

Seguendo le strofe, la poesia può essere così suddivisa:

1. Domande alla luna sul significato della sua vita ciclica come la vana vita del pastore

2. Metafora sulla vita dell’uomo

3. Tristezza del momento della nascita

4. Domande alla luna sul senso della vita, che per il pastore è male

5. Invidia del gregge, che non conosce il taedium vitae

6. Sospetto che volare darebbe la felicità, ma anche che il male di vivere sia

universale.

Il pessimismo leopardiano, che nelle prime opere riguardava la biografia e i luoghi cari

al poeta, qui comprende tutto l’universo.

In questo Canto sono raccolte tutte le meditazioni, le contemplazioni, le sofferenze di

Giacomo Leopardi: dall’estatica osservazione dell’universo al sogno dell’infinito, dal

pensiero del tempo che scorre all’invidia per l’incoscienza degli animali, dalla disperata

solitudine dell’uomo al suo tormentato interrogarsi sul senso della vita.

Nel Canto la luna è estranea, chiusa, distante nella sua siderale bellezza e quello del

pastore più che un dialogo con la luna è un monologo. La luna rappresenta tutta la

natura che è “matrigna”, perché indifferente al dolore umano, eterna, senza legami con

il mondo in quanto basta a se stessa. Guardando il cielo, gli astri e il corso della luna,

l’uomo avverte l’orrore dell’abbandono, l’angoscia della solitudine e della sua

impotenza, tanto che deve addirittura essere consolato di essere nato.

Ma come Leopardi si rivolge e descrive la luna? Vediamolo:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, “le parole nascono tutte piene di una familiarità

Silenziosa luna? sublime, da una contemplazione e da un

Sorgi la sera, e vai, colloquio interiore “(Binni). Il ritmo crea

Contemplando i deserti; indi ti posi. un’atmosfera di silenzio e vastità, in cui le

Ancor non sei tu paga domande del poeta si perdono.

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli? “La pianura infinita, la luce uguale e fredda della

Somiglia alla tua vita luna accrescono la desolazione del canto.

La vita del pastore. L’ispirazione sembra venire da quell’astro

Sorge in sul primo albore; solingo, silenzioso, senza vita, che rifà ogni

Move la greggia oltre pel campo, e vede notte il suo eterno cammino. Il paesaggio lunare,

Greggi, fontane ed erbe; vasto, uniforme, ci accompagna di strofa in

Poi stanco si riposa in su la sera: strofa, come l'immagine della vita deserta: ha

Altro mai non ispera. una grandiosità indifferente e misteriosa, gelida

Dimmi, o luna: a che vale e immensa di fronte alla quale l’uomo si sente

Al pastor la sua vita, perduto” (Momigliano)

La vostra vita a voi?

Dimmi: ove tende un’altra domanda alla luna, che non avrà

questo vagar mio breve, risposta

Il tuo corso immortale? immortale il corso della luna, che si contrappone

alla vita umana mortale della strofa successiva

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando

avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov'ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale Vergine, anche perché non toccata dalle umane

È’ la vita mortale. sciagure

Nasce l'uomo a fatica,

Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E` lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei, Perché immortale, la luna non si cura degli

E forse del mio dir poco ti cale. uomini mortali

Pur tu, solinga, eterna peregrina, La luna è sola nel eterno peregrinare e la

Che sì pensosa sei, tu forse intendi, vediamo quasi pensosa e senza parole nei

Questo viver terreno, nostri confronti

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi Perché eterna, immortale, divina, la luna sa e

Il perché delle cose, e vedi il frutto vede tutto

Del mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro

Star così muta in sul deserto piano, Nel vasto paesaggio illuminato dalla luna, essa

Che, in suo giro lontano, al ciel confina; sembra ancora più distante e l'uomo ancora più

Ovver con la mia greggia solo

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto. La luna essendo eterna è sempre uguale a se

Questo io conosco e sento, stessa, per sempre è una giovinetta

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perché giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.

In riferimento alla luna, Leopardi usa termini che ne sottolineano la grande

lontananza e la fredda indifferenza:

aggettivi: silenziosa, immortale, vergine, intatta, solinga, eterna, pensosa, muta

- sostantivi: peregrina, giovinetta

- verbi: sorgere, andare, contemplare, posarsi, riandare, mirare, sapere,

- discoprire, viaggiare, conoscere

Anche se Leopardi non ha sistematizzato organicamente le sue speculazioni, si può a

ragione parlare di pensiero filosofico. Su di esso si fonda ogni espressione della sua

arte. Il tema predominante delle sue riflessioni e delle sue opere è l’infelicità umana.

Oltre che nelle poesie, espone il suo pensiero nello Zibaldone (appunti e pensieri scritti

fra il 1817 e il 1832 e pubblicati postumi) e nelle Operette morali (1824-1834).

Il pensiero di Leopardi trae origine dalla concezione meccanicistica del mondo, che

aveva appreso dall’Illuminismo. Il mondo per lui è governato da leggi meccaniche, da

una “forza operosa” che trasforma continuamente la materia, senza che di questo

processo si possa comprendere il fine e il significato. Tale concezione materialistica del

mondo e dell’uomo lo porta a polemizzare contro le correnti idealistiche del suo tempo

ed a ironizzare sulle pretese di grandezza e di superiorità del genere umano. Tuttavia,

questa concezione che per i pensatori del ‘700 era motivo di ottimismo, per il senso di

liberazione che esso comportava dalle superstizioni del passato e per la nuova fede

nella scienza, per Leopardi è invece motivo di tristezza e pessimismo, perché vede i

limiti della natura umana.

Per Leopardi la stessa storia della scienza non è progresso, ma decadenza da uno

stato di inconscia felicità naturale (i primitivi) ad uno stato di consapevole dolore,

scoperto dalla ragione. L’infelicità umana non è perciò un dato costitutivo dell’uomo,

ma storico (pessimismo storico).

L’uomo naturalmente aspira alla felicità, ma siccome questo desiderio tende ad un

piacere eterno ed infinito, quindi irraggiungibile, l’esistenza diventa infelicità. L’uomo,

infatti, che si illude di essere nato per il piacere, si rende conto che la vita è un

procedere inesorabile verso l’infelicità e il dolore, dove l’unico piacere possibile è la

cessazione di qualsiasi dolore o disagio.

Anche la verità è irraggiungibile per l’uomo e l’universo è un mistero impenetrabile, di

cui non si conosce principio e fine. La natura è strettamente legata alla materia,

soggetta ad un continuo moto meccanico.

In Leopardi la natura non garantisce e non offre all’uomo felicità, semplicemente si

mostra, in una gelida indifferenza verso le questioni terrene. Nel Canto notturno infatti

la luna è estranea e muta, il giro degli astri nel cielo non ha rapporto con la vita e il

destino degli uomini. Nel Dialogo della Natura e di islandese la natura domanda

“Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? quando io vi offendo in

qualunque modo e con qual sia mezzo, io non n’avveggo se non rarissime volte: come,

se io vi diletto e vi benefico, io non lo so…”.

Mentre l’uomo soffre e muore (“vecchierel bianco, infermo….”, “nasce l’uomo a fatica,

ed è rischio di morte il nascimento” nel Canto), la natura è invece eterna ed ignora

l’ordine su cui si fonda il vivere umano. Guardando il cielo, gli astri e il corso della luna

( come nella Ginestra: “..su la mesta landa/in purissimo azzurro/ veggo dall’alto

fiammeggiar le stelle”), l’uomo perciò non può non avvertire l’orrore di un abbandono e

l’angoscia di una solitudine certa.

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