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2009
Breve studio sull’evoluzione del concetto di destino dall’antichità
fino ad oggi
M ASSIMILI DESTINO O CASUALITÁ?
ANO
S MANIA
Sin dalle più antiche testimonianze in nostro
possesso, appare evidente come l'uomo abbia
sempre sentito la necessità di dare una spiegazione
ai fenomeni che lo circondano, ovvero di racchiudere
gli eventi naturali entro schemi mentali che attenuino
il sentimento d’inferiorità che lui stesso prova nei
confronti dell’immensità del mondo.
Prima dell’avvento della scienza, ogni cosa veniva
ricondotta a una o più entità antropomorfiche
superiori secondo una concezione religiosa della
natura, in base ad un rapporto finalistico che mirava
al benessere della popolazione umana. La pioggia ad
esempio era il dono che gli dei facevano agli uomini
per potersi cibare dei prodotti della terra. Le cose
però si complicavano quando si tentava di dare una
spiegazione agli avvenimenti apparentemente
insensati, ovvero privi di uno scopo evidente, come
malattie e carestie. In questo caso entrava in gioco il
concetto di Destino (o Fato), cioè quella forza
incomprensibile e invincibile che poteva determinare
tutti gli eventi cui persino gli dei dovevano sottostare.
In questo disegno divino non c’era naturalmente
alcun posto per la casualità, anzi questo stesso
concetto non sarebbe esistito fino alla nascita della
mentalità scientifica moderna. Nemesis, Alfred Rethel
La tematica del Destino venne affrontata in maniera Olio su tela 95 x 48 cm
Ermitage, San Pietroburgo
approfondita da molti autori greci e latini. Tra questi
un grande rappresentante fu certamente il latino Lucio Anneo Seneca (4 a.C. – 65
d.C.): secondo la concezione stoica, egli era convinto che il Fato fosse un’entità divina
superiore che determinava la sorte di tutte le entità terrene. Il tema è evidenziato in
De tranquillitate animi:
particolare in un passaggio del
« Omnes cum fortuna copulati sumus: aliorum aurea catena est ac laxa, aliorum
arta et sordida, sed quid refert? Eadem custodia universos circumdedit alligatique
sunt etiam qui alligaverunt, nisi forte tu leviorem in sinistra catenam putas. Alium
honores, alium opes vinciunt; quosdam nobilitas, quosdam humilitas premit;
quibusdam aliena supra caput imperia sunt, quibusdam sua; quosdam exsilia uno
loco tenent, quosdam sacerdotia. Omnis vita servitium est.
Assuescendum est itaque condicioni suae et quam minimum de illa querendum et
quicquid habet circa se commodi apprehendendum: nihil tam acerbum est, in quo
10
non aequus animus solacium inveniat. »
(De tranquillitate animi – 10, 3-4)
Fata
Dunque i governano ogni cosa e l’unica consolazione sta nel fatto che tutti sono
legati alla fortuna. Poiché, però, le sue decisioni sono inappellabili, è necessario che
l’uomo si adatti alle difficoltà che la sorte gli presenta, trovando il lato positivo in ogni
situazione. Non a caso lo scopo del lavoro psicologico del filosofo stoico deve essere
l’atarassia,
quello di raggiungere ovvero l'imperturbabilità che lo rende impassibile di
fronte ai casi della sorte. Vano è il tentativo di opporsi a tali forze. Infatti, scrive
Epistulae ad Lucilium:
Seneca nelle
« Ducunt fata volentem, nolentem trahunt. »
(Epistulae ad Lucilium – 107)
All’uomo resta una sola certezza: la morte. Ad ogni modo, nella concezione stoica la
morte era vista come il normale traguardo al quale dovevano giungere tutti gli esseri
viventi.
« Dove ci porta la morte? Ci porta in quella pace dove noi fummo prima di nascere. »
(La dottrina morale)
La vita era infatti un bene che il filosofo doveva essere pronto a sacrificare pur di
mantenere intatta la sua integrità morale. Lo stesso Seneca morì suicida.
Quando però la concezione finalistica del mondo non fu più in grado di soddisfare le
menti utilitaristiche imbevute di cultura illuminista dell’uomo del seicento e
settecento, si diffuse rapidamente una nuova mentalità, che collegava i fatti secondo
rapporti causali: la mentalità scientifica. L'uomo non si accontentava più, ormai, di
rimandare tutti i fenomeni inspiegabili a decisioni ultraterrene, e la scienza acquistò
così un’enorme importanza, a tal punto da creare una vera e propria fede nel
determinismo assoluto, ovvero nella necessaria connessione fra tutti i processi
naturali passati, presenti e futuri. La spiegazione del concetto di determinismo fu
scritta da Laplace (1749 – 1827) nel 1812:
« Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell'universo come effetto del suo
stato anteriore e come causa del suo stato futuro. Un'intelligenza che, per un dato
istante, conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione
rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse abbastanza vasta da sottoporre
questi dati ad analisi abbraccerebbe nella stessa formula i moti dei corpi più grandi
dell’universo e quelli dell’atomo più leggero: per essa non ci sarebbe nulla d'incerto,
e il futuro come il passato sarebbe presente ai suoi occhi. »
(Laplace, Essai philosophique sur les probabilités, 1812) 10
Nel determinismo non c'è spazio per la casualità: tutto ciò che accade è definito dalle
condizioni precedenti, dunque il presente non è altro che il seguito necessario del
passato e il futuro del presente. In questo modo l'uomo non fa altro che sostituire alla
volontà ultraterrena le leggi di natura. Il destino resta impossibile da modificare, anche
se, rispetto alla posizione religiosa, esso diventa ora prevedibile, almeno
teoricamente, come afferma Laplace.
La posizione deterministica ben presto mostrò i suoi limiti, quando Clausius (1822 –
1888), uno dei fondatori della termodinamica, si accorse che non era possibile
prevedere l'evoluzione microscopica di un sistema termodinamico altamente
complesso, ma solo stabilirne la direzione generale dal punto di vista macroscopico.
Una teoria basata su premesse deterministiche, la termodinamica, portava dunque a
conclusioni probabilistiche che prevedevano la presenza di elementi casuali.
Lo stesso Clausius tentò di limitare tale casualità attraverso il concetto di entropia,
ovvero la misura del disordine di un sistema fisico. Essa, rappresentata generalmente
dalla lettera S, è una funzione di stato che non decresce nel tempo, anzi, nei casi più
comuni tende ad aumentare fino al momento in cui il sistema raggiunge lo stato di
equilibrio. L’entropia è direttamente
Moto Browniano proporzionale al grado di casualità (o
disordine) presente nel sistema considerato. Considerando il sistema Universo, si può
comprendere come tale concetto fosse perlomeno malvisto dagli scienziati, convinti
che tutto ciò che accade sia prevedibile, in quanto esso stabilisce che la casualità in
tale sistema è in costante aumento.
La probabilità (ovvero l’analisi quantitativa della casualità) faceva così il suo ingresso
trionfale nell'ambito scientifico, diventandone ben presto una componente
imprescindibile.
Naturalmente il concetto che l’intero universo fosse intriso di fattori casuali non tardò
a diffondersi nella società,
mostrando come le radici
illuministiche e cristiane, che
ponevano rispettivamente la
ragione umana e
l'imperscrutabile volontà divina
al disopra di ogni cosa, fossero
solo illusioni che tentavano
malamente di coprire
l'impossibilità da parte
dell'uomo di comprendere tutto
ciò che lo circonda. Il Caso,
inteso come casualità
10
intrinseca della vita, diventava
dunque un elemento con cui
ogni uomo avrebbe dovuto
d’ora in poi confrontarsi e su
cui volenti o nolenti si doveva
riflettere. Le conseguenze di
questa novità si sarebbero
manifestate con una tale
potenza da essere in grado di distruggere la
coscienza occidentale per ricostruirla dalla base.
Colui che tra i primi percepì tale processo di
distruzione e vi contribuì in maniera decisiva fu
certamente il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche
(1844 – 1900), il quale, rilevando come le morali
cristiana e positivista fossero giunte alla fine,
propose di rivalutare le filosofie vitalistiche
dell'antica Grecia. Da tale rivalutazione emerse con
decisione il concetto di eterno ritorno: ogni
avvenimento è destinato a ripetersi, ogni cosa a
esistere innumerevoli volte:
« Ognuna delle cose che possono camminare, non
dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose
che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? »
(Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
Nietzsche rifiuta il determinismo, affermando che la vita, e di conseguenza la storia,
non sono altro che il continuo ripetersi in maniera ciclica di avvenimenti casuali e privi
di alcun senso. È inutile tentare di fare previsioni o progetti per il futuro, tanto quanto
tentare di interpretare il passato collegandolo al presente. La condizione dell’uomo che
emerge da questa riflessione non è certo positiva. Il filosofo tedesco ha parole dure
per definire l’umanità:
« Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena ».
(Nietzsche, la nascita della tragedia)
L’unica possibilità per l’uomo è di accettare il suo destino, che consiste proprio nel non
avere uno scopo, come la salvezza o la suprema conoscenza. Questo concetto
potrebbe sembrare molto simile a quello precedentemente analizzato riguardante lo
stoicismo. In effetti Nietzsche s’ispirò a tale filosofia, ma la sua analisi andò oltre:
l’uomo non deve semplicemente sopportare le difficoltà che gli pone di fronte la sorte,
ma deve essere in grado di goderne, di amare il suo destino. Il superuomo è in grado
di vivere nell’attimo presente senza preoccuparsi di passato e futuro, nonché di
quell’amor fati formula per la grandezza
provare che il filosofo definisce come “
dell'uomo”, ovvero la capacità di volere realmente l’eterno ritorno, non di subirlo.
Dunque, come abbiamo detto, la storia non è altro che la ripetizione ciclica di se
stessa governata da eventi casuali, senza alcuna prospettiva finalistica. Perdevano
10
così qualsiasi significato le interpretazioni idealista e marxista, che vedevano in essa
un processo graduale dell’umanità, destinata a perfezionarsi col passare del tempo. È
A me si confà unicamente il giorno seguente al domani.
celebre la frase di Nietzsche “
C'è chi è nato postumo” (L’anticristo) con cui il filosofo volle affermare che le sue
teorie sarebbero state comprese solo molto tempo dopo. Non più tardi di quarant’anni
dopo la sua morte, infatti, si sarebbe presentata agli occhi di tutti una prova
fondamentale a favore della teoria dell’eterno ritorno: la SECONDA GUERRA
MONDIALE. A nulla erano serviti infatti i quasi dieci L'Uroboro, simbolo dell'eterno
milioni di morti della Grande Guerra. L’enorme ritorno
numero di vittime (circa settantadue milioni) mostrò come l’umanità non avesse
imparato nulla dalla sua storia, che infatti si compone di avvenimenti che non
ambiscono ad alcun fine superiore.
Per tornare, però, alle conseguenze delle scoperte scientifiche dell’ottocento, è
opportuno analizzare come questa venatura d’irrazionalità si sia diramata nel
panorama letterario europeo. La comparsa della casualità, come abbiamo visto, nelle
teorie scientifiche e filosofiche, portò all’attenzione di artisti e letterati il tema del caso
e del destino. In Italia, Pirandello (1867 – 1936) fu certamente l’autore che affrontò con
maggiore interesse tale tematica. Nel suo capolavoro, Il Fu Mattia Pascal, il
"voler estrarre la logica dal
protagonista è costretto ad ammettere che è impossibile
caso". Egli crede di aver ottenuto un’inaspettata e illimitata libertà, quando, per caso,
vince una grossa somma a Montecarlo e sempre fortuitamente, nel viaggio di ritorno
verso casa, legge in un giornale che un corpo putrefatto nel suo podere è stato
riconosciuto come quello di Mattia Pascal. Egli può dunque iniziare una nuova vita,
apparentemente senza alcun legame e restrizione. Fin troppo presto però si accorgerà
di come sia in realtà prigioniero del Caso, che l’ha ridotto nella condizione in cui si
trova: egli non può infatti avere una dimora fissa, non può stringere amicizie e