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IIS MARCHESI

Liceo delle scienze sociali

“Fua’ Fusinato”.

Giulia Volpato,

Classe 5bls

1

LA MOTIVAZIONE

La disabilità è un limite, ma sta a chi la porta trasformarla nel suo punto di

forza.

Scegliendo di presentare una tematica complessa come la disabilità, non cerco

di modificarne la concezione nella società, ma di far capire che essa è una

ricchezza, che le persone disabili portano pari dignità di tutte le altre “normali”

e che, talvolta, sanno essere di umanità superiore a quest’ultime.

Le malattie si accettano, si metabolizzano e si combattono con l’aiuto di

persone, per noi importanti che ci supportano guidandoci in un mondo che ci

osserva in modo diverso.

“UN MONDO ... AD OCCHI CHIUSI” è un punto di vista interno, è il pensiero di

chi è disabile nella sua quotidianità, è la forza di ognuno nel dimostrare al

mondo che si vale molto di più di quello che appare, è la necessità di non voler

vivere nell’emarginazione e nel pregiudizio.

“UN MONDO … AD OCCHI CHIUSI” è un mezzo per far comprendere, anche ad

altri, la visione del mondo di un cieco o di un ipovedente: il buio che può

accompagnare intere vite è, in realtà, un ambiente paradossalmente colmo di

colori, sensazioni e oggetti conosciuti con altri occhi; l’indefinitezza, l’opacità,

la nebulosità che caratterizzano il mio quotidiano (in quanto ipovedente) mi

hanno portato ad un maggiore sviluppo dell’immaginazione e ad una capacità

di autonomia sorprendentemente normale.

Non è facile accettarsi, accettare i propri limiti e le proprie difficoltà, ma

quando si raggiunge il giusto equilibrio non è giusto né ammissibile che arrivi

un terzo a demolire i propri sacrifici.

INDICE PER MATERIE.

2

Italiano:

 “I ciechi” (Charles Baudelaire);

 il simbolo ieri e oggi;

 Charles Baudelaire (breve biografia).

Scienze sociali:

 pregiudizio;

 emarginazione;

 integrazione.

Diritto:

 articoli 3, 4, 32 costituzione italiana;

 legge quadro n’ 104/92.

Charles Baudelaire:

3 “I ciechi”

Contemplali, anima mia; essi sono davvero

orribili!

Simili ai manichini; vagamente ridicoli;

Terribili, singolari come i sonnambuli;

Mentre dardeggiano non si sa dove i loro globi

tenebrosi.

I loro occhi, in cui s'è spenta la scintilla divina

Come se guardassero lontano, restano levati

Al cielo; non li si vede mai verso i selciati,

Chinare, pensosamente, la loro testa

appesantita.

Essi attraversano così il nero sconfinato,

Questo fratello del silenzio eterno. O città!

Mentre che attorno a noi tu canti, ridi e sbraiti,

Innamorata del piacere fino all'atrocità,

Guarda! anch'io mi trascino! ma, più inebetito

d'essi,

4 Io dico: Cosa chiedono al Cielo, tutti questi

ciechi?.

Baudelaire affronta il tema dei ciechi su due piani: il piano reale e il

piano simbolico, intrecciandoli.

Egli denota i ciechi come persone vuote, senza possibilità, come

manichini fissi e sonnambuli inebetiti; non sanno dove vanno, cosa

li circonda, vagano nel buio come immersi nel loro sonno, non

hanno coscienza di loro stessi.

Per Baudelaire sono “esseri che non sono”, al limite tra “animato e

inanimato”, tra vita e morte.

I ciechi vagano per la città disorientati, con la testa sempre verso

l’alto, verso il cielo pur non vedendone i colori, pur avendo perso la

“scintilla divina”.

Attraversano la loro vita vagando nel buio fraterno che li

accompagna non lasciandoli mai, rendendoli “morti viventi” poiché

questo silenzio/nero eterno è in parallelo con il buio dopo la vita,

nella morte.

Eppure vagano per Parigi inconsapevoli di quello che potrebbe

circondarli. Baudelaire si mette in relazione con essi senza provare

ribrezzo, ma “abbassandosi” nel loro mondo, al loro livello,

sentendosi più inebetito dei ciechi poiché si ritrova a “vagabondare”

in una città che è vittima della modernità, della ricerca del piacere

ed è egli stesso che non riesce più a capire cosa succede attorno a

sé.

È per questo che si chiede cosa cercano i ciechi quando alzano il

volto, gli occhi vuoti al cielo come per domandare qualcosa ad un

qualcuno lassù.

5

La chiusura del sonetto accoglie dunque qualcosa di “fisicamente

impossibile” perché un cieco, secondo il Poeta, non può “cercare”

visivamente come sembrano fare i soggetti del sonetto.

Il simbolo.

Per i simbolisti, il simbolo è ciò che viene prodotto dallo spirito

dell’uomo senza forzature, naturalmente, nel sonno e nelle fantasie.

Vediamo come, per Baudelaire, il cieco sia colui che non ha vita, che

non ha possibilità né potenzialità, che vaga senza sapere dove va e

cosa lo aspetta.

Il cieco rappresenta l’impossibilità, la perdita di se stessi, il rifiuto

sociale, il degrado; viene anche indicato come capro espiatorio per i

problemi sociali.

I ciechi, facenti parte degli handicap visivi, non hanno l’uso della

vista, eppure, con gli ipovedenti, hanno guadagnato un’altro tipo di

vista.

Essi infatti non vedono i colori, i volti, le sagome o i fiori, la frenesia

della città e il consumismo sfrenato, ma riescono a vedere quello

che molti uomini non vedono più.

Loro vedono l’anima delle persone, i loro sentimenti, il loro vero

“essere uomo”, riescono a vedere l’amore o l’odio sbagliandosi

raramente.

Non potendo vedere con gli occhi ciò che li circonda, sono costretti

ad affidarsi ad un qualcosa che non sbaglia; alla fiducia, all’umanità

e alla forza.

Hanno sviluppato il senso dell’udito, dell’olfatto e del tatto; si

orientano ascoltando i suoni, i rumori, le voci e i segnali;

6

riconoscono gli altri dai profumi, dagli odori; imparano con il tatto,

senza paura a sfiorare qualcuno, senza riserve, con naturale

abitudine.

Quindi, se da una parte sono il simbolo della diversità e

dell’impotenza, dall’altra simboleggiano la parte più bella e vera

dell’essere vivo: gli occhi dei sentimenti e dell’umanità. Come disse

Antoine de Saint-Exupéry ne “il piccolo principe”: l’essenziale è

invisibile agli occhi.

Charles Baudelaire.

Precursore del simbolismo francese, nato nel 1821 e morto nel

1867, Baudelaire porterà una svolta incredibile nella poesia

internazionale.

I simbolisti potranno infatti, grazie al suo rifiuto per gli schemi

letterari prefissati, apportare una“demolizione” delle forme poetiche

fisse e rigide, dando un respiro alla poesia.

Baudelaire, vivendo in piena età positivistica, si ribellerà

totalmente alla società, trattando il bisogno vitale di qualcosa di più

elevato e bello.

7 Il pregiudizio

i portatori di handicap sono, da sempre, i soggetti presi più di mira

dal pregiudizio sociale e dall’emarginazione perché più deboli e

socialmente meno difesi.

Oltre che poco abili per definizione, i disabili vengono anche visti

come psicologicamente fragili, troppo emotivi, volubili, irascibili,

sostanzialmente inaffidabili; nell’interazione con essi si tende a

manifestare un imbarazzo che si giustifica come un “non sapere

come comportarsi”, ma che esprime in realtà il disagio della loro

stessa presenza.

Il pregiudizio si presenta come “potere” di un gruppo o di un singolo

individuo su un altro individuo; è una forma di “non voler vedere”

nè accettare la diversità che caratterizza l’intera società.

Il cieco viene avvolto da un’enorme rete di pregiudizi: si pensa che

egli non possa offrire nessun servizio, che sia limitato al suo mondo

8

buio e vuoto di colori, che non possa avere un’autonomia senza

l’aiuto di un bastone o di una persona che lo guidi.

Esso viene “scartato” dalla società perché percepito come

“frammento” di una realtà molto più complessa e “normale”.

In questo caso, come nel caso dell’ipovedente, il pregiudizio rende

più facile, e supporta. la creazione di sentimenti come la

compassione, la vergogna, la pietà, la necessaria dipendenza e

l’inadeguatezza sociale del disabile che, invece, possiede tutte le

qualità e le possibilità reali per sviluppare una propria persona

indipendente e “normale”.

Questi sentimenti, in realtà, coprono la paura di confrontarsi, di

chiedere, di informarsi e di approcciarsi ad una quotidianità diversa

dalla propria.

Il pregiudizio è quindi la maschera della persona “normale” per

nascondere la sua diversità che lo accomunerebbe, in un qualche

modo, alla persona disabile, diversa per un suo limite inevitabile.

La ricchezza del diverso, per essere colta, comporterebbe la

riscoperta dell’unicità di ognuno, la capacità di togliersi la maschera

mettendo a nudo tutte le proprie insicurezze e predisponendosi

all’ascolto della particolarità di un’esistenza ricca di saperi e

abitudini particolari.

Nella società non è purtroppo facile attuare questo processo; è

riscontrato come il singolo soggetto da solo potrebbe anche voler

approcciarsi ad una realtà sfuocata o buia, ma essendo immerso nel

vortice del gruppo, che con le sue volontà domina, rinuncia e lascia

spazio al pregiudizio.

9

Questo meccanismo non porta solo all’etichettamento del disabile

come handicappato e diverso, ma anche all’emarginazione di

questo.

L’emarginazione

Normalmente si tende a spiegare il comportamento della persona

disabile facendo riferimento alle sue caratteristiche fisiche piuttosto

che alle condizioni ambientali nelle quali essa si trova. Ciò crea,

anche nelle migliori intenzioni di assistenza, un senso di dipendenza

ed inadeguatezza nella persona disabile.

Questo sentimento è stato fortemente presente fino alla fine del

anni ’70 a causa della presenza delle scuole speciali per ragazzi

disabili che, se da un lato specializzavano gli insegnanti e fornivano

una formazione specifica agli studenti, dall’altro allontanavano ed

emarginavano i ragazzi con deficit dal resto della società.

Una prima forma di superamento dell’emarginazione sociale si ebbe

nel 1923 con la riforma Gentile che rendeva obbligatoria la

frequenza scolastica a ciechi e sordomuti nelle apposite classi

differenziali fino alla terza elementare, mentre la quarta e la quinta

si sarebbero svolte in classi comuni.

Nonostante il progresso sociale, nel corso degli anni ,abbia portato

ad una formale uguaglianza fra tutti i soggetti, l’emarginazione non

è mai stata superata.

Ancora oggi infatti i ragazzi disabili vengono spesso allontanati dal

nucleo della classe, staccati dalla vita sociale, rinchiusi nel loro

mondo in cui solo loro sanno cosa sono e quanto possono realmente

valere. Vengono presi in giro, la loro persona viene portata ad

essere nulla, i coetanei e talvolta anche i professori sanno non

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accorgersi del male che, emarginando il bambino o il ragazzo,

provocano.

La società riesce a far pensare al disabile di essere solo un bastone

bianco piuttosto che una lavagna sfuocata o un quaderno sbiadito

quando invece, quella lavagna potrebbe essere chiaramente letta

con appositi strumenti o quel quaderno potrebbe diventare fonte di

sano divertimento per tutti i compagni.

Il bambino, se supportato da una famiglia informata e forte, riesce a

trovare il suo equilibrio molto più facilmente dell’adolescente.

I bambini sanno essere più comprensivi e, probabilmente grazie alla

loro curiosità, sono spinti a chiedere ciò che non conoscono e non

capiscono; questo porta ad una minor emarginazione e ad un aiuto

più significativo ai compagni disabili.

L’adolescente, invece, è già dai primi anni delle scuole medie molto

più influenzato dalla società. Essa purtroppo identifica nel disabile

un’improduttività, un ostacolo allo svolgersi normale dei compiti

quotidiani, un impedimento alla normale realizzazione delle persone

che lo circondano; ciò porta, spesso, gli adolescenti a distaccarsi

dalla realtà del compagno disabile.

In questo scenario di classe un ruolo di grande importanza lo svolge

l’insegnante che dovrebbe saper gestire ed educare il gruppo

all’integrazione e al rispetto di realtà altre da quella individuale.

Nel momento in cui il ragazzo disabile si trova emarginato nella

classe, non considerato dai compagni e avvolto dal pietismo dei

docenti, non riuscirà a trovare lo stimolo e la spinta necessari per

dimostrare realmente le sue qualità; al contrario nel momento in cui

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