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Sintesi
Finanza: bisogno di un'alternativa
INTRODUZIONE

CRISI: la parola che più spesso ho sentito ripetere nell’ultimo periodo. Crisi finanziaria, crisi di liquidità, crisi industriale, crisi economica, crisi del debito sovrano.

Analizzando la grande crisi del ’29, sia analizzando quella attuale, ho avuto modo di capire che la principale causa della tanto risentita crisi è la FINANZA (intesa come sistema bancario e mercato finanziario). Ho avuto modo di capire che questa principale causa è frutto dell’avidità dell’uomo.

La cosa positiva che ho imparato è che noi tutti abbiamo le qualità innate necessarie per dare una svolta a questa situazione, ma tale svolta deve essere innescata attraverso i nostri piccoli gesti personali.

Ed ecco perché credo che l’umanità necessiti di un’alternativa.

L’alternativa c’è, basta volerla vedere!



















Indice

- La crisi del ‘29
- L’attuale crisi
- L’economia del bene comune
- Imprese per il bene comune
- Volontariato





LA CRISI DEL 1929
Dopo la conclusione della Grande Guerra, l’America occupava un ruolo centrale nell’economia mondiale. Gli anni Venti furono, infatti, un periodo di grande prosperità che rappresentò il boom economico postbellico. Questa grande crescita fu possibile grazie alla politica protezionistica adottata, che stimolava la produzione interna. Un altro importante fattore fu la grande esportazione di prodotti agricoli e industriali verso l’Europa e la grande concessione di prestiti da parte delle banche di New York su scala internazionale. Durante questo periodo, oltre un milione di americani decisero di investire in borsa e videro i lori capitali aumentare del 400% in soli 4 anni. Questa crescita economica aggravò gli squilibri nella distribuzione dei redditi e questo comportò la sovrapproduzione in molte aziende; infatti, la gran quantità di merce prodotta superava di gran lunga la domanda di essa.
Nel ’25 anche l’Europa iniziò a dare segnali di ripresa, mentre in America continuava a crescere il clima di benessere ed estrema fiducia che portò a credere che la ricchezza fosse a portata di tutti. Iniziò, così, una sfrenata corsa alla speculazione; infatti, tra il ’25 e il ’28 il valore delle azioni scambiate a Wall Street crebbe vertiginosamente.
I primi segni di recessione economica si videro già tra il’28 e il ’29. Lo squilibrio tra la produ-zione e i consumi si acuì e, di conseguenza, gran parte dei prodotti restavano invenduti nei depositi. Molte di queste aziende fallirono, vista l’impossibilità dei proprietari di restituire alle banche i soldi avuti in prestito per potenziare le loro industrie. La stessa sorte toccò agli agricoltori che, dopo aver richiesto prestiti per l’acquisto di nuove macchine agricole e aver aumentato la produttività delle terre, si ritrovarono con troppa merce invenduta e l’impossibilità di restituire i prestiti accesi. Con gli industriali e gli agricoltori fallirono anche numerose banche, che avevano concesso loro il danaro. Il fattore scatenante della crisi fu il crollo della Borsa di Wall Street il 24 e il 28 ottobre 1929 (il giovedì e il martedì nero), conseguenza di una improvvisa crisi di fiducia dopo continui e vertiginosi rialzi. L’ondata di vendite al ribasso di titoli bruciò nel giro di un paio di settimane una ricchezza superiore a 30 milioni di dollari. Il crollo dei titoli azionari colpì, in primo luogo, le banche e, di riflesso, tutti coloro che con esse avevano contratto debiti che vennero improvvisamente chiamati a restituirli. Il panico si diffuse con rapidità in tutto il Paese: chi aveva depositato nelle banche i propri risparmi, all’avvicinarsi della bufera corse a ritirarli e, così facendo, accelerò la catena dei fallimenti bancari. Nel giro di pochi mesi vi fu un drastico crollo dei consumi, che causò una contrazione della produzione di molte industrie, le quali si trovarono a lavorare al di sotto delle loro possibilità, accumularono perdite, licenziarono parte del personale, tagliarono i salari e bloccarono gli investimenti. La Germania, dipendente dai prestiti americani, vide ritirarsi improvvisamente ed in modo massiccio tutti i capitali che le erano stati prestati, dovendo così incassare un colpo mortale. Anche qui, infatti, la catena dei fallimenti bancari fu lunghissima e il blocco dell’attività economica immediato. La crisi americana e il crollo tedesco diedero così il via a gravi ripercussione su tutta l’Europa, partendo dall’economia inglese e da quella francese. Brasile, Argentina, India, Australia e Nuova Zelanda, la cui economia si reggeva sull’esportazione verso i Paesi industrializzati, risentirono drasticamente del crollo dei prezzi della materia prima e dei prodotti agricoli. L’intera economia mondiale era così sprofondata in una depressione dalla quale non sarebbe uscita se non all’indomani della seconda guerra mondiale.
Nel 1930 gli Stati Uniti intrapresero una politica protezionistica orientata verso la massima autosufficienza economica, ribattezzata “autarchia”, aumentando i dazi doganali, introducen-do quote e divieti di importazione e riducendo i legami con l’estero. Immediatamente, i prin-cipali Paesi europei li imitarono.
I vari governi tentarono la ripresa nello stesso modo: maggior intervento dello Stato in ogni settore dell’economia. I diversi governi tentarono di contrastare la dilagante disoccupazione dando impulso ai lavori pubblici e introducendo varie forme di assistenza, quali assicurazioni, sussidi e indennità. In alcuni casi, lo Stato si spinse fino all’acquisizione diretta del controllo di banche e imprese in crisi e nacquero dunque lo “stato banchiere” e lo “stato imprenditore”. Negli USA il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt, in carica dal 1933 al 1945, adottò una politica deflazionistica al fine di ridurre la circolazione monetaria, introducendo nuove tasse, riducendo le spese del governo centrale e gli stipendi dei pubblici dipendenti. Una volta consolidato il bilancio, Roosevelt adottò una politica per favorire i consumi e, di conseguenza, la ripresa produttiva: il New Deal. Vennero introdotti sussidi per i disoccupati e gli agricoltori, sostegni ai prezzi dei prodotti agricoli, incentivi ai contadini per ridurre la produzione, furono ampliate le spese per le opere pubbliche, molti giovani disoccupati furono impiegati in lavori di conservazione dell’ambiente. Tutto ciò comporto un crescente intervento dello stato federale nella sfera economica. Dal punto di vista sociale, il New Deal portò rilevanti innovazioni; infatti, venne introdotto per la prima volta un sistema pensionistico nazionale, vennero lanciati programmi di assistenza sociale ai disagiati, venne riconosciuta la libertà di organizzazione sindacale e furono fissati i minimi salariali nazionali. I risultati economici però non furono sorprendenti; infatti, nel 1937, con la continua crescita del deficit del bilancio federale, vennero bloccate le spese pubbliche. Solamente a partire dal 1939, con l’espansione delle spese militari fu possibile un rilancio dell’economia e il graduale riassorbimento della disoccupazione.

L’ATTUALE CRISI
Nel 2001, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, per scongiurare il rallentamento della crescita del PIL, l’amministrazione Bush ha indotto le famiglie americane a non rinunciare ai consumi ma anzi a consumare di più facendo crescere la domanda e scongiurando quindi una stagnazione del mercato. L’edilizia residenziale si presentava come un settore promettente sia perché esaudiva il sogno di migliaia di famiglie che desideravano acquistare la prima casa, sia perché il settore delle costruzioni richiede l’impiego di molteplici professionalità ed è quindi in grado di stimolare l’occupazione in diversi settori. Il Ministro del Tesoro e il Governo vararono dunque provvedimenti per estendere anche a famiglie con reddito modesto l’accesso al credito per l’acquisto di una casa attraverso la stipula di mutui immobiliari concessi senza richiedere sufficienti garanzie ai contraenti; generalmente questi mutui avevano tassi di interesse molto convenienti per i primi anni ma, trattandosi di tassi variabili, erano soggetti a fluttuazioni improvvise e impennate anche pesanti negli anni successivi. Inoltre l’ammontare del mutuo poteva arrivare a coprire anche il 100% del valore stimato dell’immobile, senza richiedere alcun anticipo diretto da parte del contraente. I mutui di questo tipo vennero denominati sub-prime (o sub-standard) in quanto la loro caratteristica era di non rispettare gli standard normalmente richiesti dalle banche ai contraenti per la concessione di un mutuo. Dal canto loro le banche cartolarizzavano in breve tempo il credito dei mutui sub-prime trasformandolo in un titolo e vendendolo alle Società Veicolo (SIV), potendo così continuare a concedere nuovi prestiti e non avendo così interesse a verificare l’affidabilità dei contraenti in quanto il rischio di insolvenza veniva trasferito alle SIV e da queste agli investitori che compravano titoli in cui erano ricompresi anche questi mutui. Questi titoli venivano assicurati dal rischio di insolvenza tramite i certificati di protezione del rischio emessi da altre società finanziarie che ha sua volta potevano essere rivenduti. Come immediata conseguenza di questa attività finanziaria fortemente speculativa, i prezzi degli immobili negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2005 aumentò più del 50% a causa della forte crescita della domanda. Gran parte delle famiglie americane si indebitarono e nel 2006, ad esempio, almeno 600 miliardi di dollari erano stati contratti da proprietari con elevato rischio di insolvenza. All’inizio del 2007 la FED, banca centrale degli Stati Uniti, prese la decisione di aumentare i tassi di interesse: le rate mensili di centinaia di migliaia di mutui a tasso variabile lievitarono e una massa di contraenti smise di pagarle preferendo lasciare alle banche la proprietà delle case. L’ondata di pignoramenti portò a una diminuzione del valore degli immobili al di sotto del livello del capitale da rimborsare. Allo sgonfiarsi del prezzo degli immobili, artificialmente salito grazie alla bolla speculativa, si è poi aggiunta la diffusione del panico: tutti gli investitori, spaventandosi della discesa, cominciarono a vendere anche a prezzi ridicoli per paura di una continua riduzione di valore, così il prezzo delle abitazioni continuò a scendere. Le banche e gli investitori internazionali che avevano acquistato prodotti finanziari strutturati in cui erano compresi anche questi mutui, cominciarono a subire ingenti perdite, e decisero di interrompere l’acquisto e procedere alla rapida dismissione di quelli in portafoglio. Le Società Veicolo si ritrovarono di fronte ad uno stop delle vendite dei titoli strutturati da loro confezionati e da crescenti richieste di riscatto, che le portò in una situazione di grave dissesto finanziario. L’intervento di salvataggio dei propri veicoli costò alle banche centinaia di miliardi. Inoltre le società che avevano assicurato i mutui dal rischio di insolvenza si ritrovarono in una situazione di crisi e molte furono salvate con fondi governativi che il Tesoro degli USA destinò allo scopo di scongiurare il fallimento di centinaia di società e arrestare la crisi finanziaria. La Federal Reserve intervenne massicciamente sia acquistando dalle banche titoli obbligazionari garantiti dai mutui ipotecari, sia finanziando le banche stesse ad un tasso vicino allo zero, iniettando nel sistema bancario, secondo alcune stime non ufficiali, ben 7.700 miliardi di dollari. Oramai il processo di depressione era avviato, infatti, soprattutto in quei Paesi nei quali si era manifestata un’eccessiva dipendenza dell’economia dal sistema bancario, e in particolare da un sistema bancario spregiudicato che aveva fatto largo ricorso all’investimento in titoli strutturati e derivati, era iniziata una notevole crisi. Un emblematico esempio è l‘Irlanda. Uno dei fattori scatenanti che portò l’ondata di perdite a riversarsi sul continente europeo, soprattutto sul sistema bancario e finanziario, fu il fallimento nell’autunno del 2008 della grande banca d’investimento americana Lehman Brothers. Il fallimento di tale banca portò ad un crollo di fiducia tra banche di cui stiamo ancora pagando la conseguenza.
Analizzando il problema italiano dobbiamo partire dalle sue origini: gli anni Settanta. I politici del tempo scoprirono che esisteva il modo di conciliare l’inconciliabile: aumentare la spesa pubblica a vantaggio di una molteplicità di interessi particolari, senza aumentare corrispon-dentemente le imposte. Bastava, appunto, chiedere denaro in prestito. Innanzitutto ai propri stessi cittadini, molto più disposti a prestare allo Stato denaro ad alto interesse che a vederselo sfilare dalle tasche a fondo perduto, in forma di tasse. Successivamente anche i risparmiatori stranieri furono attratti dagli alti tassi pagati dal debitore sovrano italiano, chiudendo gli occhi sui rischi che sempre si corrono a prestare denaro a chi non lo fa fruttare. L’Italia, ed altri Stati “periferici”, come Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, iniziarono così un lungo processo di indebitamento. Con la partecipazione all’euro di questi Paesi, si eliminarono per gli investitori i rischi legati al tasso di cambio, perciò con l’euro, investire in Germania o in Grecia non faceva più alcuna differenza. Con questa sempre maggiore integrazione dei Paesi dell’Unione nacque una sempre più profonda convinzione che nessuno di essi sarebbe stato lasciato scivolare verso un default. Il caso greco ha fatto vacillare questa convinzione, quando sul finire del 2009, venne scoperto che il bilancio pubblico era in condizioni molto peggiori di quanto dichiarato fino ad allora. In questo modo venne messa in discussione la sopravvivenza stessa della moneta unica e gli investitori di tutto il mondo iniziarono a pensare che all’Europa l’euro fosse venuto a noia. Nel caso in cui l’euro si fosse disgregato avrebbero deciso di tutelarsi da possibili problemi futuri dati dai tassi di cambio delle valute post-euro, vendendo fin da subito un po’ di Grecia, di Spagna, d’Italia preferendo il più sicuro rifugio alternativo dei titoli tedeschi. Ecco spiegato il famigerato spread. Ad inizio 2013 la BCE ha chiarito che il rischio di convertibilità non esiste, che l’euro resta irreversibile e che farà qualsiasi cosa serva per assicurare l’intangibilità dell’euro.
L’ECONOMIA DEL BENE COMUNE
Finora gli interventi in materia di politica monetaria sono stati più “antidolorifici” che “antin-fiammatori”: ovvero sono stati rivolti alla neutralizzazione dei sintomi della crisi piuttosto che all’eliminazione delle cause. Infatti la BCE ha iniettato sul mercato oltre mille miliardi di euro con aste straordinarie di finanziamento che sono finiti alle banche che a loro volta li hanno investiti in attività finanziarie (comprando titoli di Stato e sostenendo così il debito pubblico) anziché riversarle sull’economia reale (non finanziando imprese ed attività economiche).
John M. Keynes diceva: ”Gli speculatori possono essere innocui se sono delle bolle sopra un flusso regolare di intraprese economiche; ma la situazione è seria se le imprese diventano una bolla sospesa sopra un vortice di speculazioni. Quando l’accumulazione di capitale di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male.”. Ed ecco descritta la situazione in cui viviamo. L’attuale forma dell’attività economica, l’economia di mercato capitalista, ha creato un paesaggio pericoloso segnato dalla crisi: bolle finanziarie, disoccupazione, crisi della distribuzione, crisi del clima, crisi dell’energia, crisi della fame, crisi del consumo, crisi dei valori e crisi della democrazia.
Tutte queste crisi sono legate tra loro e sono riconducibili a una radice comune: un sistema economico contraddistinto dalla concorrenza e dalla ricerca del profitto. Questo sistema pro-muove un comportamento egoista e spietato che distrugge i rapporti umani, minacciando la pace mentale, sociale ed ecologica. Ed è proprio in questa situazione di depressione che l’economista Christian Felber ci propone un’economia più umana e anche più efficiente: l’economia del bene comune, la quale è fondata sui valori di fiducia, apprezzamento, cooperazione, solidarietà e collaborazione, evitando un clima di concorrenza ed egoismo.
Quest’economia alternativa più essere riassunta in 18 punti fondamentali che qui descriverò.

1) L’economia del bene comune si basa sugli stessi valori fondamentali che portano alla riuscita delle nostre relazioni umane: formazione della fiducia, cooperazione, ricono-scenza, condivisione, stima, democrazia, solidarietà. Secondo alcune scoperte scientifi-che, le relazioni funzionanti sono quelle che portano la massima felicità e la massima motivazione alle persone.

2) Il quadro di incentivi di legge per l’economia viene rovesciato: dalla ricerca del profitto e della concorrenza si passa alla ricerca del bene comune e alla cooperazione. Le imprese sono premiate se puntano sull’aiuto reciproco e sulla cooperazione. La «con(tro)concorrenza» è possibile ma causa degli svantaggi.

3) Il successo economico non è più misurato secondo una dimensione monetaria, bensì con indicatori di valori di utilità. A livello macroeconomico (economia nazionale), il PIL viene sostituito dal Prodotto del Bene Comune, a livello micro (imprese) il bilancio economico viene rimpiazzato dal bilancio del bene comune, che diventa il primo bilan-cio di tutte le imprese. Quanto più le imprese agiscono e si organizzano in maniera so-ciale, ecologica, democratica e solidale, tanto migliori sono i risultati di bilancio rag-giunti. Quanto migliori sono i risultati dei bilanci del bene comune ottenuti dalle im-prese nell’economia di un Paese, tanto maggiore è il prodotto interno del bene comune.


4) Le imprese che hanno dei buoni bilanci del bene comune ottengono vantaggi sul piano giuridico: sgravi fiscali, dazi inferiori, mutui agevolati, precedenza negli appalti pubblici e nei programmi di ricerca etc. In tal modo si facilita l’ingresso sul mercato di attori etici e i prodotti e i servizi di questi ultimi diventano più convenienti di quelli non etici, non equi e non ecologici.

5) Il bilancio finanziario diventa un bilancio secondario. Il profitto economico da obiettivo diventa mezzo per raggiungere il nuovo scopo dell’impresa: il contributo al bene comune. Infatti i profitti possono essere utilizzati per investimenti (con valore aggiunto sociale ed ecologico), estinzione di mutui, restituzioni di crediti, accumulo in un fondo di riserva in misura limitata, ripartizione dei proventi ai collaboratori in misura limitata e crediti senza interessi ad altre imprese. I profitti non possono essere utilizzati per: ripartizione dei proventi a persone che non lavorano nell’impresa, acquisizioni ostili di altre imprese, investimenti sui mercati finanziari (che non esistono più) o finanziamenti ai partiti.

6) Poiché il profitto è solo un mezzo e non l’obiettivo finale, le imprese possono mirare al raggiungimento delle loro dimensioni ottimali. Non devono più temere di essere inglobate e non sono più costrette a crescere per diventare più grandi, più forti o più redditizie di altre. Tutte le imprese sono liberate dall’obbligo generale di crescere e di subire o effettuare acquisizioni, e grazie a ciò ci saranno tante piccole imprese in tutti i settori. Senza l’obbligo di crescita, saranno più facili la cooperazione e la solidarietà con le altre aziende, che porteranno ad un buon risultato del bilancio del bene comune, non alle spalle di altre imprese, ma per il loro vantaggio. In questo clima di apprendimento solidale, le imprese saranno tutte vincitrici.

7) Le disuguaglianze di reddito e di patrimonio tra i cittadini vengono limitate: il reddito massimo, ad esempio, potrebbe essere fissato a dieci volte il reddito minimo stabilito per legge; il patrimonio privato potrebbe essere limitato, ad esempio, a 10 milioni di euro; i diritti di donazione e di successione, ad esempio, a 500.000 euro a persona e nel caso i imprese famigliari, ad esempio, a 10 milioni di euro per figlio o figlia. Il patrimonio ereditario superiore a questa cifra viene ridistribuito attraverso un fondo generazionale come «dote democratica» a tutti i giovani della generazione successiva: prevedere un «capitale di avviamento» di pari dimensioni significa facilitare il raggiungimento di autentiche pari opportunità. I limiti precisi devono essere individuati in maniera democratica da un’assemblea per l’economia.

8) Nel caso di grandi imprese, a partire da una certa dimensione (ad esempio 250 dipen-denti), i diritti di voto e di proprietà passano in parte e per gradi ai dipendenti e alla collettività. La collettività potrebbe essere rappresentata da «parlamenti economici re-gionali», eletti direttamente.

9) Lo stesso vale anche per le «proprietà comuni democratiche», la terza categoria di proprietà a fianco di una maggioranza di (piccole) imprese private e di grandi imprese a proprietà mista. Le «proprietà comuni democratiche» o «communalia democratiche» sono aziende a gestione collettiva nell’ambito dell’istruzione, della sanità, del sociale, della mobilità, dell’energia e della comunicazione: i “servizi pubblici”. Il governo non deve avere diritto di voto in imprese pubbliche.

10) Una proprietà comune democratica è la «Banca democratica». Come tutte le imprese, è al servizio del bene comune e, come tutte le proprietà comuni democratiche è controllata dal popolo sovrano e non dal governo. I suoi servizi fondamentali sono patrimoni di risparmio garantiti, conti correnti gratuiti, crediti a tasso conveniente e crediti sulla fiducia per progetti eco-sociali. Non esisteranno più i mercati finanziari nella forma attuale. Lo Stato si finanzierà prevalentemente attraverso crediti dalla banca centrale, senza interessi. La banca centrale ottiene il monopolio della creazione di moneta e gestisce i movimenti dei capitali con l’estero per sopprimere l’evasione fiscale.

11) La natura viene riconosciuta come valore proprio e quindi non può diventare proprietà privata. Chi ha bisogno di un pezzo di terra per scopo abitativo, per la produzione o per l’agricoltura, può utilizzare un’area limitata gratuitamente o pagando una tassa di usufrutto. La cessione è legata a condizioni ecologiche e all’utilizzo concreto. Così hanno fine il land-grabbing, la proprietà di grandi latifondisti e la speculazione immobiliare. In cambio non ci sarà più la tassa sugli immobili.

12) La crescita dell’economia non è più uno scopo, mentre lo diventa la riduzione dell’impronta ecologica delle persone, delle imprese e degli Stati, fino a un livello glo-balmente sostenibile. Persone private e imprese vengono incentivate a misurare la propria impronta ecologica e a ridurla a un livello globalmente equo e sostenibile.

13) L’orario di lavoro medio viene ridotto gradualmente a 30-33 ore a settimana. In tal modo si guadagna tempo per tre altri ambiti fondamentali dell’attività lavorativa: il la-voro relazionale ed assistenziale (bambini, malati, anziani), il lavoro sulla persona (sviluppo della personalità, arte, giardinaggio, relax) e il lavoro politico e per il bene comune. Con questa gestione del tempo il nostro stile di vita diventerebbe più soddisfacente, ecologicamente più sostenibile e con minori consumi.

14) Un anno ogni dieci anni di lavoro è un «anno sabbatico», finanziato attraverso un «reddito base» a fondo perduto. Durante questo periodo le persone possono dedicarsi ad attività liberamente scelte. Questa misura rappresenta un decongestionamento del 10% del mercato del lavoro: percentuale pari all’attuale tasso di disoccupazione nella UE.


15) Il sistema democratico rappresentativo viene integrato dalla democrazia diretta e dalla democrazia partecipativa. Il popolo sovrano deve poter correggere i suoi rappresentanti, deliberare direttamente alcune leggi, modificare la Costituzione e controllare gli ambiti dei servizi essenziali (rete ferroviaria, posta, banche). In una vera democrazia gli interessi dei rappresentanti e del popolo sovrano sono identici.

16) Tutti i punti fondamentali di questo sistema alternativo devono maturare nel corso di un ampio processo democratico, grazie ad un dibattito intenso, prima di essere tra-sformati in leggi da un’assemblea per l’economia ad elezione diretta. Il risultato è sot-toposto al voto del popolo sovrano. Ciò che viene accettato, è inserito nella Costituzio-ne e può essere nuovamente modificato solo dal popolo sovrano stesso. Per rafforzare la democrazia si possono organizzare ulteriori convenzioni: sull’istruzione, sui media, sui servizi pubblici, sulla democrazia stessa.

17) Affinché i bambini possano apprendere e praticare i valori dell’economia del bene co-mune fin da piccoli, anche il settore dell’istruzione/educazione deve essere organizza-to a misura del bene comune. Questo richiede una diversa organizzazione delle scuole e altri contenuti, per esempio con materie che insegnino i sentimenti, i valori, la comu-nicazione, la democrazia, la percezione della natura e la sensibilità per il proprio corpo.

18) Poiché nell’economia del bene comune il successo economico avrà un significato com-pletamente diverso da quello attuale saranno necessarie qualità di leadership comple-tamente diverse: non verranno più ricercati i manager più egoisti, spietati e più “inte-ressati ai numeri”, ma persone che agiscono in modo competente e socialmente re-sponsabile, compassionevole ed empatico, che vedono la co-gestione come possibilità e un vantaggio, e che pensano in maniera sostenibile nel lungo termine.

L’economia del bene comune non è né il migliore dei sistemi economici, né la fine della storia, ma soltanto un possibile passo avanti verso il futuro dopo gli estremi del capitalismo e del comunismo. È un processo partecipativo, aperto ad ulteriori evoluzioni, alla ricerca di una sinergia con approcci simili. Con l’impegno comune di numerose persone coraggiose e decise, è possibile creare qualcosa di fondamentalmente nuovo. Tutti possono partecipare alla trasformazione del sistema economico verso l’economia del bene comune.



Dopo aver analizzato il sistema economico proposto da Felber mi sono resa conto che i Padri Costituenti avevano gridato agli italiani questo approccio all’economia sin dal 1948 con la stesura dell’articolo 41:

L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

L’art. 41 riconosce che l’iniziativa economica privata è libera ma precisa che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. Ecco, il vero problema è che ciò che viene chiamato "utilità sociale" non è mai stato definito. Nonostante ciò il terzo comma spiega in modo impeccabile e senza dubbi di interpretazione come l’attività economica, e di conseguenza il successo economico, sia solo il mezzo per il raggiungimento di scopi sociali. Sociale significa che tende a migliorare le condizioni di vita dei cittadini meno abbienti e a realizzare una maggiore perequazione tra le varie componenti di una società. Un esempio di come il termine utilità sociale sia mutato nel tempo è dato dall’alfabetizzazione: a fine ‘800 l’istruzione non era un’utilità sociale per eccellenza infatti il tasso di analfabetismo era pari al 70%, ma con il passare degli anni la sua importanza sociale è cresciuta al punto di obbligare le nuove generazioni a prestazioni scolastiche sempre più impegnative fino agli attuali 12 anni di frequenza media contro i soli 3 degli anni '50 che hanno portato ad un analfabetismo pari all’1%.


IMPRESE PER IL BENE COMUNE
L’economia del bene comune non è un’utopia. Esistono imprenditori che hanno altri obiettivi oltre al puro profitto economico. La cooperazione è un principio fondamentale dell’evoluzione. Già oggi esistono, in mezzo al capitalismo globalizzato, imprese che vivono uno o più aspetti del bene comune. Ad esempio la nascita della sigla di qualità FAIRTRADE (1988, Paesi Bassi) ne è la conferma. Tale marchio certifica il commercio equo-solidale il quale garantisce un pagamento adeguato per il produttore e il rispetto dei criteri sociali ed ecologici nella coltivazione e nelle condizioni di lavoro. “Le botteghe del mondo” perciò oltre ad essere dei negozi, sono anche punti di informazione e di formazione della coscienza per tutti i clienti. Nell’anno 2009 il fatturato totale di prodotti certificati FAIRTRADE è stato pari a 3,4 miliardi di euro ed è in continuo aumento, come anche la gamma di prodotti. Un altro piccolo grande passo compiuto sulla strada dell’economia del bene comune, si è realizzato nell’ambito bancario con la nascita di varie banche di stampo etico.
• GLS Bank
La tedesca Gemeinschaftsbank für Leihen und Schenken è una banca cooperativa fondata nel 1974. Fu la prima banca in Germania ad operare con una filosofia etica avendo come principali obiettivi iniziative culturali, sociali ed ambientali. La banca finanzia più di 6500 imprese e progetti nei settori di scuole e asili liberi, energie rigenerative, servizi per persone diversamente abili, abitazioni, edilizia sostenibile e servizi per anziani. Per tutte le attività bancarie esistono alcuni criteri di esclusione tra cui alcool, energia nucleare, ricerca sugli embrioni, ingegneria genetica nell’agricoltura, riarmo, tabacco, lavoro infantile ed esperimenti sugli animali. Tutti i crediti concessi sono pubblicati sulla rivista Bankspiegel e per principio non sono trasferibili, evitando così operazioni speculative. Nel 2009 i depositi dei clienti ammontavano a 1,35 miliardi di euro. La GLS Bank ha, oltre alla sede centrale a Bochum, altre sei filiali: a Monaco, Francoforte, Stoccarda, Friburgo e Berlino, presso le quali lavorano in tutto 254 persone.
• Grameen Bank
La Grameen Bank (in bengalese: banca del villaggio) è una banca che si occupa di micro finanza in Bangladesh e in India negli stati del Bengala occidentale e del Sikkim. Fondata dall’economista Muhammad Yunus, nel 1976, è stata la prima banca dei poveri. L'ente conce-de, infatti, micro prestiti alle popolazioni povere locali senza richiedere garanzie collaterali e garantendo così il loro accesso al credito. Il sistema si basa sull'idea che i poveri abbiano atti-tudini e capacità imprenditoriali sottoutilizzate e sulla fiducia. La Grameen Bank oggi ha 1.084 filiali in cui lavorano 12.500 persone. I clienti in 73.000 villaggi sono circa 7 milioni, per il 97 % donne. L'organizzazione non è in perdita: il 98 % dei prestiti viene restituito. La banca, inoltre, raccoglie depositi, fornisce altri servizi, e gestisce varie attività economiche finalizzate allo sviluppo, tra cui società commerciali, telefoniche e nel settore dell'energia. All'organizzazione e al suo fondatore, Muhammad Yunus, è stato congiuntamente attribuito il Premio Nobel per la Pace nel 2006, "per i loro sforzi diretti a promuovere lo sviluppo economico e sociale dal basso.".
• Alternative Bank Schweiz
Una particolare Banca Etica è la ABS, fondata in Svizzera nel 1990 da 2600 persone e imprese, e che oggi ha un bilancio di circa un miliardo di euro. Oltre alla concessione di crediti concentrandosi sull’investimento in progetti alternativi, ABS ha una caratteristica distintiva: la trasparenza, vengono infatti pubblicati tutti i nomi dei creditori con la destinazione dei crediti. Internamente, democrazia e pari opportunità per uomini e donne hanno un ruolo importante. La banca ha oggi circa 24000 clienti e 4000 azionisti.
• Oikocredit
Oikocredit è un organizzazione internazionale fondata nel 1975 nei Paesi Bassi. È una coope-rativa per il finanziamento dello sviluppo che mette crediti e quote di capitale a disposizione di micro-istituzioni finanziarie, società e piccole e medie imprese nei paesi in via di sviluppo. Sostiene 797 progetti di credito in 71 Paesi in tutto il mondo. Il capitale complessivo, del quale beneficiano circa 17,5 milioni di persone, viene messo a disposizione da 34000 investitori e organizzazioni di 15 Paesi.
• Ethical Banking no-profit service
Ethical Banking è un settore della Cassa Rurale di Bolzano e di 18 Casse Reiffeisen altoatesine, concepito nel 2000 per dare la possibilità di investire il proprio denaro secondo delle direttive etiche. I risparmiatori che puntano sulle iniziative sostenute da Ethical Banking ottengono un doppio vantaggio: da un lato sono loro a decidere, fino a un tetto massimo, gli interessi e dall’altro canto possono scegliere il progetto che vogliono supportare. Il sostegno può essere dato in diversi settori, come l’agricoltura biologica, l’energia rinnovabile, il commercio equosolidale, le persone portatrici di handicap, le famiglie di contadini tramite il Fondo di solidarietà rurale.
• Banca Popolare Etica
Banca Etica nasce nel 1999 in forma di società cooperativa per azioni che opera nel rispetto delle finalità di cooperazione e solidarietà offrendo tutti i principali prodotti e servizi bancari per famiglie o per organizzazioni e imprese. Nell’art. 5 del suo Statuto, descrive in modo esplicito i suoi principi fondativi: trasparenza, partecipazione, equità, efficienza, sobrietà, attenzione alle conseguenze non economiche delle azioni economiche, credito come diritto umano. Con il risparmio raccolto vengono finanziati 4 settori principali: cooperazione sociale, cooperazione internazionale, cultura, tutela e difesa dell’ambiente, ai quali si sono aggiunti il microcredito, le energie rinnovabili, il social housing e il diritto alla casa. Essendo una banca cooperativa, la gestione democratica è assicurata dalla libera partecipazione dei soci secondo il principio di “una testa, un voto”. Un’altra particolarità di Banca Etica è la stesura del Bilancio Sociale il quale non si limita alla sola descrizione degli aspetti contabili ma comunica gli esiti della sua attività e le ricadute, o effetti, che l’ente produce sulla collettività.





IL VOLONTARIATO
La creazione di valore aggiunto utile funziona non soltanto senza ricerca del profitto, ma persino senza denaro. Tanti bisogni essenziali vengono soddisfatti nel capitalismo al di fuori di rapporti di mercato o di denaro. Se si considerasse l’economia come strumento per la soddisfazione dei bisogni umani, non servirebbe il mercato, considerando che sul mercato libero tanti bisogni fondamentali vengono ignorati mentre vengono soddisfatti bisogni creati artificialmente e persino varie dipendenze.
Nel tentativo di scovare qualche iniziativa su cui si possano costruire le fondamenta per un’economia del bene comune, ho scordato di citare la forma più limpida e trasparente: le prestazioni volontarie, non pagate. In seguito elenco alcune di queste prestazioni “invisibili” da cui dipende il capitalismo.
- Gravidanza, allattamento, cura dei bambini in crescita da parte delle madri di tutto il mon-do.
- Cura dei malati da parte di mogli, fidanzate o altri parenti.
- Aiuto a senza tetto e tossicodipendenti con distribuzione di pasti caldi e alimentari ai bisognosi.
- In caso di incidente il ferito sarà probabilmente trasferito in ospedale da soccorritori vo-lontari, e se ha perso tanto sangue gli verrà donato da uno sconosciuto.
- In caso di incendio i primi soccorsi arriveranno sicuramente da qualche vigile del fuoco volontario.
- Se sei in ritardo per una ricerca sicuramente farai un salto su Wikipedia.
I volontari in Italia sono 826 mila, circa l’1,37% degli abitanti, mentre si contano 21 mila associazioni di volontariato impegnate per lo più nel settore socio-assistenziale.


CONCLUSIONE

L’obiettivo della mia tesina era quello di mostrare l’alternativa, ma soprattutto, ricordare che dobbiamo mettere in gioco noi stessi!

Gandhi soleva dire: “Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo.”



Bibliografia :
Christian Felber, L’economia del bene comune. Un modello economico che ha futuro, Tecniche Nuove, Milano, 2012
Salvatore Rossi, Processo alla finanza, Editori Laterza, Roma, 2013


Siti internet:
www.vocidallastrada.com
www.****
www.wikipedia.org (Grameenbank, GLS Bank)
www.youtube.com (Cos’è Ethical Banking?, intervista a Fabio Salviato)
www.ethicalbanking.it
www.bancaetica.it
Estratto del documento

LA CRISI DEL 1929

Dopo la conclusione della Grande Guerra, l’America occupava un ruolo centrale

nell’economia mondiale. Gli anni Venti furono, infatti, un periodo di grande

prosperità che rappresentò il boom economico postbellico. Questa grande

crescita fu possibile grazie alla politica protezionistica adottata, che stimolava

la produzione interna. Un altro importante fattore fu la grande esportazione di

prodotti agricoli e industriali verso l’Europa e la grande concessione di prestiti

da parte delle banche di New York su scala internazionale. Durante questo

periodo, oltre un milione di americani decisero di investire in borsa e videro i

lori capitali aumentare del 400% in soli 4 anni. Questa crescita economica

aggravò gli squilibri nella distribuzione dei redditi e questo comportò la

sovrapproduzione in molte aziende; infatti, la gran quantità di merce prodotta

superava di gran lunga la domanda di essa.

Nel ’25 anche l’Europa iniziò a dare segnali di ripresa, mentre in America

continuava a crescere il clima di benessere ed estrema fiducia che portò a

credere che la ricchezza fosse a portata di tutti. Iniziò, così, una sfrenata corsa

alla speculazione; infatti, tra il ’25 e il ’28 il valore delle azioni scambiate a Wall

Street crebbe vertiginosamente.

I primi segni di recessione economica si videro già tra il’28 e il ’29. Lo squilibrio

tra la produzione e i consumi si acuì e, di conseguenza, gran parte dei prodotti

restavano invenduti nei depositi. Molte di queste aziende fallirono, vista

l’impossibilità dei proprietari di restituire alle banche i soldi avuti in prestito per

potenziare le loro industrie. La stessa sorte toccò agli agricoltori che, dopo aver

richiesto prestiti per l’acquisto di nuove macchine agricole e aver aumentato la

produttività delle terre, si ritrovarono con troppa merce invenduta e

l’impossibilità di restituire i prestiti accesi. Con gli industriali e gli agricoltori

fallirono anche numerose banche, che avevano concesso loro il danaro. Il

fattore scatenante della crisi fu il crollo della Borsa di Wall Street il 24 e il 28

ottobre 1929 (il giovedì e il martedì nero), conseguenza di una improvvisa crisi

di fiducia dopo continui e vertiginosi rialzi. L’ondata di vendite al ribasso di titoli

bruciò nel giro di un paio di settimane una ricchezza superiore a 30 milioni di

dollari. Il crollo dei titoli azionari colpì, in primo luogo, le banche e, di riflesso,

tutti coloro che con esse avevano contratto debiti che vennero

improvvisamente chiamati a restituirli. Il panico si diffuse con rapidità in tutto il

Paese: chi aveva depositato nelle banche i propri risparmi, all’avvicinarsi della

bufera corse a ritirarli e, così facendo, accelerò la catena dei fallimenti bancari.

Nel giro di pochi mesi vi fu un drastico crollo dei consumi, che causò una

contrazione della produzione di molte industrie, le quali si trovarono a lavorare

al di sotto delle loro possibilità, accumularono perdite, licenziarono parte del

personale, tagliarono i salari e bloccarono gli investimenti. La Germania,

dipendente dai prestiti americani, vide ritirarsi improvvisamente ed in modo

massiccio tutti i capitali che le erano stati prestati, dovendo così incassare un

colpo mortale. Anche qui, infatti, la catena dei fallimenti bancari fu lunghissima

e il blocco dell’attività economica immediato. La crisi americana e il crollo

tedesco diedero così il via a gravi ripercussione su tutta l’Europa, partendo

dall’economia inglese e da quella francese. Brasile, Argentina, India, Australia e

Nuova Zelanda, la cui economia si reggeva sull’esportazione verso i Paesi

industrializzati, risentirono drasticamente del crollo dei prezzi della materia

prima e dei prodotti agricoli. L’intera economia mondiale era così sprofondata

3

in una depressione dalla quale non sarebbe uscita se non all’indomani della

seconda guerra mondiale.

Nel 1930 gli Stati Uniti intrapresero una politica protezionistica orientata verso

la massima autosufficienza economica, ribattezzata “autarchia”, aumentando i

dazi doganali, introducendo quote e divieti di importazione e riducendo i legami

con l’estero. Immediatamente, i principali Paesi europei li imitarono.

I vari governi tentarono la ripresa nello stesso modo: maggior intervento dello

Stato in ogni settore dell’economia. I diversi governi tentarono di contrastare la

dilagante disoccupazione dando impulso ai lavori pubblici e introducendo varie

forme di assistenza, quali assicurazioni, sussidi e indennità. In alcuni casi, lo

Stato si spinse fino all’acquisizione diretta del controllo di banche e imprese in

crisi e nacquero dunque lo “stato banchiere” e lo “stato imprenditore”. Negli

USA il presidente democratico Franklin Delano Roosevelt, in carica dal 1933 al

1945, adottò una politica deflazionistica al fine di ridurre la circolazione

monetaria, introducendo nuove tasse, riducendo le spese del governo centrale

e gli stipendi dei pubblici dipendenti. Una volta consolidato il bilancio,

Roosevelt adottò una politica per favorire i consumi e, di conseguenza, la

ripresa produttiva: il New Deal. Vennero introdotti sussidi per i disoccupati e gli

agricoltori, sostegni ai prezzi dei prodotti agricoli, incentivi ai contadini per

ridurre la produzione, furono ampliate le spese per le opere pubbliche, molti

giovani disoccupati furono impiegati in lavori di conservazione dell’ambiente.

Tutto ciò comporto un crescente intervento dello stato federale nella sfera

economica. Dal punto di vista sociale, il New Deal portò rilevanti innovazioni;

infatti, venne introdotto per la prima volta un sistema pensionistico nazionale,

vennero lanciati programmi di assistenza sociale ai disagiati, venne

riconosciuta la libertà di organizzazione sindacale e furono fissati i minimi

salariali nazionali. I risultati economici però non furono sorprendenti; infatti, nel

1937, con la continua crescita del deficit del bilancio federale, vennero bloccate

le spese pubbliche. Solamente a partire dal 1939, con l’espansione delle spese

militari fu possibile un rilancio dell’economia e il graduale riassorbimento della

disoccupazione.

L’ATTUALE CRISI

Nel 2001, all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, per scongiurare il

rallentamento della crescita del PIL, l’amministrazione Bush ha indotto le

famiglie americane a non rinunciare ai consumi ma anzi a consumare di più

facendo crescere la domanda e scongiurando quindi una stagnazione del

mercato. L’edilizia residenziale si presentava come un settore promettente sia

perché esaudiva il sogno di migliaia di famiglie che desideravano acquistare la

prima casa, sia perché il settore delle costruzioni richiede l’impiego di

molteplici professionalità ed è quindi in grado di stimolare l’occupazione in

diversi settori. Il Ministro del Tesoro e il Governo vararono dunque

provvedimenti per estendere anche a famiglie con reddito modesto l’accesso al

credito per l’acquisto di una casa attraverso la stipula di mutui immobiliari

concessi senza richiedere sufficienti garanzie ai contraenti; generalmente

questi mutui avevano tassi di interesse molto convenienti per i primi anni ma,

trattandosi di tassi variabili, erano soggetti a fluttuazioni improvvise e

impennate anche pesanti negli anni successivi. Inoltre l’ammontare del mutuo

poteva arrivare a coprire anche il 100% del valore stimato dell’immobile, senza

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richiedere alcun anticipo diretto da parte del contraente. I mutui di questo tipo

sub-prime sub-standard)

vennero denominati (o in quanto la loro caratteristica

era di non rispettare gli standard normalmente richiesti dalle banche ai

contraenti per la concessione di un mutuo. Dal canto loro le banche

cartolarizzavano in breve tempo il credito dei mutui sub-prime trasformandolo

in un titolo e vendendolo alle Società Veicolo (SIV), potendo così continuare a

concedere nuovi prestiti e non avendo così interesse a verificare l’affidabilità

dei contraenti in quanto il rischio di insolvenza veniva trasferito alle SIV e da

queste agli investitori che compravano titoli in cui erano ricompresi anche

questi mutui. Questi titoli venivano assicurati dal rischio di insolvenza tramite i

certificati di protezione del rischio emessi da altre società finanziarie che ha

sua volta potevano essere rivenduti. Come immediata conseguenza di questa

attività finanziaria fortemente speculativa, i prezzi degli immobili negli Stati

Uniti tra il 2000 e il 2005 aumentò più del 50% a causa della forte crescita della

domanda. Gran parte delle famiglie americane si indebitarono e nel 2006, ad

esempio, almeno 600 miliardi di dollari erano stati contratti da proprietari con

elevato rischio di insolvenza. All’inizio del 2007 la FED, banca centrale degli

Stati Uniti, prese la decisione di aumentare i tassi di interesse: le rate mensili di

centinaia di migliaia di mutui a tasso variabile lievitarono e una massa di

contraenti smise di pagarle preferendo lasciare alle banche la proprietà delle

case. L’ondata di pignoramenti portò a una diminuzione del valore degli

immobili al di sotto del livello del capitale da rimborsare. Allo sgonfiarsi del

prezzo degli immobili, artificialmente salito grazie alla bolla speculativa, si è poi

aggiunta la diffusione del panico: tutti gli investitori, spaventandosi della

discesa, cominciarono a vendere anche a prezzi ridicoli per paura di una

continua riduzione di valore, così il prezzo delle abitazioni continuò a scendere.

Le banche e gli investitori internazionali che avevano acquistato prodotti

finanziari strutturati in cui erano compresi anche questi mutui, cominciarono a

subire ingenti perdite, e decisero di interrompere l’acquisto e procedere alla

rapida dismissione di quelli in portafoglio. Le Società Veicolo si ritrovarono di

fronte ad uno stop delle vendite dei titoli strutturati da loro confezionati e da

crescenti richieste di riscatto, che le portò in una situazione di grave dissesto

finanziario. L’intervento di salvataggio dei propri veicoli costò alle banche

centinaia di miliardi. Inoltre le società che avevano assicurato i mutui dal

rischio di insolvenza si ritrovarono in una situazione di crisi e molte furono

salvate con fondi governativi che il Tesoro degli USA destinò allo scopo di

scongiurare il fallimento di centinaia di società e arrestare la crisi finanziaria. La

Federal Reserve intervenne massicciamente sia acquistando dalle banche titoli

obbligazionari garantiti dai mutui ipotecari, sia finanziando le banche stesse ad

un tasso vicino allo zero, iniettando nel sistema bancario, secondo alcune stime

non ufficiali, ben 7.700 miliardi di dollari. Oramai il processo di depressione era

avviato, infatti, soprattutto in quei Paesi nei quali si era manifestata

un’eccessiva dipendenza dell’economia dal sistema bancario, e in particolare

da un sistema bancario spregiudicato che aveva fatto largo ricorso

all’investimento in titoli strutturati e derivati, era iniziata una notevole crisi. Un

emblematico esempio è l‘Irlanda. Uno dei fattori scatenanti che portò l’ondata

di perdite a riversarsi sul continente europeo, soprattutto sul sistema bancario

e finanziario, fu il fallimento nell’autunno del 2008 della grande banca

d’investimento americana Lehman Brothers. Il fallimento di tale banca portò ad

un crollo di fiducia tra banche di cui stiamo ancora pagando la conseguenza. 5

Analizzando il problema italiano dobbiamo partire dalle sue origini: gli anni

Settanta. I politici del tempo scoprirono che esisteva il modo di conciliare

l’inconciliabile: aumentare la spesa pubblica a vantaggio di una molteplicità di

interessi particolari, senza aumentare corrispondentemente le imposte.

Bastava, appunto, chiedere denaro in prestito. Innanzitutto ai propri stessi

cittadini, molto più disposti a prestare allo Stato denaro ad alto interesse che a

vederselo sfilare dalle tasche a fondo perduto, in forma di tasse.

Successivamente anche i risparmiatori stranieri furono attratti dagli alti tassi

pagati dal debitore sovrano italiano, chiudendo gli occhi sui rischi che sempre

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