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Sintesi
Introduzione Sguardo attraverso l'obiettivo, tesina


Una fotografia è una immagine ottenuta tramite un processo di registrazione permanente e
statica delle emanazioni luminose di oggetti presenti nel mondo fisico, selezionate e proiettate
da un sistema ottico su una superficie fotosensibile: emulsione chimica per la fotografia
fotochimica, cioè quella tradizionale dalle origini ai giorni nostri, sensore elettronico per la
fotografia elettronica, oggi digitale

Collegamenti

Introduzione Sguardo attraverso l'obiettivo, tesina


Fisica - Elettromagnetismo e Ottica
Chimica - Isomeria Ottica e Polarizzazione
Matematica - Serie di Fourier
Informatica - Computer Graphics e Equazione di Rendering
Arte - Land Art
Letteratura - Verismo e Verga
Estratto del documento

7

Liceo Scientifico “P. Levi”

a. s. 2014-2015

S

E SAME DI TATO

Ingrandimento

Formula approssimata

La formula relativa all’ingrandimento per un obiettivo fotografico di focale

‘f’ quando fotografa un oggetto a distanza ‘S ’ è:

o

=

Maggiore è la focale della lente e maggiore sarà l’ingrandimento.

Ingrandimento e sensore

La relazione

L’immagine fotografica deve formarsi su un negativo o un CCD di dimensione fissa: maggiore è

l’ingrandimento e minore sarà il campo di visione inquadrato. Mentre le dimensioni di un

oggetto su di un negativo dipendono esclusivamente dalla focale di un obiettivo, l’angolo di

campo inquadrato dipende invece dalle dimensioni del negativo. Sia α l’angolo di campo:

obiettivi di corta focale sono quelli che hanno α ≥ 65 e obiettivi di lunga focale quelli per cui α ≤

°

35 .

°

Si definisce talvolta una “focale normale”, cioè quella che rende la prospettiva la più vicina

possibile alla visione umana. In genere si fissa tale valore come α = 53°. Nel caso del formato 35

mm o di una macchina digitale in cui il sensore misuri 24x36 mm si possono trovare le relazioni di

questa tabella.

f (mm) α◦

28 75

50 47

105 23

135 18

300 8

Tabella: Corrispondenza tra focale e angolo di campo per il formato 24x36

La pellicola “classica” 7 8

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La pellicola più utilizzata all’epoca della fotografia analogica era quella nel formato 24X36

millimetri. Essa `e detta anche 35 millimetri,

mi poiché questa è la misura di un lato tenendo conto

anche della parte con i buchi per l’aggancio della pellicola

Dalla pellicola ai sensori

Un passaggio epocale

Al giorno d’oggi è sempre più evidente il passaggio da pellicola a sensore digitale, al punto che

la foto di inizio mandato del Presidente degli Stati Uniti Obama è stata la prima della storia ad

essere stata realizzata utilizzando un sensore digitale

A differenza della pellicola, in cui il formato 24X36 aveva assunto il

significato di uno “standard”, nei sensori digitali vi sono molte

dimensioni

ni diverse. Al momento attuale le macchine aventi un

sensore di dimensioni 24X36 sono 5, anche se è prevedibile che

aumentino sempre più. Tutte le altre macchine digitali hanno sensori

di dimensioni minori. 8 9

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Se il sensore è più piccolo l’area inquadrata sarà minore, come se stessimo utilizzando un

obiettivo di focale maggiore: ma le dimensioni dell’oggetto sul sensore non cambiano.

Il Diaframma

A cosa serve

Il diaframma è un foro che serve a far passare la luce che formerà

former

à l’immagine. Più aperto è il

diaframma e maggiore sarà

à la luce che arriverà sul sensore.

N f

L’apertura relativa di un obiettivo è data dal rapporto tra la focale e il diametro del

D:

diaframma =

Esempio:

: un obiettivo con diametro di 2.5 cm e con focale di 100 mm ha un’apertura relativa di

N = 10/2.5 = 4. In genere si tende a scrivere tale valore come f-numero:

numero: f/4. Più piccolo l’f-

numero e più aperto l’obiettivo. 9 10

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Gli f/numero: loro significato

I numeri che compaiono sulla ghiera del diaframma sembrano essere scelti a caso: 2.8 4 5.6 8 11

16 22 sono selezionati in modo tale che passando da un numero a quello immediatamente

In realtà

inferiore

feriore l’area del diaframma raddoppia.

La messa a fuoco

Limiti dell’obiettivo

Un obiettivo riesce a mettere a fuoco (cioè a creare un’immagine puntiforme) solo un piano a

una distanza data. Ogni punto oggetto

ogg etto a un’altra distanza formerà un’immagine cir

circolare

detta “disco di confusione”

Il disco di minima confusione

Non è necessario che

e l’immagine sia perfettamente a fuoco per essere accettabile. Basta che

l’immagine di un punto sia un disco sufficientemente piccolo, così da essere

sere visto come un

punto. Cioè l’immagine

ine di un punto deve essere più piccola di un “disco di minima confusione”.

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In queste condizioni diremo che l’immagine è nitida. Per il tradizionale formato 24X36 nelle

normali condizioni di visione il disco di minima confusione ha un diametro di circa 0.03 mm.

Profondità di campo

La profondità di campo è quella distanza (misurata sull’asse della lente) per cui si ha

un’immagine sufficientemente nitida. A parità di distanza dell’oggetto dall’obiettivo, più chiuso

è il diaframma e minore sarà la dimensione del disco di confusione.

Alcune considerazioni che nascono dall’esperienza

• La profondità di campo aumenta chiudendo il diaframma

• La profondità di campo è maggiore per le focali corte rispetto alle focali lunghe

• La profondità di campo aumenta all’aumentare della distanza del soggetto

Tali condizioni possono essere anche viste sotto forma matematica

Punto prossimo e punto remoto

Punto Prossimo

E` il punto più vicino all’obiettivo che può ancora essere considerato nitido. Lo indicheremo con

P

P

Punto Remoto

E` il punto più lontano dall’obiettivo che può ancora essere considerato nitido. Lo indicheremo

P

con R

Formule matematiche

Punto prossimo = +

Punto remoto = − f N

Dove ‘u’ è la distanza su cui è messo a fuoco l’obiettivo, la focale dell’obiettivo, l’f/numero e

C il diametro del disco di minima confusione.

Dalle formule del punto prossimo e punto remoto è possibile ricavare la formula per la

profondità di campo T = +

Esiste anche una formula approssimata di più semplice lettura

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Profondità di campo

Dipendenza dalla focale

Dipendenza dall’apertura del diaframma

Dipendenza dalla distanza del soggetto 12 13

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La Fisica della Fotografia

Dall’Ottica al Digitale

L'ottica

AlHazen e l’origine dell’Ottica Moderna

Alhazen, Abū al-Ḥasan ibn al-Ḥasan ibn al-Haytham

o (in arabo: ) (Bassora, 965 circa –

م ا ن ا

ʿAlī

Il Cairo, 1039), è stato un medico, filosofo, matematico, fisico ed astronomo arabo. Fu

sicuramente uno dei più importanti e geniali scienziati del mondo islamico (ed in genere del

principio del secondo millennio). Inoltre è considerato l'iniziatore dell'ottica moderna. Fu

soprattutto nell'ottica che le sue ricerche produssero risultati d'eccezione. Studiando l'ottica

euclidea, enunciò teorie sulla prospettiva, della quale focalizzò il suo interesse sui tre punti

fondamentali (il punto di vista, la parte visibile dell'oggetto e l'illuminazione), riformulando i

modelli geometrici che ne descrivevano le relazioni.

Demolizione delle vecchie teorie sull'ottica In epoche successive sarebbe stato considerato il

maggior esponente della "scuola araba" dell'ottica anche perché i suoi studi furono di notevole

influenza nella demolizione delle vecchie teorie sulla natura e sulla diffusione

delle immagini visive: in antico, con i primi studi si riteneva che la luce fosse una soggettiva (e

per questo relativa) elaborazione della psiche umana.

In seguito si era cominciato a parlare di "scorze" (o "èidola") sostenendo che particelle di ogni

oggetto osservato (sorta di "ombre" che ne riproducevano la forma ed i colori) si staccassero

dall'oggetto per raggiungere l'occhio umano (sebbene questa teoria non potesse spiegare

l'accesso all'occhio delle "ombre" di grandi montagne se non supponendo una misteriosa

progressiva riduzione dimensionale in corso di tragitto).

A questa teoria seguì quella dei "raggi visuali", per la quale l'analisi dell'assunzione

delle informazioni visive da parte del cieco, che le ricava con un bastone, avrebbe dovuto

spiegare che l'occhio sarebbe stato dotato di una sorta di "bastoni" coi quali percuotere il

mondo visibile e ricavarne le informazioni ottiche. La teoria era esposta alle argomentazioni di

chi eccepiva che questa non avrebbe spiegato la mancanza di visione notturna (o in assenza

di luce), non avrebbe spiegato quella che oggi si conosce come rifrazione e, soprattutto, non

spiegava come potesse fare l'occhio umano a "toccare" coi suoi supposti bastoncini sensoriali

oggetti lontanissimi come il Sole e le stelle.

La scuola araba delle scorzettine dell'ottica Della scuola araba dell'ottica, Alhazen è in genere

considerato il primo e massimo, geniale, esponente. Fu grazie ai suoi studi che si poterono

formulare nuove ipotesi, fresche anche per mancanza di inerzie culturali, e che lo studio di

queste materie ebbe la possibilità di costituirsi in "scuola", destinata a formare un numero (per i

tempi assai rilevante) di studiosi specialistici.

Un elemento che attrasse la sua attenzione fu la persistenza delle immagini retinee, insieme alla

sensazione dolorosa procurata dall'osservazione di fonti di intensa luminosità, come il Sole. Se

infatti, fu il suo ragionamento, davvero fosse stato l'occhio a "cercare" con raggi o bastoncini

l'oggetto, non vi sarebbe potuta essere persistenza delle immagini durante la pur rapida

chiusura delle palpebre (mentre questo rapido movimento è comunemente impercettibile

proprio per la persistenza dell'immagine - oggi sappiamo - sul fondo della retina). Inoltre, se

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l'occhio, organo di senso, davvero gestisse autonomamente le informazioni visive, non

"toccherebbe" lo "scottante" Sole e nessun'altra fonte fastidiosa, non procurandosi dolore

né abbacinamento.

Demolita così la teoria dei raggi visuali, Alhazen si rifece a quella delle scorze, supponendo

stavolta che l'acquisizione delle informazioni luminose fosse sì dovuta ad un agente esterno, ma

che questo non rilasciasse "ombre", viaggianti in forma di "scorze" appositamente in direzione

dell'occhio dell'osservatore, bensì delle "scorzettine", emesse dall'oggetto in tutte le direzioni. Per

questo, dovette affrontare una ipotesi di scomposizione rudimentalmente particellare di

ciascuno degli oggetti osservati, ed attribuire a ciascuna infinitesima componente di ciascun

oggetto la capacità di emissione di scorzettine in ogni direzione.

Le "scorzettine" La genialità della scomposizione particellare consisteva nella prima monizione

(elaborata in forma, si noti, squisitamente logica) di un embrione della teoria corpuscolare: da

ciascun oggetto, anzi da ciascuna delle piccolissime parti componenti l'oggetto si sarebbero

staccate "informazioni luminose" (scorzettine) che avrebbero raggiunto l'occhio, attraversato

il cristallino, penetrata la pupilla, attraversato il globo oculare fermandosi sul fondo. Per ogni

oggetto, poi, per ogni particella di questo, di tutte le scorzettine emesse in tutte le direzioni, una

sola avrebbe potuto colpire la cornea normalmente (cioè, secondo una traiettoria rettilinea

perpendicolare al piano della cornea), attraversarlo e giungere a destinazione. L'unicità della

scorzettina evitava la duplicazione di immagini e la confusione sulla retina di ciascuna particella,

consentendo una visione ordinata.

A questa teoria lo scienziato aggiungeva per corollario l'ipotesi che vi fossero due tipi di

scorzettine, alcune "normali" (secondanti appieno la sua teoria) ed altre "irregolari". Mentre le

normali avrebbero raggiunto regolarmente la retina procedendo in linea retta e

con velocità finita, le altre sarebbero state fermate dalla rifrazione e respinte, negando la

visione di talune parti di oggetti. Della rifrazione andava del resto abbozzando rudimenti teorici,

avendo effettuato esperimenti su oggetti trasparenti (vetrosi) di forma sferica o cilindrica, e

della riflessione e dell'assorbimento stava per dedicarsi a studi più profondi.

Sulla retina, le scorzettine regolari (una per ciascuna delle componenti particellari dell'oggetto)

si sarebbero fermate a fornire l'informazione visiva che, insieme alle altre scorzettine regolari

giunte a destinazione, avrebbe consentito di ricostruire una informazione generale sull'oggetto

che le aveva emesse. L'immagine sarebbe dunque stata il risultato della ricezione-percezione

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