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Indice
Indice............................................................................................................................. 1
Le origini del banditismo................................................................................................ 2
Le tesi di Lombroso e Niceforo........................................................................................ 4
L’ottica della giustizia..................................................................................................... 5
La concezione di Emilio Lussu........................................................................................ 6
Il Banditismo Sardo......................................................................................................... 7
Francesco Ciusa, “La Madre dell’Ucciso”......................................................................18
La storia di Graziano Mesina......................................................................................... 21
Bibliografia................................................................................................................... 26
Filmografia.................................................................................................................... 27
Le origini del banditismo
Il fenomeno del banditismo in Sardegna ha delle origini antichissime.
Già quando i Cartaginesi invasero l’isola sei secoli prima di Cristo, cacciarono i
sardi indigeni verso i monti del centro isolano; si vennero così a creare due
gruppi: i “resistenti” e i “colonizzati” (assieme ai colonizzatori). In questa
circostanza, nacquero le due culture contrapposte, la divisione montagna-mare,
e la “questione” della Sardegna.
Dal VI secolo a.c. a oggi, l’opposizione fra i sardi della montagna e i popoli
venuti da oltre mare, così come l’opposizione tra la civiltà della montagna e
quella approdata sul litorale e diffusa nelle pianure vicine, è una costante della
storia della Sardegna.
La montagna rappresenta l’isolamento, l’economia pastorale, la civiltà di clan
familiari rigorosamente controllati da un codice interno non scritto; la pianura
invece è la vita associata, l’economia contadina e mercantile, l’ambizione al
possesso esclusivo dei beni, la civiltà di villaggi che hanno accettato le leggi
importate dai dominatori di turno.
In seguito, al tempo della dominazione romana, le comunità dell’interno della
Sardegna furono catalogate, per i loro comuni atteggiamenti, con un unico
aggettivo; infatti, la zona centrale dell’isola acquisì stabilmente il nome di
Barbaria,
Barbagia, cioè cioè regione dei barbari: e barbaro per il romano era
chiunque non parlasse la sua lingua, non partecipasse alla sua civiltà, non
accettasse la sua legge, non s’integrasse al suo sistema.
I limiti geografici della Barbagia, complessivamente considerata, coincidono a
sud, a ovest e a nord, con i limiti del massiccio del Gennargentu, solo a oriente
subentra il dominio di un’altra regione, l’Ogliastra, alla quale l’esposizione
verso il mare ha evitato o fatto perdere i caratteri “barbari”.
Nonostante le situazioni descritte siano favorevoli alla nascita del banditismo, i
primi caratteri del fenomeno si ebbero in Sardegna durante il periodo di
dominazione aragonese-spagnola che modificò le istituzioni politiche e sociali
dell’isola. Fu instaurato il sistema feudale, eliminando le forme autonome del
periodo giudicale. La resistenza dei sardi fu tuttavia tenace fino agli ultimi anni
del XV secolo.
L’isola fu divisa in numerosi feudi, e i territori furono controllati
autoritariamente dai nuovi signori; cominciarono a verificarsi i contrasti con i
padroni, da parte dei vassalli, dei pastori e dei contadini. I contrasti più accesi
si registrarono in Barbagia, dove ci fu un’ostinata opposizione alla conquista
aragonese, all’introduzione dell’assetto feudale che, lentamente e a fatica,
penetrava e sostituiva quello giudicale, fino al cuore della Sardegna interna.
Durante questo periodo (ci troviamo circa nel XV secolo), si crearono
frequentemente dei gruppi di uomini armati che lasciavano i loro villaggi, per
sottrarsi al controllo dei feudatari; solitamente le bande erano costituite da
maschi giovani, spesso senza responsabilità familiari.
I membri dei gruppi erano chiamati “uomini marginali”, si trattava di ex servi,
ex soldati, contadini e pastori senza terra e senza lavoro; oltre ad essi, nel
periodo della dominazione iberica della Sardegna, si assistette alla diffusione
bandeados,
dalla figura dei latitanti generalmente accusati di reati gravi,
inizialmente essi assumevano lo status di banditi mediante pregone pubblico,
in seguito fu considerato bandito chi si sottraeva alla giustizia con la latitanza.
Durante questa dominazione ci fu l’incremento sia del numero dei banditi, sia
delle forme organizzate per “bande”, per combattere questi fenomeni, gli
spagnoli fecero largo uno della taglia e del salvacondotto.
Nei primi decenni del XVIII secolo, in coincidenza con la fine della dominazione
spagnola, del breve periodo di transizione austriaco, e il passaggio ai
Savoia, possiamo ritrovare molti gruppi di fuorilegge, soprattutto nelle zone
settentrionali dell’isola, dove operavano con aggressività.
I Savoia, una volta che ebbero consolidato il loro dominio, utilizzarono dei
metodi molto duri per stroncare i fenomeni del banditismo.
Nonostante i numerosi decreti, i fuorilegge continuarono indisturbati a
terrorizzare le popolazioni isolane per tutta la prima metà del XIX secolo. Nella
seconda metà del secolo, ci furono diverse sedute parlamentari in cui si
discusse sulla questione sarda, mentre i banditi continuarono nelle loro
incursioni.
Dal trasferimento della capitale del Regno a Roma, nel 1871, la Sardegna non
ebbe benefici, anzi continuò a patire le conseguenze della lontananza e del
disinteresse del governo.
Nei primi anni del XX secolo, la situazione nell’isola era pressoché immutata, la
popolazione era costretta a una lotta senza tregua contro la miseria, la
sopraffazione, la violenza e l’abbandono.
È giusto aggiungere all’osservazione delle origini del fenomeno, una
considerazione generale sul banditismo, esso è sempre stato combattuto
tenacemente, spesso con metodi repressivi, polizieschi, ma non è mai stato
estirpato; ha conosciuto momenti di letargo, che hanno fatto sperare fosse
ormai estinto, ma è sempre risorto e riesploso in forme ancor più aggressive e
violente. Anche oggi, che non da quasi più segni di vita, forse è sbagliato
illudersi che sia un problema definitivamente risolto.
Le tesi di Lombroso e Niceforo
Spesso si è tentato di dare delle spiegazioni al
fenomeno del banditismo in Sardegna, facendo
ricadere le tesi effettuate nei campi scientifici e
filosofici, eppure esse non appartenevano ne alla
prima ne alla seconda materia.
Ancor più frequentemente, le tesi degli studiosi
non potevano essere considerate accettabili dai
reali esperti del banditismo, perché erano il
frutto di osservazioni per lo più esterne al
fenomeno, elaborate da uomini che arrivavano in Sardegna solo per ultimare i
loro lavori, ma che non potevano capire realmente i comportamenti degli
abitanti dell’isola, gli atteggiamenti e le ideologie, perché la loro conoscenza
era pressoché superficiale di tutto ciò che poteva L’antropologo e
criminologo Cesare
considerarsi “sardo”. Lombroso (1835-1909)
Prendiamo come esempio le teorie di due famosi
antropologi e criminologi che vissero a cavallo fra il 1800 e il 1900 : Lombroso e
Niceforo.
Cesare Lombroso affermò l’esistenza di un primitivismo selvaggio nella
popolazione barbaricina, l’inferiorità razziale del popolo barbaricino e l’assenza
di civiltà in esso, era documentabile attraverso la misurazione dei crani. Egli,
infatti, notò delle anomalie nei crani dei banditi sardi, fonte dei comportamenti
di tipo criminale. L’illustre studioso, accompagnato da Grazia Deledda, aveva
percorso in lungo e in largo l’Ogliastra e la Barbagia misurando visi e crani con
lo scopo di dimostrare la fondatezza del suo teorema.
”ogni territorio in Sardegna ha una sua forma di
Alfredo Niceforo invece disse:
criminalità e esiste una zona moralmente ammalata che ha per carattere
speciale la rapina, il furto, il danneggiamento. La “zona delinquente” i cui
abitanti sono naturalmente, geneticamente predisposti al delitto, perché nelle
loro vene scorre un sangue infetto dal virus della violenza” . L’antropologo
veronese tracciò i confini territoriali della cosiddetta zona delinquente nell’area
di Nuoro, cioè nella Barbagia, nella parte settentrionale dell’Ogliastra, e
nell’area compresa tra Villacidro e Iglesias, simile alla Barbagia per
caratteristiche ambientali e psicologiche dei suoi abitanti.
Come Lombroso, anche Niceforo, individuò nei sardi un arresto del processo
evolutivo morale e sociale; una delle cause della bassa civilizzazione degli
abitanti della zona era costituito, a suo parere, dall’isolamento geografico che
impedì alle genti del luogo il contatto con altre civiltà, e lo scambio culturale ed
economico.
Nonostante appaia abbastanza chiaro che le affermazioni dei due autorevoli
esponenti della “scuola antropologica positiva” siano errate, ancora oggi
fioriscono pregiudizi e stereotipi, più o meno dichiarati, sul “male oscuro” che
affligge la popolazione sarda. Non solo tra la gente comune, ma perfino negli
ambienti della cultura.
L’ottica della giustizia
Passiamo ora ad analizzare due articoli pubblicati nella Rivista dell’Arma dei
Carabinieri tra il 1967 e il 1969. Secondo me, scoprire cosa e come la
pensassero gli amministratori della giustizia, ed in particolare il braccio armato,
i Carabinieri, potrà riservare alcune notevoli sorprese. I due saggi risultano
essere molto più obbiettivi e meno farneticati rispetto a delle affermazioni di
politici e di giornalisti che del banditismo avevano una visione più distaccata.
Igino Messori, Carabiniere pressoché sconosciuto, nel suo articolo del 1967,
prese in considerazione vari aspetti della questione criminale sarda. Egli trovò
l’aspetto centrale del banditismo nella questione naturale, ovvero come
l’ambiente influisca sul fenomeno.
“il pastore sardo deve saper sfruttare la natura per difendersi
Messori scrisse:
dalle intemperie; deve imparare a difendere il suo gregge e se stesso
opponendo, all’occorrenza, violenza alla violenza. La Sardegna è il miglior
terreno di cultura per il furto di bestiame, la rapina, il sequestro di persona,
l’omicidio, i centri più evoluti e popolosi danno, invece, luogo al furto nella
gioielleria, alla rapina in banca, alla truffa, a delitti di più raffinata concezione”.
Anche l’articolo di Giovanni Zappi, un altro carabiniere, del 1969, espone come
l’ambiente e l’estrema povertà del territorio abbiano inciso profondamente
sull’evoluzione del Banditismo Sardo. Nel saggio viene prima individuata una
zona che bisogna distinguere dal resto dell’isola, la Barbagia, e poi è indicata
come origine della delinquenza in Sardegna la differenza fra pastori e
“L’agricoltore è profondamente legato alla terra,
contadini, così Zappi scrive:
che gli assicura possesso e stabilità, e lo relega in orizzonti circoscritti con
limitate relazioni e vincoli. Il pastore, invece, conduce un’esistenza
indipendente e nomade, non vincolato ad ambienti e obbligato solidamente
solo con coloro che vivono con lui”.
Il Carabiniere ripresenta l’eterno conflitto, fra sedentario e nomade, fra chi è
legato alla proprietà della terra e chi alla proprietà del gregge. Questo
contrasto ha caratterizzato, molto di più della grandezza del cranio, le vicende
della criminalità sarda.
Zappi, proseguendo col suo saggio, mostra una visione affascinata del
"occhio per occhio",
primordiale codice, lo preferisce alla criminalità civilizzata,
ma in veste di tutore della legge non può approvarlo. Per l’autore dell’articolo,
generalmente, il bandito sardo è una specie di Robin Hood, quasi un santo; egli
mostra una visione romantica che