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Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.
Con questa composizione, il cui soggetto del pastore gli era stato ispirato da un articolo del “Journal
des sevants”, Leopardi vuole mostrare come il dolore dell’esistenza riguardi chiunque, ricco o povero,
colto o analfabeta.
Anche qui, come nella precedente poesia, il poeta si rivolge alla Luna, ma ora si pone domande
esistenziali sul significato della vita, il motivo ed il fine della ripetitività delle azioni e degli eventi.
Nella I strofa tra queste domande che rimarranno senza risposta, si prendono in esame il corso lunare e
la vita del pastore, entrambi gli eventi si ripetono quotidianamente, nello stesso modo, ma resta ignoto
“ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?” vv. 18-20. A questi quesiti segue, nella II
strofa, una lunga similitudine in cui l’esistenza e la vita appaiono come un lungo ed estenuante viaggio
attraverso innumerevoli fatiche e sofferenze per finalmente giungere sull’orlo di un “abisso orrido,
immenso” (verso 35): la morte, che tutto cancella. Questa sofferenza esistenziale che viene illustrata
alla Luna segue nella III strofa con la spiegazione che il dolore inizia già alla nascita. Considerando
tutti questi aspetti dell’esistenza sorgono spontanee altre domande sul senso della vita e sul perché
l‘uomo la sopporti sapendo ciò che dovrà attraversare. Forse però questa riflessione non interessa alla
Luna, che quasi certamente conosce già il significato di ogni cosa, a differenza del pastore e dello
stesso poeta, i quali non possono far altro che contemplare la natura. La IV strofa si conclude con
l’affermazione che il male è l’unica certezza tra tante domande senza risposta: il poeta non è in grado di
comprendere quale sia il bene degli avvenimenti, cosa che lo convince che “a me la vita è male”, verso
104. Nella V strofa s’introduce il tema dalla noia, il tedio che attanaglia l’uomo: forse le pecore nel
gregge non provano la sofferenza né la noia nella ripetitività, a differenza del pastore che per questo
motivo le invidia. Nella VI ed ultima strofa il pastore si rende conto che forse a non essere uomo
sarebbe più felice, ma quasi certamente si sbaglia poiché la sofferenza è ovunque, tutti i viventi
soffrono: “è funesto a chi nasce il dì natale”.
Il poeta è arrivato a dimostrare il pessimismo cosmico, il dolore dell’esistenza non più solo dell’uomo,
ma di qualunque vivente. In questa nuova concezione vediamo come cambia il ruolo della natura,
sempre simboleggiata dalla Luna. Mentre inizialmente ascolta il poeta e lo consola, ora si trova in cielo,
alta e superba, fredda e passiva, forse sente il canto del pastore ma non lo ascolta e nemmeno dà
risposte alle sue numerose domande. Forse questa Luna non è in grado di comunicare all’uomo le sue
vaste conoscenze, oppure è solo un muto ascoltatore che si trova in quella posizione solo perché è
quello il suo ruolo nella natura. La Luna è diventata una presenza casuale nella vita dell’uomo:
potrebbe essere definita un “sasso che poteva esserci come non esserci” senza poter rasserenare l’animo
umano, afflitto dal dolore e dal “tedio” della quotidianità di un’esistenza senza un fine.
Leopardi darà però la parola alla Luna in una delle sue “Operette morali”: “Dialogo della Terra e della
Luna”, scritto nell’aprile del 1824. Questa particolare composizione di Leopardi consiste in un dialogo
tra la Terra e la Luna. La Terra apre il discorso richiamandosi alla propria armonia, quindi un richiamo
al classicismo ed ai poeti che parlavano del satellite della terra descrivendolo spesso come una persona;
essa pone alla Luna varie domande, ma non si rende conto che sono due mondi totalmente differenti e
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cose ovvie per la Terra sono sconosciute alla Luna, come popoli e società. La Terra infatti non riesce a
comprendere come la Natura possa aver creato l’universo non conforme ad essa. Quindi, con un
richiamo ad Ariosto chiede se sulla Luna ci sono tutte le virtù che la Terra ha perso, ma la prima
risponde che ci sono solo mali, come su qualsiasi altro corpo celeste: “il male è cosa comune a tutti i
pianeti dell'universo”. Importanti sono anche le altre citazioni di famosi fisici e astronomi, letterati
oppure riguardanti la mitologia classica, tutte fatte dalla Terra per dimostrare la sua presunta superiorità
culturale, quando invece non è a conoscenza di semplici “verità naturali”.
Leopardi arriva così ad esplicitare il pessimismo cosmico: il male non riguarda solo i viventi della
Terra, ma si trova ovunque nell’universo. La stessa Luna che inizialmente consolava il poeta, poi
ascolta passivamente il pastore negandogli la possibilità di una spiegazione alle sue domande e
confermando il male dell’esistenza sulla Terra. La Luna, ora in grado di parlare, non consola né svela
verità nascoste, ma riconferma e ribadisce che il male si trova ovunque: un male cosmico e universale.
Ecco il testo del “Discorso della Terra e della Luna”:
Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona; secondo che ho inteso
molte volte da' poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come
ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell'età ragionevolmente debbono
essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né meno una persona;
tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare.
Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il
numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno tenuta occupata in
modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca
cosa, anzi posso dire che vanno co' loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in
avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua
molestia.
Luna. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura
che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che quantunque amica del
silenzio, come credo che tu sappi, io t'ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.
Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna. A dirti il vero, io non sento nulla.
Terra. Né pur io sento nulla, fuorché lo strepito del vento che va da' miei poli all'equatore, e
dall'equatore ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere celesti fanno un
certo suono così dolce ch'è una maraviglia; e che anche tu vi hai la tua parte, e sei l'ottava corda di
questa lira universale: ma che io sono assordata dal suono stesso, e però non l'odo.
Luna. Anch'io senza fallo sono assordata; e, come ho detto, non l'odo: e non so di essere una corda.
Terra. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata veramente, come affermano e giurano mille
filosofi antichi e moderni, da Orfeo sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste
mie corna, che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo mirando, a uso di
lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene odo che un cotal Davide Fabricio, che
vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una volta certi, che spandevano un bucato al sole.
Luna. Delle tue corna io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.
Terra. Di che colore sono cotesti uomini?
Luna. Che uomini?
Terra. Quelli che tu contieni. Non dici tu d'essere abitata?
Luna. Sì, e per questo?
Terra. E per questo non saranno già tutte bestie gli abitatori tuoi.
Luna. Né bestie né uomini; che io non so che razze di creature si sieno né gli uni né l'altre. E già di
parecchie cose che tu mi sei venuta accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non
ho compreso un'acca.
Terra. Ma che sorte di popoli sono coteste?
Luna. Moltissime e diversissime, che tu non conosci, come io non conosco le tue. pag. 6
Terra. Cotesto mi riesce strano in modo, che se io non l'udissi da te medesima, io non lo crederei per
nessuna cosa del mondo. Fosti tu mai conquistata da niuno de' tuoi?
Luna. No, che io sappia. E come? e perché?
Terra. Per ambizione, per cupidigia dell'altrui, colle arti politiche, colle armi.
Luna. Io non so che voglia dire armi, ambizione, arti politiche, in somma niente di quel che tu dici.
Terra. Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perché, poco dianzi, un fisico di
quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì
una bella fortezza, co' suoi bastioni diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e
le battaglie murali.
Luna. Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un poco più liberamente che forse non converrebbe a
una tua suddita o fantesca, come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare
che tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la natura non avesse
avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo
conchiudi che gli abitatori miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che
sieno altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi de' tuoi popoli; e mi
alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose,
io crederò che abbiano la buona vista de' tuoi fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso,
che io non so dove me gli abbia.
Terra. Dunque non sarà né anche vero che le tue province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu
sei coltivata; cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono chiaramente.
Luna. Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le veggo
Terra. Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e di cervello tondo; e non è maraviglia
che gli uomini m'ingannino facilmente. Ma io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu
non fosti però sempre senza pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si posero in
animo di conquistarti esse; e a quest'effetto fecero molte preparazioni. Se non che, salite in luoghi
altissimi, e levandosi sulle punte de' piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare. Oltre a
questo, già da non pochi anni, io veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte de' tuoi
paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de' quali sappiamo anche i nomi. Queste cose, per la buona
volontà ch'io ti porto, mi è paruto bene di avvisartele, acciò che tu non manchi di provvederti per ogni
caso. Ora, venendo ad altro, come sei molestata da' cani che ti abbaiano contro? Che pensi di quelli che
ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perché anticamente ne fu varia opinione. È
vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te? che le tue donne, o altrimenti che io le debba
chiamare, sono ovipare; e che uno delle loro uova cadde quaggiù non so quando? che tu sei traforata a
guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno?che sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di
cacio fresco? che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per mezzo, come un cocomero; e
che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica? Come stai volentieri in cima dei
minareti? Che ti pare della festa del bairam?