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da contraddizioni e da difficoltà.

La prima questione che dovettero affrontare i governi di centro-sinistra presieduti da Moro fu il

superamento della recessione economica iniziata nel 1963. Elemento di novità in questi anni fu il

considerevole aumento della forza contrattuale dei sindacati dei lavoratori, conseguita anche

mediante una maggiore unità sindacale e il superamento di vecchie divisioni. Nella dc intanto si

venne rafforzando la corrente di centro che aveva assunto la segreteria con Mariano Rumor. Tale

corrente democristiana dava della politica di centro-sinistra un’interpretazione più moderata di quella

seguita da Aldo Moro, il quale risultò progressivamente isolato dal suo stesso partito.

Le elezioni politiche del 1968 videro una ripresa della dc, ma delusero le attese del partito socialista.

Moro pagò così l’insuccesso e venne messo da parte.

Intanto, sia in Italia che nel resto del mondo, si vennero a verificare fatti che vengono indicati con

una sola parola: il Sessantotto. Gli eventi che si susseguirono dalla guerra in Vietnam, alla

“primavera di Praga”, dallo scontro tra Unione Sovietica e Cina, ai moti del “maggio francese”

ebbero in Italia echi profondi ma contrastanti e vennero ad alimentare le tensioni. Ad aggravare

ulteriormente la tensione si inserirono azioni criminali, condotte da gruppi della destra eversiva con

la complicità occulta di personaggi appartenenti a corpi dello stato, che misero in atto una strategia

della tensione, al fine di creare le condizioni di una svolta politica autoritaria. La strage provocata da

una bomba situata all’interno della Banca nazionale dell’Agricoltura di Milano, in piazza Fontana, il

12 dicembre 1969 fu soltanto il primo tra i numerosi attentati che si susseguiranno durante il corso

degli anni Settanta.

Con l’avvio degli anni Settanta si aprì in Italia un lungo periodo di instabilità politica, in cui le

minacce portate, da destra e da sinistra, all’ordine democratico si accompagnarono a crescenti

difficoltà del sistema economico.

1.2 Terrorismo politico

Il volto dell’Italia alla metà degli anni Settanta era quello di una nazione precipitata in una situazione

di grave malessere, benché ancora ricca di iniziative e di capacità di reazione. Mentre crescevano i

disordini alimentati dai gruppi della sinistra extra-parlamentare, e dall’altra parte, avanzava la

strategia del terrore con altre stragi tra la popolazione civile, incominciarono ad operare movimenti

clandestini armati, come le Brigate Rosse, che fecero degli attentati (contro magistrati, dirigenti

industriali, amministratori pubblici, giornalisti, dirigenti sindacali) e dell’omicidio politico la loro

arma principale, con l’intento di trascinare il paese in una guerra civile preludio di un’immaginata

rivoluzione comunista. Dopo molte incertezze anche il sistema politico basato sui partiti

parlamentari, incominciò a reagire alla duplice sfida della crisi economica e del terrorismo di destra e

di sinistra. Fatto saliente di questa fase politica fu la crescita elettorale del pci, guidato da Enrico

Berlinguer, che nel 1973 aveva lanciato la strategia del compromesso storico, cioè di un rinnovato

incontro tra comunisti e cattolici. Nelle elezioni politiche del 1976 il pci raggiunse una vetta mai

toccata prima. Anche la dc, che appariva negli anni precedenti in declino, si risollevò. In quella

situazione era difficile pensare ad una stabilizzazione politica senza qualche accordo tra i due

maggiori partiti, del governo e dell’opposizione: anche il psi proponeva la realizzazione di “equilibri

più avanzati” sul piano politico.

1.3 Le Brigate Rosse

Le Brigate Rosse sono un’organizzazione terroristica clandestina di estrema sinistra fondata nel 1969

da esponenti del movimento studentesco trentino, quali Renato Curcio, Mara Cagol, da ex militanti

comunisti (Alberto Franceschini) e da dirigenti dei nuclei estremisti di fabbrica (Mario Moretti). I

membri si proponevano, tra l’altro, di inasprire le lotte sociali contro il sistema capitalistico, separare

il Partito comunista, giudicato imborghesito alla base e ostacolare la politica di alleanza tra pci e dc.

La concezione del movimento era quella di un’avanguardia di massa

che “deve indicare il cammino per il raggiungimento del potere e l’instaurazione della dittatura del

proletariato”: gli aderenti si muovevano sulla base delle decisioni di quella che era definita “direzione

strategica”, che definiva azioni mirate alla disarticolazione del potere politico statale. L’espressione

della direzione strategica erano le cosiddette “risoluzioni strategiche”, documenti di analisi politica

che di volta in volta indicavano gli obiettivi primari da raggiungere e il modo (azioni armate)

attraverso il quale raggiungere gli stessi.

Nella storia delle Brigate Rosse si possono distinguere sostanzialmente tre fasi:

-la propaganda armata (1970-1974);

-l’attacco al cuore dello stato (1974-1980);

-la divisione e la dissoluzione (1981-1988).

Esse esordirono tra il 1972 e il 1973 colpendo alcune strutture produttive del sistema capitalistico

(Sit-Siemens, Fiat, Pirelli) con attentati e sabotaggi alle fabbriche. Poi passarono a colpire oltre alle

istituzioni anche le persone che in qualche modo le rappresentavano: alcuni dirigenti di grandi

complessi industriali, tra cui Fiat, Sit-Siemens, Alfa Romeo, … furono rapiti e sottoposti ad umilianti

“processi popolari”. Nell’autunno del 1973 vennero decisi tre settori di attività: grandi fabbriche,

lotta alla controrivoluzione e settore logistico che, di lì a poco, con la diffusione dell’organizzazione

nel Nord Italia, vennero trasformati in “fronti”. Cominciò così la fase più violenta della lotta armata

con una serie di sequestri e ferimenti “dimostrativi” ai danni di magistrati, capi della polizia,

giornalisti militanti politici e sindacali. Curcio e Franceschini vennero arrestati nel settembre del

1974, e ad ottobre si riunì la prima direzione strategica delle br, in cui venne ridefinita la struttura

dell’organizzazione alla luce degli arresti di Curcio e Franceschini che evasero l’anno seguente grazie

a un raid compiuto dai loro compagni, guidati dalla Cagol, compagna di Curcio, poi uccisa nel

giugno del 1975 in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine. Curcio fu nuovamente catturato

dopo pochi mesi. Nel 1976 l’organizzazione fu praticamente rifondata e le br decisero di alzare il

livello dello scontro con le istituzioni decidendo di attaccare il “cuore dello stato”.

Molte furono le vittime degli attentati delle Brigate Rosse: oltre ai numerosissimi morti tra le forze

dell’ordine, che danno significativamente le dimensioni della portata quasi militare della lotta

terroristica, l’organizzazione colpì semplici operai, come il genovese Guido Rossa colpevole di aver

denunciato alla polizia un compagno di fabbrica sospettato di attività terroristica; giornalisti, come

Carlo Casalegno, vicedirettore de “La Stampa”, e Walter Tobagi, del “Corriere della Sera”;

professori universitari, come Vittorio Bachelet.

L’azione terroristica più importante e clamorosa fu sicuramente il sequestro di Aldo Moro,

presidente della Democrazia Cristiana, che si aprì con la strage della scorta in via Fani, a Roma, il 16

marzo 1978, e si chiuse, quasi due mesi dopo, il 9 maggio, con l’uccisione dello statista. L’attività

delle br andrà calando solo negli anni ottanta sia a causa di fratture interne, sia a causa di un

intervento più duro da parte dello stato, che con l’istituzione di un corpo speciale anti-terrorismo,

l’approvazione di leggi più dure nei confronti dei terroristi, con sconti di pena in caso di pentimento

e l’inserimento di infiltrati, riuscì ad arrestare la maggior parte dei militanti. Nel 1981 si concluse

definitivamente il percorso unitario delle br. Nonostante nel 1987 venne sancita “la chiusura unitaria

dell’esperienza storica delle br”, alcuni militanti compirono un attentato mortale conto il senatore

democristiano Roberto Ruffilli. Nell’autunno del 1988, un’ondata di arresti, pose fine anche

all’attività di quest’ultimo gruppo.

1.4 L’attacco al cuore dello Stato: l’assassinio di Aldo Moro

Con le elezioni del 1976, in cui il pci aveva raggiunto una vetta mai toccata prima, s’insediò il

governo guidato dall’on. Giulio Andreotti. In questo periodo, tutte le componenti sociali chiedono

una svolta e davanti alla situazione di crisi totale che continua ad investire gli istituti e i valori della

società, la domanda che nasce dal paese appare sempre più omogenea e comune sia ai ceti moderati

che a quelli progressisti: una politica economica più attiva, la tutela dell’ordine pubblico che continua

a deteriorarsi sotto la pressione della violenza politica e della criminalità comune. Ma se comuni sono

le richieste, diverse sono le prospettive in cui esse s’insediano. Di fronte e in contrasto con le

aspirazioni al ristabilimento dell’ordine e della normalità espresse dai ceti che si riconoscono nei

vecchi modelli sociali e politici, stanno le attese di quelle forze che s’identificano con la sinistra

politica. Per queste forze la garanzia della svolta è costituita dall’ingresso ormai avvenuto del pci

nell’area del potere e dal suo crescente peso nelle decisioni di governo.

Il governo instaurato nel 1976 dall’on. Andreotti entrò in crisi. L’ultimo atto della crisi di governo

coincideva con quello che giustamente veniva definito come l’episodio più drammatico del

dopoguerra: il rapimento di Aldo Moro da parte delle br.

Nelle ultime settimane di febbraio e ai primi di marzo il negoziato tra i partiti sul programma di

governo passava in secondo piano; tutto il dibattito si riduceva ad un serrato confronto all’interno

della dc fra i gruppi che sostenevano la soluzione di una maggioranza con il pci e quelli che gli erano

ostili. Fondamentale e decisivo era il ruolo di Aldo Moro nel mettere d’accordo le varie componenti

del partito su di una soluzione unitaria che prevedeva il varo di un governo democristiano sostenuto

da una maggioranza di comunisti, socialisti, repubblicani, socialdemocratici. La soluzione era tuttavia

a termine prefigurando chiaramente che la durata del governo non sarebbe andata oltre l’elezione del

nuovo Presidente della Repubblica, prevista per il dicembre 1978: veniva così rinviata di un anno la

scelta fra l’ingresso del pci nel governo e le elezioni anticipate.

Raggiunto l’accordo in seno alla dc, l’on. Andreotti procedeva alla formazione del governo.

I partiti che si erano impegnati a sostenere il governo e in particolare i comunisti, che avevano

preannunciato un rinnovamento almeno parziale, rimanevano sconcertati e si apprestavano a

movimentare il dibattito parlamentare con le loro critiche e le loro pretese quando il paese venne

sconvolto da una drammatica notizia.

La mattina del 16 marzo un commando di brigatisti rossi, bloccata l’auto dell’on. Moro a poca

distanza da casa sua e uccisi con un’azione fulminea i cinque agenti di scorta, rapiva il Presidente

della dc. La notizia rapidamente diffusa provocava la più profonda sensazione nel paese.

Il lavoro nelle fabbriche si arrestava spontaneamente, mentre partiti e sindacati chiamavano i cittadini

ad innumerevoli manifestazioni di protesta e di solidarietà. Il governo in attesa della fiducia veniva

varato a tambur battente con un voto delle due Camere espresso a distanza di poche ore.

La situazione d’emergenza, avvertita da tutti i partiti consigliava, al di là delle differenze e delle

divergenze, l’unità di tutte le forze politiche che si riconoscevano nella Costituzione repubblicana.

L’azione delle Brigate Rosse, che fino allora si era manifestata con iniziative sempre più numerose

ma periferiche, con il rapimento di Moro colpiva frontalmente lo Stato e la classe politica nel suo più

prestigioso rappresentante. Nelle settimane che seguiranno il rapimento, il paese veniva sottoposto

ad una offensiva psicologica

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