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Introduzione Sofferenza come forza motrice artistico-letteraria, tesina
Questa tesina di maturità liceo classico descrive la sofferenza come forza motrice artistico-letteraria.
Da sempre, la Sofferenza è sentita dall’uomo come uno stato congenito dovuto alla propria complessa psiche e causato da un eterno sentimento di incontentabilità: si differenzia dallo stato brado di Dolore tramite l’accettazione graduale del proprio stadio. Ma da questa ‘fase negativa’, in alcuni casi, non ne è scaturita una rassegnazione né uno sterile torpore, bensì dell’arte eccelsa, che geniali individui hanno prodotto nel corso della storia, denudando e servendosi della parte più intima della loro anima: la fragilità. La tesina permette anche dei collegamenti con le varie discipline scolastiche.
Collegamenti
Sofferenza come forza motrice artistico-letteraria, tesina
Italiano:
Mishima, Confessioni di una maschera; Majakovskij, A piena voce, poesie e poemi; Alda Merini, Fiore di poesia 1951-1997, Delirio amoroso, L'altra verità; Garcia Lorca, Sonetti dell'amore oscuro; Leopardi, Canti; K. Cobain, Oh our last and final name is Nirvana (Cobain diaries); V. Van Gogh, Lettere a Theo; testo delle canzoni degli Alice In Chains (band grunge)
.Filosofia:
Freud, Disagio della civiltà; Natoli, L'esperienza del dolore; Borgna, Le emozioni ferite; Nietzsche, Così parlò Zarathustra; Camus, Il mito di Sisifo
.Inglese:
Wilde, De Profundis, Ballad of Reading Gaol, Divagazioni sulla felicità; Plath, Ariel, poems
.Greco e Latino:
Saffo, poesie; Lucrezio, De rerum natura (II,IV,V)
.Queensbury, la quale doveva essere inizialmente una lettera di pentimento e di
confessioni, un primo passo per trasformare e redimere il proprio passato di ingenuità, ma
anche di odio e di rimprovero verso il suo volgare e viziato amante e che, infine, si mostra
come una missiva di perdono e di amore, non comunque ricambiato; lo scopo di fondo è
pedagogico, e l’autore intende infatti portare la coscienza del giovane vanesio Bosie, tanto
atrofizzata da quella totale mancanza di immaginazione e annebbiata da
quell'accecamento proveniente dall’odio, ad uno stadio di maturazione e comprensione.
Oscar Wilde ha sempre e solo vissuto per il piacere e per la perfezione, il dolore lo ha
evitato in ogni momento fino a quando, in cella, ne comprende la vera essenza: “Il dolore
è la suprema emozione di cui l’uomo è capace”; e continua dicendo “la sofferenza è il
nostro modo d'esistere, poiché è l'unico modo a nostra disposizione per diventare
consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario
come la garanzia, la testimonianza della nostra identità”, e senza dubbio questo dolore
che fu costretto a provare gli depredò la mente e gli lacerò il corpo al punto tale che dopo
tre anni da quando, nel 1987, uscì dal carcere, morì di meningoencefalite, debilitato da
altre complicazioni fisiche.
-In parte ascrivibile come esteta, in parte no, la figura di Yukio Mishima (nome di fantasia
dello scrittore giapponese Kimitake Hiraoka, classe ’25) è una delle più accattivanti ed
ambigue del XX secolo: figura contradditoria, vincolata dalla nostalgia per le tradizioni
avite del bushido (era assai dedito al libro di aforismi di samurai ‘Hagakure’) e del mito
dell’imperatore, ma in perenne tensione di libertà e di fascino per il moderno ed il futuro
tecnologico a cui andava incontro.
I suoi romanzi hanno avuto una funzione catartica ed esorcizzante di sé e della propria
incomprensione – rendendo espliciti al pubblico quei sentimenti e quelle convinzioni così
intime che lo stesso Mishima avrebbe vergogna di riconoscere a se stesso. Egli riesce a
scongiurare quel senso di solitudine e di ignominia che da sempre affliggono la sua
personalità (una vera e propria ‘displicentia sui’, cui lui cercherà rimedio per tutta la vita
creandosi sempre nuove maschere, a partire dal suo ossessionante culto della vita e
dell’estetica, che non fanno altro che celare quel lato oscuro che lo induce, poi, al
sadomasochismo e all’autodistruzione).
Cosciente dell’effimera caducità della bellezza, l’esteta Mishima vede nella tragedia una
degna chiusa allo splendore raggiunto, desidera scomparire finché è ancora all’apice del
successo, prima che il trascorrere del tempo ne offuschi la fulgidezza e conduca alla
degenerazione del corpo; convinto, allora, della necessità di un evento che lo faccia
ricordare per sempre e sentito crescente il disonore imposto dalla sconfitta nella seconda
guerra mondiale e dalle imposizioni belliche date dai vincitori statunitensi al proprio
indomito paese, si dedica in tutto e per tutto alla missione di restaurare le condizioni del
Giappone antecedenti al 1/01/1946 (resa e la totale smilitarizzazione del paese), lo spirito e
la coscienza di sé che da sempre contraddistinguono il nitore nipponico; finché, con il
plateale suicidio tramite seppuku, in diretta nazionale, del 1970 non pone fine alla sua
travagliata e metamorfica vita.
I temi ricorrenti delle sue opere sono quelli della morte, dell’erotismo e della bellezza: una
triade il cui primo ed ultimo membro sono in funzione di quello mediano (come quando
Mishima, nel suo secondo romanzo “Confessioni di una Maschera” incentrato
autobiograficamente sulla storia di un ragazzo soggetto ad un tremendo dissidio interiore
causato dalla propria omosessualità latente, giustappone alla rappresentazione del martirio
di San Sebastiano la percezione di piacere dovuta ad onanismo, e dice: «[...] Nell’attimo in
cui scorsi il dipinto, tutto il mio essere fremette d’una gioia pagana. Il sangue mi tumultuò nelle vene, i
lombi si gonfiarono quasi in un empito di rabbia. La parte mostruosa di me ch’era prossima a
esplodere attendeva ch’io ne usassi con un ardore senza precedenti, rinfacciandomi la mia ignoranza,
ansimando per lo sdegno. [...] Eruppe all’improvviso, portando con sé un’ebbrezza accecante…»).
L’erotismo mishimiano rientra in un ordine che trascende la morale e l’immaginazione:
questo nettare divino pare accessibile solo a chi viva il sesso e la contemplazione estetica
in situazioni rischiose coniugandole all’eccitazione sessuale in uno stordimento che superi
gli orgasmi comuni – uno 'sregolamento di tutti i sensi' che non possa che concepirsi come
associato al disadattamento o alla trasgressione; l’infelicità proveniente dal
disadattamento, come il vizio dalla trasgressione, si trasformano eroticamente in sacre
oscenità o sacre sofferenze, poiché nella loro violenza simili esperienze possono
scardinare i confini della realtà materiale per rientrare nella metafisica. ‘Confessioni di
una Maschera’ (Kamen no Kokuhaku) è uno dei capolavori di Mishima, in quanto lo
scrittore, mai volgare né opprimente bensì continuamente stimolante, seleziona e conduce
le parole con insuperabile portamento nel raccontare il dissidio del giovanissimo Kochan
tra ciò che è e ciò che pretende di essere: ne risulta un nodo inestricabile di costruzioni
mentali e di sublime immaginazione, desideri carnali, ingenue contraddizioni, rimorsi
sofferenze ed insicurezze – un duplice contrasto di amore (corrispondente allo sguardo,
alla voce, alla purezza di Sonoko) e desiderio (corrispondente alla virilità dei suoi efebici e
ardenti amori, non corrisposti) con cui il giovane si scontra in cerca della propria identità, e
quindi della propria felicità, «Q uando non si è mai conosciuta la felicità non si ha il
diritto di disprezzarla. Ma io do un'impressione di esser felice in cui nessuno potrebbe
scoprire la benché minima incrinatura, e quindi ho il diritto di disprezzarla né più né
meno di chiunque altro».
Il romanzo “Il padiglione d’oro” (Kinkaku-ji), invece, tratta della storia, realmente
accaduta, di un giovane monaco che nel 1950 dette fuoco al padiglione con l’intenzione
(fallita) di suicidarsi; l’intento di Mishima è quello di immedesimarsi nel fautore di tale
gesto per comprenderne i motivi, ma subito diventa pretesto per esplicare i propri concetti
estetici (bellezza vista e vissuta come sentimento indefinito, morboso ed eterno) e
filosofici in cui ogni evento della narrazione assume un significato simbolico. Lo scrittore
descrive la morbosa ossessione che nasce nel giovane monaco Mizoguchi nei confronti
della bellezza che gli colmava il cuore, tanto da volerla raggiungere distruggendo il
padiglione che gli si contrapponeva (riminiscenze, in parte, del wildiano “yet each man
kills the thing he loves”); prima di appiccare il fuoco alla pagoda, il monaco ricorda
l’insegnamento zen (koan) “Quando incontri un Buddha, uccidilo”, come probabile
segno di volontà di autoliberazione dall’essere sottomessi a qualcuno od a qualcos’altro
(come nel suo caso, dall’incessante richiamo della bellezza di quell’architettura).
-Diametralmente opposto alla figura dell’esteta, nella Russia della Rivoluzione del 1917
troviamo il poeta e drammaturgo futurista Vladimir Majakovskij, combattuto tra
l’anabolizzante pulsione per la politica bolscevica (frazione di maggioranza del partito
operaio socialdemocratico russo, di tendenze rivoluzionarie, socialiste e antizariste,
guidato da Lenin e che prese il potere con la forza il 7/11/1917, in opposizione al partito
più moderato ed elastico dei Menscevichi) ed il catabolizzante amore per l’attrice-
scrittrice Lilja Brik, la quale così lo descrive “se non avesse esasperato tutto non sarebbe
stato un poeta. [...] Non si apriva facilmente, ma era calmo e tenero. […] Solo nei primi
anni della rivoluzione visse con furore e lietamente, ma non sapeva accettare il declino,
non sapeva rassegnarsi all'idea che la giovinezza è un attimo, e che il futuro è spesso
mediocre”; descrizione che in effetti coglie molto l’animo effimero e poliedrico
dell’artista, il cui genio brilla maggiormente nelle poesie confessionali ed elegiache
piuttosto che in quelle di encomio della rivoluzione. «B attete sulle piazze il calpestìo delle
rivolte! In alto, catena di teste superbe! Con la piena del secondo diluvio laveremo le città dei mondi»,
paradossale come la rivoluzione salvifica che andava
Nash Marsh (La Nostra Marcia) vv.1-4 ,
esaltando Majakovskij, dagli anni ’20 (l’U.R.S.S. si fonda nel 1922, anno in cui Stalin
diventa segretario del PC) andò peggiorando e diventando reale dittatura, accompagnata
da una forte censura artistica, venne a mancare quell’ideale marxista di egualità e libertà in
cui Majakovskij aveva creduto e per cui aveva sempre combattuto: questo fu un forte
colpo che esasperò ulteriormente lo stato di incertezza e di malinconia che lo aveva
sempre caratterizzato come persona, in cerca di sicurezze sebbene già divenuto un ‘idolo’
del popolo russo. «[...] S e questo tormento, moltiplicato ogni giorno, è, Signore, una prova mandata
giù da te, [...] legami alle comete, come alle code dei cavalli, trascinami, squarciandomi sulle punte
delle stelle. Però, ascolta! Portati via la maledetta, che m’hai comandato d’amare! Miglia di strade i
miei passi calpestano. Dove andrò a nascondere il mio inferno? Da quale Hoffmann celeste sei stata
, dedicato ad un amore finito, disperato, maledetto,
concepita, maledetta?», Il Flauto di Vertebre, I
un continuo travaglio, questo poema straziante del 1916 mostra il lato più travagliato
dell’anima del poeta di Bagdadi, il cui dolore sublima in poesia erompendo come un
fiotto di sangue da una ferita sempre aperta; l’inquietudine del poeta lo porterà, nel 1930, a
meno di quaranta anni, a suicidarsi a causa di un amore non ricambiato e di una censura
statale sempre più assidua, sparandosi un colpo al cuore, lasciando un famoso biglietto-
suicida, le cui parole sono rimaste nella storia (“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per
favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. [...] Come si dice, l'incidente è chiuso. La
– la poesia “A
barca dell'amore si è spezzata contro la v