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Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perché giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.

Fu composto tra il 1829 e il 1830, e fu pubblicato per la prima volta nei Canti

del 1831. L’idea del canto fu suggerita a Leopardi da un articolo del “Journals

des savants” , da cui apprendeva che i pastori nomadi dell’Asia centrale

trascorrevano le notti seduti su di una pietra a guardare la luna e a

improvvisare parole tristissime su arie egualmente tristi.

Il poeta non parla in prima persona, ma le parole sono messe in bocca ad un

uomo primitivo, semplice ed ingenuo. Nella prima fase del suo pensiero, detto

pessimismo storico, Leopardi riteneva i primitivi più vicini alla natura,

inconsapevoli della verità e quindi più felici dell’uomo moderno. Qui invece

l’uomo primitivo è filosofo come gli uomini civilizzati, e sente fortemente la

propria infelicità. Le domande che il pastore si pone sono le stesse che si pone

Leopardi (chi sono?, perché sono?, qual è la ragione della mia vita e

dell’universo?).

Sul piano concettuale questo è lo svolgimento del canto: la constatazione della

nostra assoluta ignoranza sul perché della vita, congiunta alla certezza che

essa è dolore e termina nella morte e nel nulla, portano alla conclusione che la

vita è male. Nasce di qui il sentimento della noia, riflesso in questa scoperta

vanità. La bellezza del canto non consiste nei singoli ragionamenti, ma nel

senso sgomento del nulla e dell’angoscia dell’uomo, sperduto in un universo

incomprensibile e sterminato. Il pastore è l’uomo, nel suo vano e monotono

peregrinare terreno, disperatamente solo nel deserto del mondo. La luna, bella

e infinitamente lontana, è l’immagine della natura, che sembra suggerirci una

promessa d’infinito, di felicità, evocata dalla sua bellezza,e, d’altra parte,

osserva impassibile e muta il nostro destino. Essa è l'interlocutore verso il

quale il pastore rivolge i suoi lamenti, pur sapendo che non avrà mai risposta.

La luna è l'infinito, l'eterno e l'immortale, è insomma quello che un uomo non

può essere: il pastore vede la luna simile a se, alza gli occhi e cerca di

abbracciarla, di fondersi con lei, ma ciò è impossibile e i due restano

inesorabilmente distaccati. La sua figura simboleggia lo spaurirsi dell'uomo

Sognatore è chi trova la sua via alla luce della Luna … punito perché

vede l’alba prima degli altri. (Oscar Wilde) 11 43

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davanti all'universo, del quale si sente parte ma che invano cerca di capire; è

anche il simbolo della prigionia della vita, e del disagio che si prova nel non

poter far nulla per rompere la sua monotonia.

Con il termine PASTORE si vogliono quindi indicare tutte quelle paure e quelle

insicurezze tipicamente umane. La Luna, che per lui è la vita (ma anche la

singola giornata) è ripetitiva; ha una fase iniziale, una centrale e infine una

fase finale.

Metro: sei strofe libere di endecasillabi e settenari variamente alternati; tutte

le strofe presentano rime al mezzo (soprattutto la quarta) e si chiudono con la

medesima rima finale.

È indubbiamente uno dei più bei canti scritti dal Leopardi, ed in esso troviamo

tutta la forza della infelicità che da uno stato sentimentale di ansia furibonda

passa ad uno stadio di rassegnazione, di coscienza del male che incombe sugli

uomini. Non un attimo di piacere, ma un rendersi progressivamente conto che

la vita nulla riserva di bene all'individuo, un ripiegarsi continuo e sempre più

profondo su se stesso, su una realtà che ormai ben poco concede al mondo e

alla natura. Non più il ricordo del tempo passato, come nel Passero solitario e

ne Le Ricordanze, ma il presente: non occorre più volgersi al passato per

capire la propria realtà esistenziale che affoga nella noia e nell'infelicità, ma

basta guardare il presente, studiarlo e capirlo, per diventare coscienti che col

passare degli anni è diventato sempre più misero e arido e fonte di infelicità,

man mano che con l'avvento della giovinezza sono venute a svanire quelle

illusioni che la Natura ha infuso nel cuore degli uomini alla nascita. Muta anche

il concetto di Natura, non più madre benigna. La somma dei sentimenti

espressi in questo canto si traduce non più nella condizione della solitudine,

ma nella noia o tedio che è "L'assenza di ogni speciale sentimento di male e di

bene, ch'è lo stato più ordinario della vita, non è né indifferente, né bene, né

piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d'altronde i mali non fossero più

che i beni, né maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la

bilancia della vita e della sorte umana dal lato della infelicità. Quando l'uomo

non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale

l'infelicità nativa dell'uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia”.

(4. Maggio. 1829 - Zib. 4498).

Possiamo individuare in questa poesia due grandi temi fondamentali:

1) tematica della vita cosmica

2) tematica della vita umana.

La tematica della vita cosmica comprende la descrizione della vita del cosmo

e della luna, la quale tutto sa, e nella quale quindi noi possiamo trovare la

profonda serenità esistente nelle cose, dovuta alla conoscenza delle origini e

dei fini cui le cose stesse tendono. La luna, il simbolo più visivo ed immediato

Sognatore è chi trova la sua via alla luce della Luna … punito perché

vede l’alba prima degli altri. (Oscar Wilde) 12 43

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dell'universo (e il più caro alla fantasia umana), tutto sa ed intende, non solo

del proprio moto celeste, ma anche dell'andare del tempo, del trascorrere delle

stagioni, della "essenza" dell'uomo. Ciò che caratterizza appunto la vita

cosmica è la conoscibilità di tutte le cose, quella stessa possibilità di

conoscenze che l'uomo non possiede.

La tematica della vita umana è identificabile:

1) nel rapporto con la vita della luna;

2) nella descrizione della vita dell'uomo (sia nella classica similitudine con il

cammino del "vecchierel bianco infermo", sia nella descrizione suggellata,

racchiusa, cioè sottolineata, dai versi: "se la vita è sventura / perché da noi si

dura?";

3) nel rapporto con la condizione esistenziale della "greggia" dal quale

rapporto esce il concetto di noia, come condizione esistenziale di un uomo

consapevole di nulla sapere dei propri destini.

- desolazione della vita dell'uomo -

- assenza di conoscenza -

- l'uomo nulla sa: quali sono le origini dell'uomo, perché viene creato, quali

sono i fini ai quali tende, quali sono i rapporti con gli altri uomini -

- nulla sapendo l'uomo vive nella solitudine, che è una condizione di vita

determinata dalla mancanza di rapporti fra uomo e uomo i cui sentimenti sono

la tristezza e il dolore, irrisolvibili. La condizione è esterna all'uomo, il

sentimento invece è interno all'uomo, e su di esso gioca un ruolo importante la

speranza, che determina una diminuzione del dolore stesso. In questo canto la

speranza è praticamente assente, per cui il sentimento del dolore in alcuni

punti esplode in tutta la sua violenza -

- il poeta conosce solo la propria fragilità e il male della propria vita, una

sventura che comincia già con la nascita -

- la condizione di mancanza di conoscenza porta alla noia -

- descrizione della vita della luna -

- presenza di conoscenza -

- la luna tutto sa: la ragione del mattino e della sera, del tacito infinito

trascorrere del tempo, a quale amore ride la primavera, a chi giova il caldo

dell'estate, cosa procura l'inverno coi suoi ghiacci -

Sognatore è chi trova la sua via alla luce della Luna … punito perché

vede l’alba prima degli altri. (Oscar Wilde) 13 43

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- la luna sa le cose che sono celate al pastore: perché l'ardere di tante stelle,

che fa l'aria infinita e l'infinito sereno universo, cosa significa questa solitudine

immensa, cos'è l'uomo -

- la luna, giovinetta immortale, conosce il frutto d'ogni terrena e di ogni celeste

cosa –

Il poeta usa un codice poetico lineare e significativamente semplice: in

rapporto inverso con la semplicità riscontriamo la drammaticità della

condizione dell'uomo che nulla sa del proprio destino. Solo alcune parole,

come /cuna/, /calle/, /albore/, ecc., sono tipiche del codice poetico. L'uso del

linguaggio semplice ci porta più facilmente a cogliere la speranza del poeta di

poter alleviare in qualche modo l'angoscia originata dalla propria limitata

conoscenza e dalla noia. La seconda strofa risulta la più nervosa dell'intera

poesia, a causa di un uso paratattico del sistema linguistico, con un unico

soggetto che regge una lunga sequenza sia di espansioni sia di verbi; i verbi a

loro volta mancano di espansioni nominali e di complementi cosiddetti

indiretti, per cui il loro significato risulta profondo e poco sfumato, e le

sfumature sono rivolte interamente solo al "vecchierello", che è il vero centro

che focalizza la nostra attenzione. La lettura parte con un andamento lento;

ma dopo essersi soffermato un attimo su "gravissimo fascio", diventa sempre

più rapido e nervoso dalla sequenza nominale che comincia col verso 21 alla

sequenza verbale dei vv. 27-31 e si accelera man mano fino a posarsi su

"lacero, sanguinoso" per bloccarsi all'improvviso davanti all'espressione

"abisso orrido, immenso", un abisso che fonicamente si distende su "orrido" di

cui si riempie per scatenare un senso di angoscia indescrivibile, che sfuma nel

lungo verbo "precipitando" e nel verbo "oblia", quasi un balbettamento che

nell'oblio difende l'anima umana dal sopravvenire dell'orrore.

Per contrasto la lirica ha un andamento lineare, molto musicale in quella

perfetta alternanza di versi endecasillabi e settenari, alternanza dettata al

poeta dal "gusto poetico".

Per tre volte il poeta nomina il gregge al femminile: la femminilizzazione di

qualunque parola dona al significato una concettualità più sfumata e gentile; in

questo caso la femminilità di /greggia/ ci fa capire il desiderio del poeta di

sfuggire almeno nell'illusione alla propria condizione esistenziale dominata

dal /tedio/ e dalla /noia/, quasi fino ad accettare la situazione della greggia che

"posa all'ombra" e che non ha pensieri di qualunque natura che possano

turbare la sua tranquillità.

DIVINA COMMEDIA

Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto,

di bella verità m'avea scoverto,

Sognatore è chi trova la sua via alla luce della Luna … punito perché

vede l’alba prima degli altri. (Oscar Wilde) 14 43

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provando e riprovando, il dolce aspetto; 3

e io, per confessar corretto e certo

me stesso, tanto quanto si convenne

leva' il capo a proferer più erto; 6

ma visïone apparve che ritenne

a sé me tanto stretto, per vedersi,

che di mia confession non mi sovvenne. 9

Quali per vetri trasparenti e tersi,

o ver per acque nitide e tranquille,

non sì profonde che i fondi sien persi, 12

tornan d'i nostri visi le postille

debili sì, che perla in bianca fronte

non vien men forte a le nostre pupille; 15

tali vid'io più facce a parlar pronte;

per ch'io dentro a l'error contrario corsi

a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte. 18

Sùbito sì com'io di lor m'accorsi,

quelle stimando specchiati sembianti,

per veder di cui fosser, li occhi torsi; 21

e nulla vidi, e ritorsili avanti

dritti nel lume de la dolce guida,

che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. 24

"Non ti maravigliar perch'io sorrida",

mi disse, "appresso il tuo püeril coto,

poi sopra 'l vero ancor lo piè non fida, 27

ma te rivolve, come suole, a vòto:

vere sustanze son ciò che tu vedi,

qui rilegate per manco di voto. 30

Però parla con esse e odi e credi;

ché la verace luce che le appaga

da sé non lascia lor torcer li piedi". 33

E io a l'ombra che parea più vaga

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