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Introduzione Selfie ergo sum - Tesina
Il titolo della mia tesina proviene da una citazione del giornalista Raffale Mastrolonardo, che afferma: "Mi auto-fotografo, dunque sono. Nell’era della connessione a Internet permanente, per avere la certezza della propria esistenza, non c’è bisogno di ricorrere ai ragionamenti di Cartesio e al suo “cogito ergo sum”. Basta tirare fuori lo smartphone, puntarlo su se stessi, scattare una foto e poi pubblicare il risultato sul web. Saranno “mi piace” e “commenti” a dirci se facciamo o no parte di questo mondo molto più in fretta del dubbio iperbolico del filosofo secentesco".
Il fenomeno del “Selfie” è diventato famoso ormai in quasi tutto il mondo. Ho scelto di approfondire questo argomento nella mia tesina di maturità dopoché mi sono resa conto che ciò incide effettivamente sulla vita e sulla personalità delle persone, che siano bambini o adulti molto maturi, e ho deciso di andare a ricercare le cause profonde sul perché le persone si scattano un selfie, analizzando le possibili caratteristiche psicologiche.
Il selfie, termine derivato dalla lingua inglese, è una forma di autoritratto fotografico realizzata principalmente attraverso una fotocamera digitale compatta, uno smartphone, un tablet o una webcam puntati verso sé stessi o verso uno specchio. La funzione tipica è la condivisione dell'immagine sui social network. Proprio questa dimensione social e l'assenza di particolarità artistiche, distinguono il selfie dal tradizionale autoritratto fotografico. La nascita e la diffusione a partire dai primi anni duemila di piattaforme quali MySpace, Facebook e Instagram, e l'introduzione nel 2010 della telecamera frontale nell'iPhone 4 hanno reso il fenomeno particolarmente popolare. Nell'agosto 2013 il termine è entrato a far parte dell'Oxford English Dictionary, mentre nell'autunno del 2014 nel vocabolario Zingarelli in Italia. La parola selfie ha avuto una diffusione in costante crescita durante l'arco dell'ultimo anno qualificabile nell’ordine del 17.000 %. I selfie sono le immagini più comuni presenti sulle piattaforme di social network di ogni nazione, infatti solo su Instagram sono ne presenti circa 120 milioni. Negli ultimi anni perciò psicologi, sociologi, antropologi, esperti di comunicazione e delle nuove tecnologie si sono adoperati per studiare il nuovo fenomeno, scoprendo un massiccio cambiamento nella società odierna.
Collegamenti
Selfie ergo sum
Italiano -
Pirandello
.Filosofia -
Schopenhauer
.Ma il primo selfie più noto però è datato 1913: vediamo una bambina davanti allo
specchio che tiene tra le mani una modernissima (per l’epoca) macchina fotografica.
La lettera di accompagnamento di questa foto indirizzata ad un amico dice “fare
questa foto è stato molto difficile perché mi tremavano le mani”. La bambina ritratta
nella foto è la granduchessa Anastasia Romanov, la figlia minore dell’ultimo zar
di Russia Nicola II.
La pratica dell'autoscatto o dell'autoritratto non è proprio una "tecnica" moderna,
basta ricordare artisti storici come Van Gogh, o Frida Kahlo che hanno dipinto il
proprio volto su tela.
Con i decenni successivi l’uomo ha sempre trovato diversi modi per raccontare sé
stesso, per esprimere la propria identità o la sua storia. Questa nuova modalità lo
permette, ma l’abuso di questo mezzo porta i soggetti ad evidenziare spesso crisi
d’identità e fragilità. A livello sociologico la nuova generazione, definita “digitale”,
mantiene il contatto con l’altro e con le relazioni esterne per la maggior parte in modo
virtuale, scatenando in ogni singolo soggetto una vulnerabilità rispetto al mondo. Per
molti studiosi i ragazzi ricercano appunto nei loro selfie la propria identità, ma queste
rappresentazioni dell’io possono essere interpretate dagli altri in modi differenti e
portano il soggetto della foto a cambiare la propria personalità in base al volere dei
propri “fans” o “followers”, ed a non essere più sé stessi. È diverso il selfie invece
per chi lo utilizza con il puro scopo di apparire, attraverso foto modificate grazie a
tecniche particolari di fotoritocchi come ad esempio Photoshop. Ciò che molti
psicologi hanno accumunato a tutti è il fattore narcisismo, l’amore verso sé stessi che
li spinge ad un continuo bisogno di mostrarsi. Chi è affetto da narcisismo, spiegano
gli esperti, non è capace di empatia, ed è guidato da una valutazione di sé non
realistica. Si sente speciale, unico, eccezionale, sopra ogni norma, con ideali e
ambizioni impossibili. Quelli con i più alti punteggi nelle scale di valutazione del
narcisismo, sono proprio coloro che aggiornano frequentemente il proprio stato,
postano fotografie di sé e pubblicano frasi finalizzate a glorificarli. La condivisione
sui social però trasforma la visione narcisistica in un prodotto per promuovere sé
stessi in ricerca continua di approvazione e consensi (i così detti “like”). Per alcuni
dunque il selfie è tutto il contrario del narcisismo. Ovvero in linea con la tradizione, il
narciso disdegna il contatto con le persone in quanto egli stesso è il proprio centro
dell’universo. Perciò è più corretto definire ogni tipo di condivisione social come una
gara a chi è migliore, trasformando il corpo in un oggetto da valutare e collocare. Ad
esempio molti autoscatti di ragazzine evidenziano questa oggettività, forse per
sentirsi più grandi, forse per sentirsi apprezzate, forse per avere un vasto numero di
amici, senza accorgersi che spesso dietro lo “schermo” si è sole. In definitiva, gli
amici digitali, quelli non veri, riescono a vedere solo una maschera delle persone.
Sarà appunto quest’ultimo passaggio oggetto di discussione.
Trattando in definitiva di crisi d’identità e rischio di
incomunicabilità, è possibile fare un confronto con il
noto drammaturgo, scrittore e poeta Luigi
Pirandello. Egli introduce una teoria, così detta
“delle maschere”, che spiega attraverso la metafora
della maschera come l’uomo si nasconda dietro una
facciata imposta dalla società e dai suoi valori,
oppure dalla famiglia. Si oppone a questa maschera la “persona”, ovvero il soggetto
integro che rappresenta ciò che è realmente, indipendentemente dalla forma della
società. La maschera rappresenta l’uomo che, vivendo una realtà molteplice, mostra
solo alcune parti di sé stesso e quindi mai la sua intera vera essenza. L’intento di
Pirandello è quello di indagare sulla natura dell’uomo per spingere a cercare la
propria personalità definita. Questa ricerca risulterà al limite dell’impossibile e la
tentazione di indossare la maschera diventerà sempre più forte, poiché offre stabilità e
rifugio dai giudizi degli altri, della società. Il soggetto, costretto a vivere nella forma,
che blocca la spinta delle pulsioni vitali, si riduce a un personaggio che recita una
parte che spesso egli stesso si impone attraverso i propri ideali. Questa teoria si
presenta, per esempio, nella sua opera “Uno, nessuno e centomila” nonché nel
significato di questo titolo:
· Uno: perché una è la personalità che l’uomo pensa di avere
· Centomila: perché l’uomo nasconde dietro la maschera tante personalità quante
sono le persone che lo giudicano
· Nessuno: perché, in realtà, l’uomo non ne possiede nessuna.
Il protagonista del romanzo è Vito Moscarda, il quale partendo dall’improvvisa
consapevolezza di non conoscere il suo stesso corpo (naso, orecchie, mani...), inizia
un percorso alla ricerca della propria verità soggettiva, in preda dunque a una sorta di
crisi d’identità. Moscarda si ritrova a cercarsi nelle immagini riflesse negli specchi,
nelle vetrine dei negozi, a chiedere agli altri come lo vedono (poiché sono proprio gli
altri gli unici che in genere ci guardano), e il desiderio del protagonista è quello di
conoscere l’immagine che di lui hanno per sapere realmente com’è.
La connessione con il fenomeno del selfie si ritrova proprio nell'autoscatto (come atto
d'introspezione per cercare di vederci come gli altri ci vedono) e nella successiva
ricerca della propria immagine (da condividere in rete) per rappresentarci. Il
Moscarda cerca di vedere e conoscere la sua identità, conoscere quell'estraneo che lui
stesso è per se stesso, attraverso occhi altrui. Lo stesso vale per molti ragazzi d’oggi
che continuando a vivere dietro una maschera non riescono a trovare la loro
personalità, che li spinge a continui atti di espressione quali selfie.
Un’altra opera di Pirandello in cui ritiene che l’uomo non possa esprimere la propria
verità perché, forse, essa stessa non esiste, è “Il fu Mattia Pascal”. La vicenda
racconta di un uomo che, creduto morto, ha la possibilità di lasciare la sua vecchia
vita, la forma, per dedicarsene ad un’altra più libera. Si ritroverà imprigionato
ugualmente, evidenziando ancora una volta il dilemma pirandelliano sulla vera
identità dell’uomo. Pascal ha dunque il coraggio di evadere dall’ordinario, ma, come
per l’uomo moderno, non può fuggire da sé stesso, anche se viene mascherato dalla
forma della vita o da un obbiettivo fotografico.
Pirandello fu anche un appassionato lettore di Schopenhauer, che influenzò in parte il
suo pensiero filosofico. Considerando l’aspetto del selfie come pura apparenza e
inganno è possibile fare un confronto con “Il mondo come volontà e
rappresentazione” di Arthur Schopenhauer. In questa sua opera il filosofo distingue il
soggetto rappresentante e l’oggetto rappresentato, due aspetti fondamentali della
rappresentazione del mondo. Questo è il fenomeno, ovvero apparenza, maschera, ben
diverso dal noumeno, cioè il mondo come volontà. L’essenza di quest’ultimo è
appunto la volontà di vivere, che Schopenhauer cercherà in tutti i modi di abbattere o
almeno di sospendere. L’illusione del mondo fenomenico è posta dal velo di Maya
che cela il mondo noumenico e riesce ad afferrare la cosa in sé. La rappresentazione è
quindi ingannevole, solamente apparenza. Confrontando la filosofia di Schopenhauer
con l’analisi del fenomeno del selfie, si possono notare delle analogie circa la
modalità espressiva del soggetto, che diviene oggetto del suo autoscatto. Il soggetto
che si scatta un selfie è portato a discostarsi dalla realtà per mostrare agli altri una
persona allineata al loro volere, e per far ciò ha bisogno di un filtro, come il velo di
Maya, che rende fittizia la propria immagine col solo scopo di apparire affascinante al
mondo come rappresentazione. È molto comune oggi, con l’avvento della tecnologia,
e con l’abuso di questa, scegliere la via facile della superficialità e allontanarsi dalla
vita reale.
L’importanza di questi autoscatti è stata confermata da un’equipe di psicologi
dell’Università cattolica di Milano che ha cercato cosa si nasconde dietro un selfie,
quali sono le motivazioni che spingono allo “scatto”. Prima di tutto, per quanto
riguarda l’Italia, si riscontra una relazione più affettiva con il mezzo tecnologico
rispetto ad altri paesi, da quando lo smartphone e i social sono diventati l’equivalente
virtuale dei luoghi di aggregazione del passato. Gli Italiani si rivelano infatti un
popolo di appassionati di selfie arrivando a scattarne circa 1 milione ogni giorno. Il
fenomeno è ormai un vero e proprio trend arrivato a coinvolgere oltre il 55% degli
Italiani, che dichiara di aver scattato un selfie almeno una volta nella vita e, nel 44%
dei casi, almeno una volta nell’ultimo mese. La ricerca dell’Università ha preso in
esame 150 persone con un’età media di 32 anni (il 35% uomini, il 65% donne) e i
risultati circa le motivazioni sul perché farsi un selfie sono:
Per far ridere e divertire gli altri (39%)
Per vanità (30%)
Per raccontare un momento della propria vita (21%).
Altri giornalisti si sono interrogati sulle ragioni psicologiche per spiegare il
fenomeno del selfie, ed uno di questi è Dan Ariely che in un suo articolo sul Wall
Street Journal ne ha definite cinque:
ci serve a fermare l’attimo;
ci permette di continuare a vivere il momento;
condividiamo l’esperienza del momento con altri;
non ci preoccupiamo troppo del nostro aspetto;
lo fanno tutti.
Tutti si sono fatti un selfie almeno una volta, dal Papa ad Obama. Gli studiosi hanno
affermato che le persone che si fanno selfie, rispetto a chi non se ne fa, appaiono
significativamente più estroverse per mostrare agli altri “come ci si sente” in quel
momento, indipendentemente dal giudizio altrui. Il problema però sorge dall’analisi
effettuata dall’Università