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Storia dell'Arte - Edvard Munch
Italiano - Dino Buzzati
Nella filosofia: Søren Kierkegaard
Gli animali agiscono seguendo il proprio istinto, tendono a soddisfare le loro
necessità primarie in modo naturale, come se ogni cosa fosse predisposta. I loro
comportamenti non sono frutto di un apprendimento, né di una scelta personale, sono
automatici. Posti dinanzi ad una determinata situazione, gli animali non saranno mai
in grado di scorgere l’infinito mare di possibilità che li circonda. Possibilità che
l’essere umano, dotato di intelletto e di una coscienza, è in grado di percepire. A
differenza dell’animale, l’uomo pensa, ragiona e studia le situazioni che la vita
quotidiana gli pone ed ha la capacità di compiere scelte consapevoli, non dettate da
una predisposizione genetica. L’essere umano quindi è conscio del proprio io. Ciò
significa che egli è in grado di provare sentimenti, i quali possono condizionarne
l’esistenza. Tra tutti, uno di quelli che influenza maggiormente la vita degli uomini, è
l’angoscia. Essa è strettamente collegata alla condizione umana. Può mancare, o
essere presente in grado minore, in quei momenti in cui l’uomo si rende simile agli
animali, come ad esempio in condizioni di eccessiva felicità. Il fatto che nella lingua
tedesca le parole “Ansia” e “Angoscia” si esprimano entrambe con la parola “Angst”
è particolare. Esse sono unite da un forte filo conduttore, in quanto l’angoscia si
manifesta proprio come un forte stato d’ansia e di tristezza o, come era definito nel
periodo romantico, “un dolore che preme il cuore”. Questo stato d’ansia è provocato
da un senso d’incertezza verso il futuro, che sia remoto o imminente. Futuro, quello
dell’uomo, che si costruisce in base alle scelte compiute dall’individuo stesso.
Il filosofo danese Søren Kierkegaard, nella sua opera “Il Concetto dell’Angoscia”
scriveva:
Si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso è preso dalla
vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso: perché deve
guardarsi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà
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L’esistenza umana è caratterizzata dalla libertà, una possibilità assoluta, ed è proprio
quando l’individuo scopre che tutto è possibile che subentra l’angoscia.
Poiché, quando tutto è possibile, è come se nulla lo fosse. Agli occhi umani, ogni
possibilità favorevole è annientata da infinite possibilità sfavorevoli, e ciò rende
l’angoscia praticamente insuperabile. Un individuo diventa vittima dell’angoscia
quando colma la sua “ignoranza”, cioè quando viene a conoscenza delle infinite
possibilità. Secondo Kierkegaard ciò è strettamente collegato al concetto di “peccato”
e l’angoscia è il fondamento del peccato originale. Adamo è “innocente” finché resta
“ignorante”, cioè finché non conosce le proprie infinite possibilità. Ma l’elemento che
determinerà la sua caduta è già presente nell’ignoranza di Adamo. Questo elemento
non è identificabile né con il turbamento, né con la calma interiore. In realtà è
proprio questo “niente” a generare l’angoscia.
Il divieto divino rende inquieto Adamo perché sveglia in lui la possibilità della libertà.
Ciò che si offriva all’innocenza come il niente dell’angoscia è ora entrato in lui, e qui
ancora resta un niente: l’angosciante possibilità di potere. Quanto a ciò che può, egli
non ne ha nessuna idea, altrimenti sarebbe presupposto ciò che ne segue, cioè la
differenza tra il bene e il male. Non vi è in Adamo che la possibilità di potere, come una
forma superiore d’ignoranza, come un’espressione superiore di angoscia, giacché in
questo grado più alto essa è e non è, egli l’ama e la fugge. (“Il Concetto dell’Angoscia”)
Una volta posto il divieto divino, Adamo è invaso da una possibilità di libertà. Egli
però non è consapevole delle conseguenze che la sua scelta può comportare, è
semplicemente spinto dal puro sentimento della possibilità, che si identifica con
l’angoscia. A differenza di Adamo, Kierkegaard sente gravare su di sé il peso della
scelta, poiché è consapevole delle conseguenze che da essa possono derivare. Ma ciò
che contraddistingue l’animo del filosofo danese è l’indecisione permanente, cioè un
equilibrio instabile tra le opposte alternative che ogni scelta comporterebbe. Tale
equilibro è detto dal filosofo stesso “punto zero”. Egli vive nell’impossibilità di
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trovare un compito preciso nella propria vita. Ciò conferisce a Kierkegaard un
atteggiamento contemplativo, rivolto a chiarire le possibilità fondamentali che si
offrono all’uomo, cioè quegli stadi della vita i quali costituiscono le alternative
fondamentali dell’esistenza, tra le quali l’individuo è indotto a scegliere.
Kierkegaard analizza tali stadi nell’opera “Aut-Aut” identificandone due: la vita
estetica e la vita morale. Ogni stadio è indipendente dall’altro e l’uno esclude l’altro:
tutto sta nelle scelte compiute dall’individuo, le quali lo porteranno ad adottarne uno.
Colui che intraprende la vita estetica è portato a cercare nell’esistenza ciò che più è
interessante, eliminando dal suo mondo ciò che invece è banale. Bisogna specificare
tuttavia che chi assume questo modello di vita rinuncia di fatto alla scelta.
Ciononostante la rinuncia alla scelta è di per sé una scelta, in quanto egli sceglie di
non scegliere. L’esteta non tollera la ripetizione, tipica di una vita regolare, e cerca
sempre esperienze diverse. Ma, non essendo possibile, egli si rende conto che la sua
vita diventa sempre più ripetitiva e cade in quella monotonia dalla quale voleva
fuggire. L’esteta è forse uno dei personaggi che troviamo con maggiore frequenza
nelle opere letterarie o, più recentemente, in quelle cinematografiche. Uno degli
esempi più recenti è sicuramente Jep Gambardella. Protagonista del film “La Grande
Bellezza”, scritto e diretto da Paolo Sorrentino, Jep fa parte di una cerchia di artisti e
intellettuali costantemente alla ricerca del piacere e dell’estremo in generale. Le
vicende che hanno portato Jep da Napoli a Roma evidenziano i caratteri tipici della
vita estetica. I protagonisti del film si muovono in modo prevedibile in un orizzonte
bloccato, facendo della monotonia uno dei temi principali della pellicola. Nelle loro
vite incombe la Disperazione. Sarà lo stesso Jep a mettere sotto gli occhi di tutti la
realtà della loro situazione, stremato dalle parole di Federica, che cerca ancora di
nascondere con le menzogne una vita ormai distrutta. Durante gli incontri del gruppo
la donna esalta la propria vocazione civile, sostenendo che questa si manifesta
nell’impegno nel lavoro come scrittrice e nei rapporti famigliari, soprattutto nei
confronti dei figli, per i quali ritiene di essere sempre presente e di crescere nel
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migliore dei modi. Ma Jep sa che ciò non corrisponde a verità e, dopo aver ricordato
la verità dei fatti a Federica, riporta alla mente dell’intero gruppo quella che è la loro
situazione:
Siamo tutti sull’orlo della disperazione: non abbiamo altro rimedio che guardarci in
faccia, farci compagnia, pigliarci un po’ in giro.. o no?
La noia e la disperazione entrano nella vita dell’esteta, portando con loro la
possibilità di poter scegliere, di lasciare dietro di sé l’esperienza della vita estatica e
riagganciarsi con un “salto” alla vita etica. Kierkegaard tratta della Disperazione
nell’opera “La Malattia Mortale”, identificandola come l’insuperabile incapacità da
parte dell’io di risolvere la problematicità del suo rapporto con l’infinito. Mentre
l’angoscia nasce dalla relazione tra l’uomo e il mondo, la Disperazione s’inquadra nel
rapporto tra l’uomo e la sua interiorità. L’io ha due sole possibilità: volere essere se
stesso o non volerlo. Se vuole essere se stesso, non giungerà mai all’equilibrio e al
riposo, in quanto l’Io è finito e quindi insufficiente a se stesso. Ugualmente è
impossibile per l’Io non voler essere se stesso, perché è impossibile rompere il
proprio rapporto con sé. In entrambi i casi egli vivrà nella Disperazione, che è
malattia mortale. Essa non è soltanto una sindrome che conduce alla morte, bensì,
radicalmente, la coincidenza di vita e morte: “è vivere, la morte dell’io”.
Lasciandosi pervadere dalla Disperazione, l’esteta può decidere di scegliere,
adattandosi alla normalità, e iniziare a vivere seguendo le regole della morale.
L’ombra della sua esperienza passata e della Disperazione stessa non lo
abbandoneranno mai. Egli giunge al pentimento riconoscendo i propri peccati, ma
allo stesso tempo è tormentato dal bisogno di un’esperienza più profonda rispetto a
quella tranquilla tipica di un normale marito o impiegato. L’unico modo per vincere
questa situazione, liberandosi quasi del tutto dall’Angoscia e dalla Disperazione, è
aprirsi totalmente a Dio. Quest’apertura genera un nuovo stadio, quello religioso, il
quale è trattato singolarmente nell’opera “Timore e tremore”. In questo caso l’uomo
sceglie di seguire i comandi divini anche a costo di infrangere le norme morali, come
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succede ad esempio al personaggio biblico di Abramo. Il distacco dai valori morali al
cospetto del verbo divino porta inevitabilmente alla solitudine, di fronte ad una scelta
che non può essere condivisa approvata da nessuno.
Nell’individuo cresce l’incertezza, poiché egli non ha i mezzi per dimostrare di
essere veramente colui al quale Dio ha affidato un compito tale da poter giustificare
la sospensione dell’etica. Per Kierkegaard la risposta risiede proprio nella forza con
cui questa domanda si propone all'attenzione del religioso e nell'angoscia che causa in
lui: la fede è infatti certezza angosciosa, l'angoscia che si rende certa di sé e di un
nascosto rapporto con Dio. L'uomo è posto di fronte a un bivio: credere o non
credere. Da un lato è lui che deve scegliere, dall'altro ogni sua iniziativa è esclusa
perché Dio è tutto e da lui deriva anche la fede. Questa situazione paradossale
costituisce l’essenza stessa dell’esistenza umana, caratterizzata dalla necessità e, allo
stesso tempo, dall’impossibilità di decidere, dal dubbio e dall’angoscia.
Nella pittura: Edvard Munch
Attraverso il pensiero filosofico di Kierkegaard abbiamo visto come ogni stadio
dell’esistenza sia influenzato dall’Angoscia. Pur aggrappandosi alla fede, come
ultimo tentativo, l’uomo non potrà mai liberarsene del tutto. Quello che lo
accompagnerà alla morte, passando per ogni istante di vita, sarà un viaggio che egli
condurrà fianco a fianco con questo sentimento. Ciò ha fatto sì che non soltanto
filosofi, ma anche artisti di vario genere abbiano trattato quest’argomento, cercando
di liberarsi dalla propria angoscia rappresentandola nelle proprie opere. Essi hanno
tentato di esprimere la loro interiorità attraverso arti visive come la pittura, ma anche
attraverso la musica o la letteratura. La ricerca filosofica di Kierkegaard ed il
pensiero esistenzialista dei primi anni del ‘900 hanno influenzato la formazione di
questi artisti. Uno in particolare è Edvard Munch, la cui produzione artistica, come
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gli studi filosofici di Kierkegaard, è il prodotto di un’esistenza dolorosa, provocata
soprattutto da lutti familiari. Alcune delle opere dell’artista norvegese sembrano
trascrizioni pittoriche delle penetranti analisi dell’angoscia e della disperazione svolte
dal filosofo danese ne “Il Concetto dell’Angoscia” e nella “Malattia Mortale”.
Il dipinto Angoscia, del 1894, ne è un chiaro
esempio. I cromatismi violenti e le linee
sinuose e dense di questo quadro, esprimono in
maniera mirabile i “colori” di quella stessa
angoscia che Kierkagaard esplora quale
“tonalità” dell’animo umano. I volti lividi,
raffigurati da Munch, esprimono instabilità,
smarrimento, dubbio di fronte al mondo:
esattamente quello stato d’animo che, secondo
l’autore dell’opera “Il Concetto dell’Angoscia”,
non si identifica con la paura, la quale si