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manifestato da adulto sintomi che l’odierna psicanalisi potrebbe
attribuire a imposizioni subite nell’infanzia (per esempio, era un
mancino naturale che fu costretto a usare la destra), il più vistoso
dei quali fu la balbuzie, probabilmente rappresentata nella favola
nella figura del ghiro che partecipa alla festa del buon non-
compleanno. Durante gli studi si sforzò sempre di seguire i passi del
genitore, tanto ammirato quanto rispettato, coltivando le stesse
discipline nella medesima università. Appena laureato si dedicò
all’insegnamento della matematica con residenza nel college e con
l’impegno di non ammogliarsi e di entrare nella Chiesa. I suoi
contributi scientifici furono frequenti e di buon livello, anche se
lasciò tracce più profonde nel campo della logica moderna (nel
1896 pubblicò “Symbolic Logic”).
Uomo austero e moralista, coltivò anche un lato ludico,
appassionandosi di eccentriche invenzioni e coltivando hobbies, in
particolare la fotografia, e specializzandosi nei ritratti di bambine
talvolta piccolissime che riusciva a far rimanere immobili per il
lungo tempo necessario incantandole con i suoi racconti.
Non scoraggiato dal padre, Dodgson si divertì infatti fin da bambino
a inventare storie assurde e divertenti, racconti satirici, poesie
umoristiche, parodie, indovinelli, rompicapo. Aveva circa ventitré
anni quando decise di continuare sotto lo pseudonimo di Lewis
Carroll questi esercizi, creando un alter-ego completamente opposto
alla propria esteriore personalità: mascherandosi, non mancò di
contestare quel mondo perfettamente coerente e tradizionalista ma
sempre più fragile, il periodo vittoriano, che iniziava a essere
sconvolto dalle nuove innovazioni e da un clima culturale in
continuo cambiamento.
A suo agio solo di fronte ai fanciulli, venne definito come un uomo
mai veramente cresciuto: capiva la psicologia dei bambini (non
troppo dissimile dall’autore di Peter Pan, James Barrie) e per
intrattenere le sue piccole visitatrici finì col fare delle sue stanze al
college un vero paese delle meraviglie, colmo di carillons, bambole,
balocchi.
Di particolare importanza risultò sia l’incontro con le tre sorelline
figlie dell’insegnante Henry George Liddell: Edith di otto anni, Alice
di tre e Lorina di uno, sia la fatidica giornata del 4 luglio 1862
durante una gita in barca nel corso della quale Dodgson inventò per
le tre bambine la favola che si sarebbe poi trasformata nel racconto
di Alice nel Paese delle Meraviglie. Fu un’opera di grande rilevanza
in un’epoca di trionfante utilitarismo vittoriano, quando all’arte si
chiedeva di giustificare la propria esistenza contribuendo a elevare
l’individuo, o perlomeno a insegnargli qualcosa; un uomo di chiesa
e un moralista inflessibile metteva invece in mano all’infanzia un
libro di travolgente anarchia, dove l’autorità è mostrata come
dispotica, capricciosa e intollerante, dove le istituzioni sono
incomprensibili e ingiuste, dove la
divinità non è nominata neppure;
un libro in cui gli insegnamenti
tradizionali sono messi in ridicolo,
dove le poesie edificanti sono
ridotte a nonsenso mediante la
parodia, ma soprattutto dove ogni
personaggio racconta
grottescamente e con elaborato
umorismo la società
contemporanea dell’autore e gli
aspetti ad essa correlati. 4
Alice Liddell, fonte di ispirazione
per la creazione della protagonista
della favola
A NALISI DEI PERSONAGGI
Brucaliffo: i progressi della scienza e la conseguente
crisi delle certezze (la fisica del ‘900 verso i Quanti di
Planck)
“Il Bruco si tolse di bocca la pipa e, con voce languida e assonnata,
chiese: «E tu chi sei?». Questa non era certamente la maniera più
incoraggiante per iniziare una conversazione. Alice rispose con voce
timida: «Io…io non lo so, per il momento, signore…al massimo
potrei dire chi ero […]».
Quali certezze potevano sottrarsi agli
sconvolgimenti apportati dalle scoperte
scientifiche, in particolare dal punto di vista
delle emergenti teorie nel campo della fisica,
che trovava sempre più significative
applicazioni nel campo tecnologico e
industriale e che andavano a sostituirsi alle
vecchie conoscenze mediate dalla metafisica?
Alcuni fisici vissero questo travaglio alla
stregua di un dramma personale come
Boltzmann, fondatore della meccanica
statistica, che si suicidò nel 1906, non vedendo
vie d’uscita ad un malessere che non gli
concedeva di andare oltre.
Basti infatti pensare alla nascente teoria quantistica di Planck, che
introdusse un radicale stravolgimento nella passata teoria
atomistica, e particolarmente alla contemporanea attività del fisico
tedesco Albert Einstein (1879-1955) che nel 1905, “l’annus
mirabilis”, pubblicò tre articoli riguardanti tre incredibili innovazioni:
Dimostrazione della validità delle teorie di Planck attraverso
l’effetto fotoelettrico;
Applicazione dell’effetto Browniano al moto degli atomi in un
liquido in equilibrio, considerate in precedenza stabili nelle loro
posizioni;
Esposizione della teoria della relatività che sconvolse le
precedenti definizioni assolute di spazio e tempo;
In particolare la prima argomentazione risultò di notevole
importanza per l’aver giustificato attraverso dei risultati
sperimentali la nascente teoria dei quanti, che entrava dunque in
netta contraddizione con la fisica classica:
«Tutti i miei tentativi di adattare i fondamenti teorici della fisica
classica a queste nuove acquisizioni fallirono completamente. Era
come se ci fosse mancata la terra sotto i piedi, e non si vedesse da
nessuna parte un punto fermo su cui poter costruire». (Einstein) 5
In base a questo esperimento la luce, e più in generale la radiazione
elettromagnetica, doveva essere descritta in termini quantistici,
immaginando quindi che essa viaggiasse secondo pacchetti di
energia (quanti di energia di valore h • f detti fotoni).
PRESENTAZIONE DELL’EFFETTO FOTOELETTRICO
L’effetto fotoelettrico rappresenta l’emissione di
elettricità negativa, quindi di elettroni, prodotta
investendo superfici metalliche con radiazione
luminosa ultravioletta.
La teoria ondulatoria classica prevedeva però che,
all'aumentare dell'intensità della luce incidente,
aumentasse l'energia degli elettroni emessi (a patto
di aspettare il tempo per permettere il distacco
dalla piastra negativa) e che quindi si ottenesse
sempre un passaggio di corrente misurabile
attraverso l’amperometro.
Einstein, nella prima fase dei suoi esperimenti, costatò invece che il
passaggio di corrente si verifica solo se la frequenza della luce
supera una frequenza di soglia (f ), e che dunque il variare
o
dell’intensità della luce era unicamente legato al numero di
elettroni emessi, non alla loro energia
accumulata.
Successivamente prese in considerazione un
circuito più complesso che gli permettesse di
variare la differenza di potenziale fra le piastre
del condensatore, ottenendo dunque anche un
∆V negativo: attraverso varie fasi arrivò dunque
a definire prima un valore di soglia della
corrente, che dipendeva strettamente
Figura 1 dall’intensità della luce emessa (figura 1), ed in
seguito, con l’utilizzo appunto di un ∆V negativo,
constatò il crearsi di un controcampo ∆Vo detto
potenziale di arresto (figura 2), con il quale
l’elettrone riesce ad ottenere l’energia necessaria
per separarsi dalla piastra negativa, ma riesce a
giungere solo a piccole distanze da quella positiva,
non generando dunque alcuna intensità di corrente.
A differenza però dei dati attesi che volevano una
Figura 2 dipendenza di ∆Vo dall’intensità di luce e dunque
variabile, Einstein costatò che questo derivava
unicamente dalla frequenza, dal tipo di luce, e che quindi rimaneva
invariato durante l’esperimento.
I suoi studi si soffermarono dunque sulla valutazione dell’utilizzo
dell’energia del fotone (h•f), da parte degli elettroni del metallo
colpito dalla radiazione elettromagnetica, che si distingueva fra
lavoro di estrazione dalla piastra negativa ed energia cinetica
necessaria per raggiungere quella positiva:
En fotone = L estrazione + En cinetica 2
h • f = h • f + ½ mv
o
½ mv corrisponderà al valore minimo necessario a raggiungere la piastra
2
positiva senza toccarla e quindi può essere eguagliato al lavoro q • ∆V → e •
V
o V = (h • f – h • f ) / e , dipendente cioè da f e non
di conseguenza o o
dall’intensità di luce, altra prova a favore della quantizzazione della
radiazione. 6
Alice: crisi dell’identità e noia verso l’evasione nel
sogno guidato dall’inconscio (la filosofia di Freud e le
diverse reazioni letterarie, dal fanciullino al superuomo)
Nel celebre saggio Freudiano pubblicato nel 1900 “L’interpretazione
dei sogni” lo scrittore citò dei versi del De Rerum Natura di Lucrezio:
«E qualunque sia lo scopo al quale ci si dedichi con passione, quali
che siano le cose delle quali ci siamo molto occupati in passato,
essendo quindi la mente più concentrata su quello scopo, sono
generalmente le stesse cose che ci sembra di incontrare nei sogni»;
a questo proposito si potrebbe costruire un legame fra le reazioni
dell’individuo e dell’intellettuale nei
confronti di una società in continuo
cambiamento, e la figura della
piccola Alice: a cavallo fra il XIX e il
XX secolo, furono effettuate
numerose scoperte in campo
scientifico e sociale che portarono al
cedimento delle tradizionali
7
convinzioni, e che furono motivo di molteplici atteggiamenti da
parte di ogni soggetto. Da una parte vi era una fede positivistica nel
progresso e nelle scienze, dall’altra vi era invece un crescente
timore nei confronti delle conseguenze che andavano creandosi;
questa seconda presa di posizione può essere sommariamente
suddivisa fra un atteggiamento di attivistica ribellione del
superuomo, una regressione nell’infanzia del fanciullino al sicuro
nell’idillio del proprio nido, o un’evasione nell’immaginario del
sogno.
In particolare quest’ultima scelta è il filo conduttore dell’intera
favola, nella quale la bambina, spronata anche dalla noia, si
immerge in un universo completamente creato dal proprio
inconscio, che come lo stesso Freud sosteneva, proietta i suoi
desideri e i suoi pensieri della realtà oggettivandoli e deformandoli :
«I sogni non devono essere paragonati ai suoni discordanti che
provengono da uno strumento musicale percosso da un tocco
estraneo invece che dalla mano del musicista; non sono privi di
significato, non sono assurdi; non implicano che una parte delle
nostre rappresentazioni sia addormentata, mentre un’altra parte
comincia a svegliarsi. Al contrario, sono fenomeni psichici
pienamente validi, […] i sogni si rivelano, senza alcuna maschera,
come appagamenti di desideri». Ecco che viene dunque a crearsi la
fitta trama dei personaggi che rappresentano la contemporanea
società vittoriana e borghese, lo smarrimento conseguente al
progresso si traduce nelle immagini del labirinto, dei sentieri che
vengono cancellati da strane creature, delle strade prive di
indicazioni precise, che obbligano la bambina a scandagliare
sempre più nel profondo il proprio inconscio.
Se dunque da una parte riscontriamo il tentativo dell’evasione nel
sogno, dall’altra compaiono anche figure di letterati che scelsero di
non distaccarsi completamente dalla realtà, ma di trasfigurarla
attraverso l’immagine del fanciullino e del superuomo; è il caso in
Italia di Pascoli(1855-1912) e di D’annunzio (1863-1938).
In entrambi i casi si parte dal presupposto della paura e del rifiuto
nei confronti della materialità creatasi in concomitanza
all’espansione del progresso, che tende a sminuire ed annullare il
ruolo dell’individuo nella società di massa, a creare un sentimento
di smarrimento angoscioso di fronte alla complessità della realtà
moderna, che appare ostile, minacciosa, soffocante, e sfugge sia
alla comprensione sia al controllo dell’intellettuale che non può che
costatare la propria “perdita dell’aureola” (Baudelaire, i fiori del
male). Entrambi i due atteggiamenti si dimostrano dunque come
soluzioni all’incombente grigiore industriale, ma per quanto