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dall'animale; è la base della coscienza morale e del senso di colpa.
Tutta l'attività inconscia è la risposta a stimoli di tipo energetico. Freud
immagina la mente umana come un sistema in cui la ricerca
dell’equilibrio è un requisito fondamentale: non ci deve essere
dispersione di energia psichica. Quindi la fase di disequilibrio si ha nel
momento in cui l'Io non governa più gli stimoli esterni e il lavoro
dell'inconscio: il disturbo psichico è dovuto ad una riemersione del
materiale rimosso contenuto nell’Es. Il sintomo rappresenta in questo
caso il tentativo che l’Io compie per controllare il rimosso che emerge alle
soglie della coscienza.
3.1.1 Genio e follia. Malattia mentale e creatività artistica
3.2.1 La luce e il buio della mente
Se la facoltà naturale del giudizio o della discriminazione del vero dal
falso, intesa come ragione, si può identificare con la luce della mente, il
suo opposto, cioè la perdita della ragione deve corrispondere al buio.
Nella mente di ogni individuo luce e buio coesistono e come la luce è più
splendente per contrasto con il buio così i momenti supremi della
ragione - che sono quelli del genio - risplendono a confronto con quelli
della massima sragione, cioè la follia.
3.3.1 Il male oscuro del genio
Accurati studi psicologici nel XX secolo hanno dimostrato che fino al
28% dei grandi scienziati ha avuto qualche disturbo psichico, dalla
schizofrenia, alla depressione, alla paranoia. Definire direttamente la
follia, o per meglio dire il ‘male oscuro’, così come definire la ‘normalità’
mentale è praticamente impossibile ed anche un’analisi fenomenologica
non permette di arrivare a definizioni univoche: occorre, perciò, fare uso
di definizioni indirette. Se misura
di normalità è la capacità di un
individuo di relazionarsi con i
propri simili e di interagire in
maniera non distruttiva con il
contesto sociale è possibile
individuare alcune regole a cui
egli si deve uniformare. Una
rottura di tali regole è analoga a
una dissonanza non risolta in un
sistema armonico tonale, o meglio
è la manifestazione di un disordine
che impedisce la coesistenza
ordinata, mentre il protagonista della rottura o si auto-emargina o viene
emarginato dal contesto sociale. IV
La diade genio/follia è diventata uno stereotipo, sanzionato anche
dal punto di vista drammaturgico, come ha fatto, nel 1836, A. Dumas con
il suo Kean ou désordre et génie. Le relazioni tra genio, pazzia e malinconia
sono state illustrate con un’ampia casistica di grandi artisti dei secoli XV-
XVIII , ma erano comunemente dibattute anche nell’Antichità e
continuano ad essere oggetto d’interesse ai giorni nostri se, ad esempio,
nel 1942 lo psichiatra tedesco W. Lange-Eichbaum affermava che «la
maggior parte dei genii furono degli anormali psicopatici». Le biografie
di molti genii testimoniano nodi psicopatologici, ma non si sa se tra
genio e follia vi sia una relazione di causa-effetto e non si può dire quale
dei due possa essere causa dell’altro.
4.1.1 Hitler: la follia distruttiva In ambito storico, il tema della follia è
maggiormente collegabile alla figura,
instabile ed allo stesso tempo
carismatica di Hitler. Mosso dalle sue
teorie sulla superiorità della razza
ariana, sulla congiura ebraica
antitedesca e sulla teoria dello spazio
vitale (per fornire al popolo tedesco
uno sbocco al proprio espansionismo)
seppe imprimere una svolta totalitaria
al governo tedesco. La personalità di
Hitler si caratterizza, nelle sue
manifestazioni più evidenti, per sete
di potere, spietatezza, acume
intellettivo e grandi doti oratorie. La
sua affettività si distingue per la
marcata ‘freddezza del sentimento’, la
grande energia vitale e la reattività ‘irosa’ e spesso incontrollabile. Hitler
- la cui struttura di personalità non è priva di elementi psicopatologici e
conflittuali - appare come un soggetto estremamente ‘arido nei
sentimenti’ ma, nel contempo, bisognoso di esigere dagli altri
manifestazioni di affetto e considerazione. Secondo la scienza
grafologica, egli risulta un individuo ‘incapace di amare’ e che pretende
dal ‘prossimo’ proprio quello che lui stesso nega agli altri. La
conseguenza di questi tratti non può che tradursi, secondo gli psicologi,
in un profondo e lacerante ‘squilibrio’ interiore che investe anche gli
aspetti comportamentali dell'individuo. L'anaffettività lo porta ad una
sorta di ‘isolamento affettivo autoindotto’, dal quale emerge - con forte
‘convinzione’ - una visione distorta della realtà. Essa si esprime in un
sistema personale di valori e di riferimenti dove l'intero universo ruota
intorno al proprio ego. Si tratta, secondo gli studiosi della psiche umana,
V
di un ‘sistema ideale’ di tipo ‘narcisistico’ che (basandosi su principi
estremamente saldi e regole inflessibili) permette al soggetto di
raggiungere un obiettivo ‘assoluto’ ed inderogabile: il dominio
incondizionato dell'ambiente e delle relazioni interpersonali (secondo gli
storici tutto ciò è alla base del bisogno ‘dispotico‘ del controllo delle
masse). Per raggiungere tale obiettivo Hitler è portato ad operare scelte
cognitive autoreferenziali, a considerare ogni minimo ostacolo come una
difficoltà da superare senza eccessivi scrupoli, anche se queste scelte
possono portare danni alla sua stessa persona. Dal punto di vista
intellettivo, Hitler appare dotato sia sul piano della capacità
d'osservazione che sul piano strettamente analitico (caratteristiche
tipiche dei soggetti con intelligenza superiore alla norma). Nel momento
in cui però la componente intellettiva si rapporta con quella emotiva egli,
in realtà, emerge per la limitata oggettività del giudizio, la poca
ponderazione delle critiche elaborate e la scarsa verifica dei
‘ragionamenti’ prodotti. Si evidenzia, infine, un’elevata capacità di
argomentare in maniera trascinante le tesi proposte e di sostenerle con
foga ed aggressività negli scontri verbali. La personalità di Hitler, quindi,
in base agli elementi emersi dall'analisi grafologica, si presenta come
complessa, ricca di contraddizioni, orientata sul versante nevrotico
ossessivo, rigida, diretta in maniera ‘univoca e tassativa’, volta a
sostenere le sue percezioni di una realtà costruita a volte (come altri
esami psicologici hanno evidenziato) su basi deliranti. Il soggetto
arricchisce la sua struttura cognitiva ed ideologica con costrutti mentali
dogmatici e cerca con le sue scelte di porre in essere strategie prive di
tentennamenti che lo inebriano e lo dominano.
Tempo fa sono stati resi pubblici alcuni documenti segreti della Cia dai
quali risulta che il medico personale di Hitler, fin dall'aprile del '37,
sapeva che il Führer era pazzo, cioè: «Al limite tra genialità e pazzia».
Scrive il medico: «Lo esamino da molti anni, e penso che nel prossimo
futuro saprò se nel Führer prevarrà la pazzia. In questo caso, temo che
diventerà il peggiore criminale della storia dell'umanità».
Il pensiero politico di Hitler è desumibile dall’opera Mein Kampf,
scritta nei mesi di prigionia del 1923 dopo il tentativo di putsch; Hitler
indicò la strada da seguire per conquistare le masse: «chi vuole
organizzarle e farsi obbedire da esse», scrisse, «deve prendere gli uomini
così come sono, e perciò deve conoscerli, senza stimare troppo o troppo
poco l’umana natura. Deve tenere conto della loro debolezza, della loro
viltà e di tutti gli altri aspetti del loro carattere». La maggior parte
dell’umanità, secondo Hitler, era «mentalmente pigra» e poteva perciò
essere forgiata dalla propaganda, che assumeva un ruolo fondamentale
nell’attività politica. Dopo che il lavoro propagandistico aveva indotto
«un intero popolo a credere in una dottrina», sarebbe bastato un pugno
di uomini a guidarlo. Gli argomenti usati nella propaganda hitleriana
furono il nazionalismo, il razzismo, fondato sulla presunta superiorità
della razza ariana e l’anticomunismo. Molti tedeschi erano convinti che
VI
la Germania fosse stata ingiustamente umiliata dopo la Grande Guerra
con la separazione dalla madre patria i territori abitati da popolazioni di
nazionalità tedesca, e aspiravano a riconquistarli. Hitler fece leva sul
sentimento di umiliazione e sul sentimento di rivincita, per impostare
una politica estera diretta ad unificare in una sola patria tutti coloro che
appartenevano alla nazionalità tedesca per lingua, cultura e tradizione.
Secondo i nazionalisti, gli antichi Germani avevano consegnato ai loro
discendenti un patrimonio genetico che costituiva il carattere distintivo
della stirpe tedesca: era proprio la stirpe l’elemento di continuità della
storia e l’individuo veniva ad annullarsi in essa. Ma, affinché la stirpe
potesse perpetuarsi, il sangue non doveva essere contaminato. Nel Mein
Kampf, Hitler faceva risalire «l’intossicazione del sangue tedesco» al
lontano passato. Lo Stato doveva preoccuparsi di ristabilire la purezza
razziale, avvalendosi di tutte le risorse della scienza medica e
impedendo di avere figli non solo ai «degenerati di corpo», ma anche ai
«malati di spirito». Sul fondamento del razzismo, Hitler giustificava
l’esistenza di popoli sfruttatori e di popoli sfruttati: questi ultimi
costituivano le «riserve umane» cui i primi, e in particolare gli «ariani»,
avevano attinto nei secoli e avrebbero continuato ad attingere, per poter
progredire. Di qui l’importanza della conquista e della guerra, che
consentivano ai popoli di razza superiore di assoggettare quelli di razza
inferiore.
5.1.1 Pirandello
La follia è il grande tema che percorre tutta l'opera pirandelliana.
Pirandello, a differenza di Svevo, non lesse direttamente le opere di
Freud, ma la sua opera è piena di richiami al mondo della follia,
dell’inconscio, del sogno.
A questo contribuì anche l’esperienza
familiare dello scrittore, la cui moglie era
affetta da disturbi psichici che si
manifestavano in una forma di gelosia
morbosa che la portò a immaginare che il
marito avesse una relazione incestuosa
con la figlia Lietta. La moglie di Pirandello
verrà rinchiusa in una casa di cura a Roma
nel 1919 e vi resterà per quarant’anni sino
alla morte nel 1959 «come un fantasma
distante ma sempre presente allo scrittore,
un segno di colpa e di insuperabile
tensione» (G. Ferroni).
La sua fonte fu dunque lo psichiatra
Alfred Binet, che gli offrì le formulazioni
scientifiche di alcune sue intuizioni sulla variabilità degli stati psicologici
e sulla scomposizione della personalità. È questo il suo punto di partenza
per esplorare quella crisi d'identità che qualsiasi evento può scatenare e
VII
che è uno dei terni fondamentali della sua produzione. Dall'idea per cui
la personalità degli uomini non è una ma molteplice verrà uno dei suoi
temi decisivi: la follia. I suoi personaggi si sdoppiano, sono dissociati,
sono contemporaneamente : ‘uno, nessuno e centomila’.
5.1.2 La disgregazione dell'io
L'analisi dell'identità condotta da Pirandello lo portò a formulare la
teoria della ‘disgregazione dell'io’. In un articolo del 1900 scrive:
«Il nostro spirito consiste di frammenti, o meglio, di elementi distinti, più
o meno in rapporto tra loro, i quali si possono disgregare e ricomporre in
un nuovo aggregamento, così che ne risulti una nuova personalità, che
pur fuori dalla coscienza dell'io normale, ha una propria coscienza a
parte, indipendente, la quale si manifesta viva e in atto, oscurandosi la
coscienza normale, o anche coesistendo con questa, nei casi di vero e
proprio sdoppiamento dell'io. [...] Talché veramente può dirsi che due
persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel
medesimo individuo. Con gli elementi del nostro io noi possiamo perciò
comporre, costruire in noi stessi altre individualità, altri esseri con
propria coscienza, con propria intelligenza, vivi e in atto».
Paradossalmente, il solo modo per recuperare la propria identità è la
follia, tema centrale in molte opere, come l'Enrico IV o come Il berretto a
sonagli, nel quale Pirandello inserisce addirittura una ricetta per la