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LATINO: Pinocchio e Le Metamorfosi di Apuleio
STORIA: Anastasia e la Rivoluzione Russa
GRECO: Ercole e la figura dell'eroe
ITALIANO: Il gobbo di Notre Dame, Leopardi e " A Silvia ''
INGLESE: Oscar Wilde e Biancaneve
FILOSOFIA: Bergson e il Bianconiglio
MATEMATICA: Archimede Pitagorico e il Pi Greco
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« Lector, intende: laetaberis »
Il topico privilegio della trasformazione metamorfica in una sorta di biologica alienazione
in qualcosa che travalichi i confini umani è oggetto e soggetto dei capolavori letterari
scritti e redatti da due dei più importanti scrittori di romanzi della plurimillenaria storia
della letteratura: Carlo Collodi e Lucio Apuleio. Le Metamorfosi sono forse il
componimento che più contraddistingue la mistione tipica del romanzo di argomenti e
temi con un calzante anacronismo di generi letterari differenti, dalla storiografia alla
biografia, dalla satira menippea al racconto mitologico, in una sorta di labirinto di
eteronomie che nella sua narrazione, sebbene articolata e complessa, trova la sua più
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profonda veridicità. Le Metamorfosi constano di undici libri il cui numero peculiare,
totalmente scevro di qualsiasi numerologia letteraria di stampo classico e affine, trova
proprio nel suo ultimo tomo una fisionomia chiave e importantissima per la comprensione
di tutto il romanzo. La struttura presuppone una sorta di incastro di storie e digressioni
letterarie che, pur vivendo di autonomia propria, fungono la perle importantissime alla
corretta gnoseologia dell’opera. È questo il caso delle Fabulae Milesiae, tipiche per la
spinta licenziosità del linguaggio.
Nel sostrato fondamentale della narrazione il protagonista fondamentale è Lucio che, una
volta giunto in Tessaglia, è ospitato dall’usuraio Milone e dalla moglie Panfila, una maga.
Lucio, bramoso di sfiorare con lo sguardo gli occulti misteri della magia, assistito dalla
collaborazione della servetta Potide, assiste una sera alla trasformazione di Panfila in
barbagianni e, in un trionfo di stupore nuovo, chiede alla servetta di essere anch’egli di
essere trasformato in un uccello; ma per un banale errore della servetta, che sbaglia
ampolla, Lucio è trasformato in asino anziché in uccello, pur mantenendo intelligenza e
sentimenti umani, dal momento che la metamorfosi riguarda solo il corpo. A questo
punto, una sequela di avventure e disavventure conduce il povero Lucio, nelle vesti di
asino, da una banda di ladri sino a una caverna nella quale una vecchia tiene a bada una
fanciulla rapita al suo fidanzato raccontandole la favola di Amore e Psiche. È la storia di
una città lontana in cui vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie ma la
bellezza della più giovane - Psiche – era così straordinaria che qualsiasi parola umana era
insufficiente. Gelosa di cotanto splendore, Venere inviò allora Amore per fare innamorare
Psiche del peggiore tra gli uomini, ma il giovane dio, innamoratosi anche lui della ragazza,
la condusse in un castello incantato e la sposò con la condizione che non la ragazza non
incontrasse mai il volto del suo sposo. Invece Psiche, mal consigliata dalle invidiose
sorelle, una notte accende la lucerna per guardare gli occhi dello sposo, ma una goccia d’
olio sveglia Amore, che la rifugge. Tutto ciò scatena l’ira di Venere, che impone a Psiche
una sequela di prove durissime per ricongiungersi finalmente al suo amato. Infine,
superate i collaudi impostale da Venere, Psiche è finalmente assunta tra gli dei e resta per
sempre sposa di Amore. La favola funge da fulcro centrale alle funzionalità semantiche e
ontologiche dell’intero romanzo. Psiche infatti, così come Lucio per le arti magiche, è il
simbolo della curiositas di guardare là dove non le è consentito, finendo per dover
superare numerose prove per salvare finalmente il suo paradiso perduto. Anche a Lucio
spetta lo stesso viatico di sofferenze per recuperare la propria natura umana. Infatti riesce
a fuggire da una serie di suoi proprietari sin quando, dopo un lungo viaggio, sulle rive del
mare gli appare la dea Iside, la quale gli consiglia di assistere alla processione in suo onore
e di mangiare le rose sacre che un sacerdote terrà in mano per riacquistare finalmente le
fattezze umane. Lucio ubbidisce prontamente e riconquista la propria natura umana
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concedendosi al culto di Iside e Osiride.Il finale acuisce poi le tinte autobiografiche del
romanzo: Lucio si rivela << Madaurense >>, come Apuleio stesso. Le avventure di Lucio, il
suo riscatto, la sua salvezza e la mistica iniziazione ai culti di Iside e Osiride sono quindi il
romanzo di formazione del suo stesso scrittore.
Sia il romanzo di Collodi che quello di Apuleio, nelle loro più peculiari eteronomie e
affinità, rientrano così nel genere di un bildungsroman che conferisce al proprio sostrato
di avventure fantastiche e fiabesche il crisma del paradigma. Per esempio, la curiositas è in
entrambe le opere una chiave di volte, seppur punita, di una certa sequela di simbolismi e
funzioni differenti. Elementi come rose, acqua e luce trasfigurano per tutta la durata dei
due romanzi la metamorfosi salvifica che, in una sorta di apici provvidenziali e metaforici,
rallenta il corso della vita e l’avvento della morte. Prove, incantesimi, incredibili avventure
sono il prezzo di un tempo dal quale affiorano non più burattini o asini, ma uomini nuovi.
In questo modo Lucio comprende che la conversione presuppone necessariamente la sua
liberazione, il suo ritorno in patria e il prospettivismo tipico di qualunque mago – ogni
mago è infatti sacerdote, luminare, astrologo – e del culto di Iside, non a caso la divinità
egizia omnicomprensiva, multiforme, onnipotente. Per Pinocchio è invece il commovente
amore di Geppetto e il sorriso materno della Fatina altrettanto multiforme a rappresentare
gli alambicchi della sua purificazione finale. Così le parole di una favola finiscono per
riflettersi nel dolce privilegio della letteratura e, nella loro iniziale, forse pedante
saccenteria, diventano paradigmi di fede e amore. Per il giovane bambino con il cuore di
burattino, certo. Ma anche per qualsiasi altro uomo in cerca dei propri occhi.
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La storia di Anastasia è permeata nel suo tripudio finale dal sostrato storico proprio della
Rivoluzione Russa del 1917 e da genealogie e personaggi, come la famiglia reale dei
Romanov e il mistico Rasputin, la cui memoria è affidata a pagine di storia che, così come
la favola della principessa, è una lotta per una mistione tra realtà e leggenda.
Agli inizi del 1917 il sistema economico russo non era più in grado di reggere sulle spalle
le magniloquenti spese belliche e il fardello della Grande Guerra. Numerosi furono i centri
urbani mutilati da carestie e da un vertiginoso aumento dei prezzi che favorì violenti
scioperi e tumulti a Mosca sin quando lo zar, Nicola II, decretò la sospensione della Duma.
Tal coraggiosa decisione provocò un’eteronomia di fazioni ideologiche all’interno
dell’opposizione e una più decisa lotta contro la crisi di viveri e beni necessari alla
sopravvivenza. Lo zar decise di rispondere con la forza, impiegando le forze armate
contro i manifestanti, ma i soldati si rifiutarono di combattere e si schierarono con i
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rivoltosi. L’8 marzo le sommosse assunsero le forme di una vera e propria rivoluzione, che
fu chiamata rivoluzione di febbraio, perché quel giorno, nel calendario russo,
corrispondeva al 23 febbraio. Il 15 marzo Nicola II abdicò in favore del fratello, il granduca
Michele, ma questi rifiutò di salire sul trono e il Soviet poté così ordinare l’arresto dello zar
e consorte, la zarina Alessandra, ponendo fine alla dinastia dei Romanov. La rivoluzione
decretò l’avvento di un governo provvisorio, guidato dal principe L’vov . Il nuovo
governo provvisorio dovette però fronteggiare il fortissimo dualismo di interessi e di
potere tra la Duma e il Soviet e, in seconda analisi, le ideologie di Lenin e delle sue Tesi di
Aprile, in cui si chiedeva una pace immediata e pieno potere al proletariato. La figura di
maggior rilievo del nuovo governo provvisorio fu il ministro della guerra Kerenskij,
fautore anche lui di un’ideologia mirata alla libertà di stampa, di opinione, di associazione
e di religione. Il governo cercò sin da subito di ottenere un successo militare, ma
l’offensiva contro i tedeschi sfumò presto, obbligando il generale russo, Kornilov, a
indietreggiare. Proprio quest’ultimo, per poter proseguire nel migliore dei modi la guerra,
decise di imporre la più dura disciplina interna e proclamò lo stato d’assedio a
Pietrogrado, minacciata dall’avvicinarsi dell’esercito tedesco. Quando Kerenskij destituì il
generale, questi marciò su Pietrogrado per instaurarvi la dittatura militare. I bolscevichi, di
fronte a tale minaccia, formarono la Guardia Rossa e difesero la città. Il movimento
bolscevico trasse notevoli vantaggi dal fallito tentativo del generale Kornilov e, dopo aver
ottenuto la maggioranza nei Soviet, scelsero la data del 25 ottobre – il 7 novembre del
calendario Gregoriano – per passare all’azione. La Guardia Rossa e le truppe regolari
riuscirono in poche ore a conquistare i punti nevralgici della città e l’8 novembre
attaccarono il Palazzo d’Inverno, sede del governo Kerenskij. Il nuovo governo, definito
Soviet dei commissari del popolo, fu guidato da Lenin.
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« Era che è femmina ingannò (Zeus) con astuzia
il giorno in cui Alcmena stava per partorire
in Tebe, la ben coronata di mura, la forza di Eracle. >>
La prosopografia di Eracle è uno dei capisaldi miliari dell’intero apparato mitico greco.
Figlio di Alcmena e Zeus, semidio, nacque a Tebe sotto il segno connotativo di una forza
sovraumana e una morfologia tipica dei grandi eroi omerici: alto, bello e muscoloso, vanta
un bagaglio di storie innumerevoli sul suo conto. Celeberrime sono le sue dodici fatiche e
le sue trionfali lotte con serpenti dalle teste innumerevoli, leoni dalla pelle imperforabile,
volatili capaci di sparare fiumi di piume affilate come lame, cinghiali selvatici, centauri e
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buoi leggendari, imprese che affidarono il suo nome alla leggenda degli eroi, nel senso più
antonomastico del termine. Perse la vita di propria mano, concedendosi al fuoco di un
rogo dilaniato dal dolore che Deianira, sua moglie, ignara del raggiro del centauro Nesso,
aveva causato dopo aver intinto la sua tunica in un veleno mortale. Salito sull’Olimpo,
sposò Ebe, la coppiera degli dei, assumendo le redini di guardiano e sentinella del Monte
mitico. Nella piena razionalizzazione del personaggio topico, la psicologia di Eracle è stata
striata da innumerevoli sfaccettature letterarie che a volte lo ritraggono come protagonista
primario, a volte invece come semplice comprimario scenico. Le prime attestazioni
letterarie sul mito di Eracle affiorano da alcuni passaggi omerici in cui il leggendario poeta
greco annovera alcuni episodi trionfali lasciandone trasparire la fortissima prestanza e il
grande coraggio tipico degli eroi.
« Ci aveva già malmenato, venendo, la forza di Eracle,
negli anni passati, ed erano stati uccisi i migliori.
Dodici figli eravamo di Neleo senza macchia,
e d'essi io solo rimasi; tutti gli altri perirono »
In Omero Eracle non è inguainato nella pelle di leone, suo abbigliamento tradizionale, e
non è armato nemmeno di clava, ma veste schinieri, elmo, corazza, scudo e altri strumenti
peculiari a qualsiasi iconografia guerriera micenea. Importante è anche la trasmutazione
eraclea in << ombra >>, durante la discesa agli Inferi di Ulisse, in cui si precisa che l’eroe
gode la pace degli dei beati sull’Olimpo, accanto ad Ebe, sua sposa. La presenza di questo
verso - interpolato? - e la singolarità relativa alla << parvenza >> segnano la soglia oltre la
quale l’apoteosi di Eracle diviene una topica nella letteratura posteriore.
<< E poi conobbi la grande forza di Eracle,
ma la parvenza sola: lui tra i numi immortali
gode banchetto, possiede Ebe caviglia bella,
figlia del gran Zeus e di Era sandali d’oro. >>
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Anche dalla Teogonia di Esiodo affiorano notizie e continui riferimenti alle vicende di
Eracle, senza tuttavia una pedissequa trattazione dei trionfi accurata e minuziosa. Ogni
impresa, ogni fatica eraclea, è descritta come un passo decisivo profanato da Eracle per la