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3. Le cause della crisi

Dopo il primo conflitto mondiale gli Stati Uniti conobbero una crescita

economica senza precedenti, infatti si andava sempre più affermando per

capacità produttiva e finanziaria come Stato-guida del mondo capitalistico.

I contadini americani avevano realizzato notevoli guadagni rifornendo

l’Europa durante gli anni di guerra e del primo dopoguerra senza tener

conto di eventuali arresti del commercio internazionale.

Le banche maggiori e minori incoraggiarono questa elevata produzione sia

agricola che industriale aprendo crediti a chiunque volesse dare vita a

nuove iniziative

La speculazione contribuiva largamente ad esaltare questa euforia di affari

di ogni genere, infatti sulla fine del 1929 spinse il corso dei titoli industriali

dell’80% rispetto l’anno precedente. Dal momento che i prezzi crescevano

appariva vantaggioso comprare per rivendere, senza preoccuparsi della

bontà dei titoli.

Di fronte a questi sintomi di crisi il sistema economico americano cominciò

a scricchiolare, ma tutti erano convinti che si trattava di una crisi

passeggera e che non vi sarebbe stata nessuna catastrofe. Prima a

esserne colpita era l’agricoltura i cui raccolti sovrabbondanti non si

riuscivano a vendere e seguivano le crisi nell’industria automobilistica ed

edile.

I prezzi si contraevano del 25%, i profitti di altrettanto e le azioni industriali,

che nel 1928 si erano gonfiate enormemente, cominciavano a precipitare.

Cumuli di titoli furono portati in Borsa per la vendita, ma gli acquirenti non

si

trovavano. Il 24 Ottobre 1929 crollava la Borsa di New York con sede in

Wall Street, con la vendita di 13 milioni di azioni a costo ribassato. La

produzione industriale aveva superato la domanda di beni di consumo,

perciò inevitabile erano i fallimenti di banche e imprese e di conseguenza

un elevato tasso di disoccupazione.

4. Caratteri della crisi 2

La conseguenza diretta del crollo della borsa fu la caduta dei prezzi

agricoli, delle materie prime e, poi (ma in misura minore), dei prodotti

industriali e la rapida contrazione del commercio in tutto il mondo, il

che non poteva non riflettersi negativamente sul potere d’acquisto degli

strati produttivi di tutti i paesi. Il quadro degli effetti della crisi è

desolante, seppur costellato di luci e ombre:

- i salari si ridussero ovunque, anche se la caduta dei prezzi delle

derrate alimentari servì a contenere i danni per il livello dei consumi;

tuttavia la riduzione dei salari non contribuì ad accrescere la

produzione attraverso nuovi investimenti, ma si tradusse solo in

riduzione di prezzi

- i profitti industriali si contennero, ma non vennero eliminati

completamente, grazie al processo di rapida concentrazione industriale

che si era sviluppato dal dopoguerra

- altro fenomeno di rilievo nei paesi industriali colpiti dalla crisi, come la

Gran Bretagna, dove il movimento sindacale era più solidamente

organizzato, fu che i salari subirono minori riduzioni per la diminuzione

del numero dei salariati occupati (fatto che già veniva evidenziandosi

nel periodo precedente).

Fanno eccezione alla crisi:

- l'URSS, che si era esclusa dall’economia mondiale (e che peraltro

non poté evitare di subire, proprio a partire dal 1929, a causa della

lotta ai contadini ricchi, kulaki, gravi e irreparabili danni in agricoltura);

- il Giappone, che affrontò la crisi (inclusa la guerra) con misure

inflazionistiche;

- i paesi scandinavi, esportatori di particolari materie prime per le quali

la domanda non subì riduzioni sensibili.

Oltre che borsistica, industriale, agricola e commerciale, la crisi fu

presto anche bancaria. Il fatto che le industrie non producessero, e che

quel che producevano dovesse essere venduto a prezzi bassi, con

minori profitti, e che gli agricoltori, per la caduta dei prezzi agricoli,

fossero costretti o ad abbandonare la terra, o ad accontentarsi di un

guadagno minimo, ebbe notevoli conseguenze sul sistema bancario.

Sia l’industria che l'agricoltura erano seriamente indebitate con le

banche. Nel periodo di boom, che aveva preceduto lo scoppio della

crisi, queste banche avevano ecceduto nei prestiti, confidando non

solo in una restituzione regolare, ma anche nel fatto che i risparmiatori

non avrebbero ritirato i loro depositi, ed anzi li avrebbero accresciuti. 3

La crisi mise in difficoltà molte banche. Compromesso dalla caduta

delle vendite e dei prezzi, un numero crescente di imprese non fu in

condizione di pagare i debiti alle scadenze, e intanto le banche erano

premute dai loro depositanti che, spinti a loro volta da crescenti

esigenze di liquidità, volevano la restituzione di tutto o parte delle

somme depositate. Schiacciate tra l’incudine del mancato rientro dei

prestiti e il martello dei depositanti che pretendevano la restituzione dei

loro capitali, molte di queste banche furono costrette a chiudere i

battenti trascinando nel fallimento altre banche collegate. Un esempio

per tutti: nel dicembre 1930 fallì la Bank of the United States in New

York city, che contava oltre 400.000 depositanti, ne fu danneggiato un

terzo della popolazione di New York .

5. Il 1933: il New Deal e la ripresa

New Deal è il nome dato dal presidente Franklin D. Roosevelt al

"programma" che egli ideò, sviluppò e applicò dopo la sua elezione alla

presidenza degli USA avvenuta nel 1933.

Il 1933 segnò una svolta importante nella crisi. Sintomi di ripresa si

verificarono un po’ dovunque. La produzione industriale registrò valori

più alti di quelli dell’anno precedente, e l’occupazione accennò in

generale ad aumentare. Tuttavia, il 1933 fu caratterizzato soprattutto

da altri fatti importanti.

Il primo è il definitivo fallimento di ogni tentativo di collaborazione

internazionale. La Conferenza economica e monetaria mondiale,

apertasi a Londra nel giugno 1933 dopo una lunga preparazione,

sanzionò l'effettiva frantumazione del mercato mondiale. Scontratasi

sul problema se bisognasse stabilizzare le varie monete e attuare

nuovamente il «ritorno all’oro», come base del sistema monetario e

delle transazioni internazionali, la Conferenza si chiuse con la

deliberata svalutazione del dollaro (10%) fermamente perseguita da

Roosevelt, da pochi mesi al potere, e l’ostinata difesa dell'oro da parte

della Francia. Dalla Conferenza uscirono tre blocchi principali con

differenti politiche economiche:

1) dell’area del dollaro (Roosevelt voleva usare la svalutazione per

operare una diminuzione dei debiti interni e per accrescere il potere

d’acquisto dei ceti agricoli, in modo che essi potessero intensificare gli

acquisti di prodotti industriali, e quindi contribuire attivamente alla

ripresa);

2) dell'area della sterlina (la Gran Bretagna affermava esplicitamente 4

che la politica monetarla non doveva essere rivolta al mantenimento

della stabilità dei cambi esteri, ma solo ad assicurare credito

abbondante e a buon mercato);

3) del blocco aureo: Francia, Belgio, Italia, Svizzera, Paesi Bassi e

Polonia (questi Paesi miravano a garantire la stabilità e solidità della

moneta, perseguita attraverso l'equilibrio nel bilancio statale e nella

bilancia dei pagamenti, anche a costo di attuare politiche

deflazionistiche);

La «caduta» del dollaro costituisce, senza dubbio, il secondo dei fatti

più importanti del 1933. Salito al potere, agli inizi dell’anno, Roosevelt

si trovò a fronteggiare un grave peggioramento delle condizioni del

sistema bancario statunitense. I fallimenti si moltiplicavano. Furono più

del doppio di quelli dell’anno precedente. Di fronte all’ampiezza del

fenomeno, Roosevelt si adoperò per l’approvazione dell'Emergency

Banking Act e poi del Banking Act (20 marzo 1933), cambiando

radicalmente la politica economica del suo predecessore. Grazie alla

notevole svalutazione del dollaro cui fu autorizzato dal Congresso,

stimolò la spesa pubblica, intraprendendo un vasto programma di

opere pubbliche, e ponendo mano a quello che fu chiamato il New

Deal, un complesso di misure volte, in particolar modo:

1) a sostenere gli agricoltori attraverso il controllo della produzione

attuato anche attraverso la riduzione della superficie coltivata, e la

concessione di sussidi,

2) a contenere e ad eliminare la speculazione,

3) a ridurre lo strapotere dei grandi gruppi finanziari.

Si è detto anche che il 1933 segnò l’inizio della ripresa. Il fenomeno

non fu contemporaneo in tutti i paesi. Per l’Italia, ad esempio, bisognò

attendere il 1934; per il Belgio, il 1935; ecc. Negli anni seguenti, la

produzione continuò a crescere, e con essa l’occupazione e gli

investimenti. Questa fase di ripresa culminò nel 1937, facendo ritenere

che si fosse di nuovo di fronte a un boom. Tuttavia, già sul finire di

quell' anno, si poterono rilevare qua e là segni indubbi di recessione. E

se questa recessione non si estese e non si aggravò, trasformandosi in

una nuova drammatica crisi, questo avvenne perché il mondo aveva

imboccato chiaramente la strada del riarmo e della guerra. Nell’estate

del 1938, dopo l'annessione dell’Austria alla Germania, l’incontro di

Monaco confermò l’ineluttabilità di quella svolta. L'anno successivo, sul

finire dell’estate, scoppiava la seconda guerra mondiale.

L’intervento statale e la fine del liberismo. L’interventismo statale

assunse in primo luogo la caratteristica di un aumento della spesa

pubblica. La riduzione della spesa pubblica era stata uno dei punti

fermi delle politiche deflazionistiche adottate nella prima fase della 5

crisi. Ora, nell’ultima fase, in molti paesi si ritornò a privilegiare la

spesa pubblica ma, ancora una volta, con notevoli differenza tra paese

e paese.

Negli Stati Uniti ad esempio, più che di un aumento della spesa per

investimenti, si trattò di un aumento della spesa corrente. A differenza

del periodo pre-crisi, nell'ultima fase della crisi si registrò cioè una

modificazione nella struttura della spesa pubblica. La spesa per

investimenti fu, in termini di reddito nazionale, assai inferiore a quella

che era stata negli anni 1923-1929. Ancora più importante: la spesa

corrente per consumi precedette la spesa per investimenti. Sarebbe

stato, in sostanza, l’accento posto sul consumo a generare, attraverso

l’aumento della domanda, la ripresa industriale.

6. L'interpretazione keynesiana

La depressione nasce dal fatto che una riduzione nel volume degli

investimenti che possono accadere ciclicamente o accidentalmente in

un’economia, quale ne sia il motivo, si riflette in una riduzione della

produzione dei beni strumentali nei quali detti investimenti si

concretizzano. Da qui una riduzione nell’occupazione e nei consumi

dei gruppi di percettori di reddito interessati in tale produzione. In

conseguenza, peggiorano le prospettive di guadagno di altri gruppi di

imprenditori e con esse diminuisce ulteriormente l’incentivo ad

investire.

Cadono così ulteriormente i consumi, attraverso una serie di reazione

a catena per effetto delle quali la situazione, in fatto di occupazione,

produzione, prezzi e profitti, tende a peggiorare per così dire da se

stessa. In particolare, gli imprenditori non hanno convenienza ad

utilizzare in nuovi investimenti il risparmio monetario accumulato dai

percettori di reddito.

Il nodo della crisi risiede proprio in questa discordanza tra le decisioni

dei percettori di reddito, che ritengono conveniente non consumare,

ma che non investono direttamente il danaro risparmiato, e le decisioni

degli imprenditori, che non ritengono conveniente utilizzare tale denaro

per aumentare i loro investimenti e, quindi, la domanda di beni

strumentali.

Si pensa quindi che lo Stato debba cercare di arrestare il processo, per

così dire, di perdita di velocità, da cui è investito il sistema economico

per effetto del circolo vizioso: riduzione di investimenti - riduzione di

consumi - di nuovo riduzione degli investimenti e via di seguito. 6

Ciò può ottenersi essenzialmente attraverso una qualificata spesa

pubblica addizionale, che, se effettuata tempestivamente e in misura

adeguata, può invertire la tendenza e ricondurre il sistema verso

posizioni di pieno impiego, pur mantenendo una situazione di prezzi

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