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Per quanto riguarda il mercato di capitali, questo implica un flusso regolare
di ricchezza, risparmi e investimenti, canalizzato nella sfera della
produzione tramite un sistema bancario o di altri intermediari finanziari.
La massimizzazione della produttività e del profitto porta talvolta a
trascurare le ragioni di solidarietà sociale e di protezione dei soggetti
deboli. Nell’organizzazione capitalistica molti disoccupati vengono assunti
come operai nelle fabbriche ma, le pessime condizioni di lavoro fanno
emergere un aspro conflitto tra capitalisti e proletari.
L’industrializzazione su scala mondiale si attua in tre grandi fasi
successive: la prima va dal 1750 al 1850 circa, la seconda dal 1850 al
1950 pressappoco, mentre la terza è tutt’oggi in corso. Ogni fase viene a
caratterizzarsi per una particolare estensione, al contempo settoriale
(legata cioè al tipo di industria) e
geografica (regionale e nazionale).
La crescita del capitalismo è
schiacciante durante tutta la prima
metà del secolo e resta notevole
anche dopo il 1850, sebbene si
riduca in alcuni settori. In Inghilterra
e, con ritardo, in Francia e Germania, questa evoluzione prolunga il
processo avviatosi nel XVIII secolo, accentuandolo e accelerandolo.
Negli Stati Uniti, l’indipendenza nazionale ha aperto una nuova fase e
l’industria manifatturiera nascente ha potuto beneficiare delle difficoltà
incontrate dai produttori e dai commercianti europei durante il periodo
delle guerre di inizio secolo.
Il capitalismo finanziario
Dagli anni ‘70 della Seconda Rivoluzione Industriale, la vita delle imprese
inizia a dipendere sempre più dai finanziamenti continui delle banche: si
impone una nuova forma di capitalismo a carattere internazionale, il cui
interesse finanziario prevale su quello economico.
Il capitalismo finanziario si basa sull’internazionalizzazione degli
investimenti e del sistema produttivo e su un’integrazione per grandi aree.
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Le imprese sono stimolate alla mondializzazione della propria attività che
comporta l’esigenza di liberi mercati, investimenti giganteschi all’estero,
possibili solamente attraverso la delocalizzazione delle proprie sfere di
produzione, le grandi fusioni o alleanze tra più gruppi.
Questa strategia porta le imprese a necessitare di un accesso facile e
diretto al mercato finanziario mondiale (da qui la tendenza all’azionariato).
Pertanto da un capitalismo nazionale, sia pure agente su scala mondiale,
radicato però sul territorio e basato sulle banche e sulla protezione dello
Stato, si passa ad un capitalismo finanziario basato sulla Borsa e che
investe contemporaneamente in tutto il mondo in differenti settori e filiali
e ricerca profitti che siano sia industriali che finanziari. Si sono così
affermati dei megasistemi mondiali al servizio di gruppi finanziari privati
che agiscono in ogni settore dal trasporto, alla comunicazione, alla ricerca
scientifica, ai beni e consumi. Di fronte alle spinte pressanti di questo
capitalismo finanziario si è assistito ad un venir sempre meno dei poteri
pubblici nazionali, considerati un intralcio a questa strategia.
Una nuova realtà si va configurando dove i grandi gruppi finanziari
industriali sono i veri attori delle politiche economiche.
Il capitalismo manageriale
Con questa forma ci si riferisce al capitalismo degli Stati Uniti che,
sviluppatosi attraverso la nascita della grande impresa, si caratterizza per
la presenza di un efficiente apparato manageriale, dotato di imponenti
mezzi finanziari che vedono la prevalenza di un mercato borsistico
dominato da un elevato azionariato imprenditoriale.
In questo sistema vi è stata l’ascesa e l’affermazione delle figure
manageriali sugli stessi proprietari d’impresa, determinata dalla naturale
tendenza evolutiva del capitalismo nazionale dominato in misura sempre
companies
più ampia delle grandi e poi dalla diffusione dell’azionariato.
Infatti, l’introduzione di nuove e costose tecnologie ed i regimi di
concorrenza sempre più spietati avevano prodotto processi aggregativi e
selettivi che consentivano la sopravvivenza ed il successo solo a organismi
in grado di affrontare le economie di scala. Poi, il capitale suddiviso in una
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miriade di piccoli azionisti ha reso impossibile stabilire delle linee di
comportamento da parte dei consigli di amministrazione facendo
emergere la figura del manager e garantendo, almeno in teoria, la
separazione dell’interesse del privato dall’interesse dell’azienda.
top management
Gli obiettivi del tendono alla realizzazione di profitti
immediati per meglio soddisfare le esigenze di redditività degli azionisti.
La conseguenza di tale impostazione è che gli esigui investimenti destinati
allo sviluppo futuro e all’espansione, caratterizzano queste imprese per un
certo grado di immobilità e rigidità.
In tale sistema, globalizzazione significa dominazione del mondo
attraverso l’uso del capitale speculativo, l’espulsione dal mercato delle
imprese deboli in termini di esclusiva corsa al profitto, la crescita della
disoccupazione e l’utilizzo di lavoro sempre più super sfruttato, allargando
le sacche e le aree in cui è prevalente la miseria assoluta.
Il capitalismo personale-individualistico o familiare
Tale modello si riferisce soprattutto al capitalismo britannico, pur essendo
per molti versi simile a quello americano.
La natura familiare e non manageriale della proprietà ha portato in
Inghilterra allo sviluppo di un sistema economico e sociale chiuso, che
mira soprattutto alla conservazione dei privilegi acquisiti; questa
situazione non ha permesso la nascita di un efficiente e competitivo
sistema manageriale in grado di consentire uno sviluppo adeguato
dell’economia britannica.
Il capitalismo padronale italiano
Attorno al 1870 si verifica in Italia, specie nel nord nel cosiddetto
“triangolo industriale” - Piemonte, Lombardia e Liguria - un periodo di
febbrile espansione economica determinato dallo sviluppo della rete
ferroviaria, dall’apertura di nuovi mercati seguente all’unificazione e
all’intervento da parte dello Stato unitario nell’economia nazionale,
intervento che si concreta principalmente nel settore dei lavori pubblici. La
situazione che si va creando è sempre più di maggiore concentrazione
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gerarchica - padronale nella gestione e nella proprietà delle imprese
private.
Tuttavia, a causa dell’endemica arretratezza delle strutture produttive nel
nostro paese, la direzione dell’impresa è costretta a tener conto solamente
delle risorse finanziarie già immediatamente disponibili prima di effettuare
nuovi investimenti, a meno di ricorrere a forti indebitamenti. Gli obiettivi di
redditività di breve periodo e la corsa alla speculazione hanno portato a
scarsi investimenti nello sviluppo tecnologico e, quindi, ad una limitata
competitività delle imprese italiane nei confronti delle aziende europee.
Al di là dei vincoli e degli elementi strutturali, la crescita del sistema
industriale italiano è seriamente minacciata dall’assenza di regole di
concorrenza sul mercato: ciò non incentiva le imprese a ricercare
innovazione e qualità nei prodotti e nei servizi erogati.
Moltissime piccole-medie imprese in questo periodo nascono e muoiono
nel giro di qualche anno, segno evidente dell’illusorietà del positivo
momento dell’economia nazionale. In tali imprese soggetto economico e
soggetto giuridico spesso coincidono. Ciò non sarebbe un ostacolo in sé,
ma può diventarlo nel momento in cui, di fronte al passaggio
generazionale, il controllo familiare non trova più continuità e, quindi,
anche la proprietà viene messa in discussione.
Altri gruppi finanziari, invece, organizzati in società meglio quotate, o forse
talvolta soltanto più fortunate, sono sopravvissuti senza danni e spesso in
condizioni ancor più floride di quelle di partenza. Molto dipende dalla
possibilità di agganciare la propria attività ad una delle poche costanti
dell’economia del tempo: le spese dello Stato.
Il capitalismo renano - nipponico
La Germania, ed in modo simile il Giappone, ha caratterizzato il proprio
sviluppo capitalistico su dei caratteri comunitari, nei quali l’impresa è
costituita da diversi soggetti economici che lavorano ognuno secondo i
propri ruoli per il conseguimento di uno scopo comune: lo sviluppo di lungo
periodo. Il profitto immediato sarà minore rispetto a quello richiesto dagli
stakeholders americani stakeholders
(le categorie di sono tre: azionisti,
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manager e lavoratori), ma prevale, in questa forma, la preoccupazione di
una vita aziendale di lunga durata.
Si distingue il cosiddetto “nocciolo duro” costituito dagli azionisti stabili
(banche e investitori finanziari), i quali possiedono la maggiore quota di
capitale, e da una moltitudine di azionisti minori che possiedono la parte di
capitale effettivamente trattabile sul mercato. Però non vi è la possibilità
per nessun azionista di raggiungere posizioni di maggioranza assoluta. In
stakeholders
questo modello, fanno parte degli anche i lavoratori,
attraverso i loro rappresentanti sindacali presenti nel “consiglio
d’azienda”.
Si determinano, in tal modo, una compressione forzata dei conflitti sociali
ed una quasi mancanza di conflitti interni d’azienda; il senso di
appartenenza dei lavoratori e di cooperazione rende l’organizzazione
d’impresa tedesca molto stabile e forte. I lavoratori ricevono in
contropartita di una concordata pace aziendale, salari più elevati, meno
ore di lavoro rispetto alle medie anglosassoni e dimostrano un maggiore
senso di fedeltà all’impresa che aumenta la potenza del sistema
economico tedesco.
Il crollo del capitalismo
La crisi che ci ha colpito probabilmente non porterà al crollo del
capitalismo. Infatti, quello che il capitalismo riesce a fare meglio è riciclarsi
anche quando non sembra possibile farlo. Ma la crisi ha portato alla luce
tanti limiti del sistema che nessun governo sa minimamente come
affrontare.
L’uso estensivo del lavoro precario è un modo per abbassare il costo del
lavoro che finisce per creare un circolo vizioso irrimediabile. I lavoratori
pagati poco e licenziati facilmente finiscono per non avere mai abbastanza
denaro da essere i forti consumatori di cui il sistema avrebbe bisogno. La
concorrenza dei paesi dove la manodopera costa meno e, quindi, la
necessità di spostare la produzione ha provocato un
netto ridimensionamento dell’industria classica nei paesi occidentali e
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interi settori sopravvivono in pratica soltanto grazie al sostegno dei
governi.
L’agricoltura produce nei paesi industrializzati molto di più di quello che la
popolazione potrebbe consumare, ma gli agricoltori stessi, ormai un
numero molto ridotto di addetti rispetto al passato, ne ricavano solo le
briciole, mentre i consumatori pagano carissima l’intermediazione
distributiva. Anche la produzione agricola occidentale sopravvive solo
grazie agli incentivi dei governi e ai dazi altissimi sui prodotti che
provengono da altri paesi, nel caso dell’Unione Europea.
L’edilizia continua a costruire come negli anni ’60 - ‘70 anche se non c’è
nessun bisogno reale di nuove abitazioni visto che la popolazione europea
è tutto sommato stabile o in lentissima crescita soltanto grazie
all’immigrazione.
L’era dei computer e dei robot industriali ha fatto si che il lavoro, prima
compiuto da più persone, possa essere fatto oggi da una sola.
La ricchezza reale di un paese dipende dalla sua capacità di produrre beni
e dalla sua forza lavoro. L’Occidente ha la capacità tecnica e industriale di
produrre qualsiasi cosa e ha abbondanza di manodopera, eppure è in crisi.
E' una crisi nata da un’economia sempre più folle e fuori controllo, basata
sulla speculazione, sulla creazione di denaro inesistente nelle banche,
sull’impoverimento della classe media. Non ha quasi più nulla del
capitalismo liberale classico. Se ci fosse vera concorrenza l’agricoltura,
l’industria e l’edilizia occidentale subirebbero un drastico
ridimensionamento. E, infatti, i governi occidentali in pratica stanno