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Introduzione Ragazzi, tesina
Ciò che mi ha spinto a condurre queste ricerche per la mia tesina di maturità è stato l'amore per i ragazzi, per la vita di ognuno di loro, per i bambini con qualche difficoltà sia a livello scolastico che famigliare, per i ragazzi adolescenti che non vedono l'ora di diventare "grandi" e per quelli che non riescono a ritagliarsi uno spazio nemmeno nel gruppo dei pari. Sono gli stessi giovani, perché con gli stessi interrogativi, dubbi e situazioni famigliari "particolari", cui duecento anni fa si è dedicato Don Bosco, quelli a cui avrebbe donato la sua stessa vita. Sono i suoi insegnamenti che dovrebbero guidare i maestri, gli educatori, i professori e tanti altri, nello svolgere il loro lavoro. Talvolta i loro compiti e le cure per i ragazzi non terminano sul luogo di lavoro perché sempre più le problematiche dei giovani riguardano un contesto esterno a quello scolastico, che difficilmente viene preso in considerazione. E' spesso al di fuori della struttura-scuola che i giovani si ritrovano abbandonati, se così vogliamo definirli, anche questa sarebbe meglio considerarla una nuova forma di abbandono. Sono deviati, insicuri, timorosi nell'affrontare il futuro, persi. Sta allora ai genitori, agli insegnanti a trasmettere quei valori, quelle certezze, quel modus vivendi (implicante il rispetto, l'educazione, la solidarietà e l'interesse verso il prossimo) che stanno svanendo sempre di più. Due secoli diversi, ognuno con le sue caratteristiche positive e negative, ognuno con le proprie ideologie e correnti di pensiero... eppure le condizioni non ottimali alla crescita dei giovani sono le stesse, o quasi. La condizione di abbandono in cui essi versano è il frutto di entrambe le epoche, tuttavia ciò si manifesta sotto spoglie diverse. La tesina permette anche vari collegamenti interdisciplinari.
Collegamenti
Ragazzi, tesina
Storia: Risorgimento, Unità d'Italia.
Pedagogia e sociologia: Don Bosco.
Storia dell'arte: Il realismo.
Ma, a livello sociale, com'era veramente la situazione?
Alla vigilia dell'Unità d' Italia, si respirava un clima alquanto patriottico, molti cittadini,
anche gli stessi preti, mostravano orgogliosi la coccarda tricolore: la tenevano sul petto e
partecipavano ai festeggiamenti per lo Statuto. Gli ecclesiastici non adempivano ai loro
compiti, allontanandosi dai valori e dalle regole imposte dall'ordine a cui appartenevano.
Inoltre il governo nel 1855, emanò una legge che soppresse gli ordini religiosi.
Fra le persone coinvolte in questi tumulti e nei moti vi erano adulti e bambini, ragazzi
senza istruzione, analfabeti, che si suddividevano in bande e che scorrazzavano per le
vie senza perseguire un preciso scopo, o forse sì: quello di unirsi alle rivolte, sebbene la
maggior parte di loro non conoscesse nemmeno i motivi per cui i cittadini manifestavano.
Anche dopo il raggiungimento dell'Unità d'Italia le condizioni di vita degli abitanti del Nord
e quelle del Sud continuavano ad essere totalmente diverse.
Nelle città del Nord i cittadini s'interessavano alla politica, almeno quelli di estrazione
borghese, quindi alcuni di loro avevano accesso agli studi.
Al contrario, l'interesse principale della gente del Sud era la terra. Essi conducevano una
vita di tipo rurale, vivevano dei prodotti che coltivavano, lavoravano nelle miniere,
facevano lavori duri, faticosi, che compromettevano soprattutto l'integrità fisica.
Basti pensare alla condizione della donna: nel Settentrione e al Centro, ella poteva
dedicarsi all'estetica, alla cura del corpo, alla villeggiatura, come si può notare nell'opera
di G.Fattori, La Rotonda dei Bagni Palmieri (illustrazione 1); mentre al Sud, le donne,
come ci mostra anche un'opera di Millet (illustrazione 2) facevano le spigolatrici, stavano
nei campi, rovinandosi le mani e non solo, in poche parole... non avevano né il tempo né i
mezzi per curarsi.
Illustrazione 1: Giovanni Fattori, La rotonda dei bagni Palmieri (1866)
Illustrazione 2: Jean-François Millet, Le spigolatrici (1857)
In questa situazione complicata, dal punto di vista politico e sociale, , i giovani non
venivano in alcun modo considerati tali. Agli occhi di tutti, o quasi, erano degli uomini e
delle donne "in miniatura" che sarebbero cresciuti benissimo e senza problemi anche se
lavoravano in nelle fabbriche, nei bordelli (con riferimento alle ragazze) o nei campi,
come gli adulti.
Non possiamo sapere se qualcuno di essi se lamentasse, si opponesse al volere dei
genitori, si desse alla fuga, ma una cosa è certa: essi crescevano in solitudine, facevano
esperienze giorno dopo giorno e si creavano una morale propria che li avrebbe aiutati a
vivere.
Potevano rifarsi alla "legge del più forte" come faceva il Malpelo della novella di Giovanni
Verga, oppure potevano ubbidire e sottomettersi a tutti coloro che avevano un po' più di
potere, dimostrando una personalità debole, fragile ma alquanto utile ai "grandi", perché
riuscivano a manovrarli come desideravano.
Per questo motivo i ragazzi, i bambini facevano dei lavori che nessuno avrebbe mai
voluto fare. Erano rischiosi, in alcuni casi fatali, ma a chi doveva interessare se moriva un
bambino? Un pretino diventato Santo
Come per miracolo, in questa società dominata dall'egoismo e dall'interesse per il profitto,
ecco che cresce e si fa strada un ragazzo, un uomo, un prete: Don Bosco.
Giovanni Bosco nacque nel 1815 a Castelnuovo d'Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco)
da una donna rimasta vedova, che portava il nome di Margherita.
Ella non sapeva né leggere né scrivere, conosceva solo alcuni brani delle Scritture e i
principi fondamentali della vita cristiana, fra i quali, la totale fiducia nella Provvidenza.
Grazie a questa guida spirituale, sempre presente, Giovanni, poco più che ragazzo,
decise di prendere i voti.
Tutta la sua vita fu caratterizzata da fenomeni miracolosi: sogni profetici, visioni, capacità
di intuire i segreti dell'anima, moltiplicazione di pane, di cibo, di ostie e perfino
resurrezioni di morti.
Grazie ad un sogno, Giovanni capì che poteva cambiare delle piccole "belve" in figli di
Dio.
Negli anni di studio trovò il tempo di fare il giocoliere, il sarto, il barista, il pasticciere, il
segnapunti al tavolo da biliardo, lo scrittore e il compositore di canzoni.
Sulla scia di Filippo Neri, (che nacque precisamente 300 anni prima di Don Bosco, il 21
luglio 1515) Don Bosco, nel 1846, riprese l'idea di accogliere il grande numero dei ragazzi
in una struttura, che solitamente veniva utilizzata per pregare ed educare: l'Oratorio.
All'inizio non era un posto fisso ma solo una tettoia con un piccolo appezzamento di
terreno, la tettoia Pinardi a Valdocco (Torino).
Nel 1850 Torino fu costretta ad accogliere più di 50.000 immigrati, furono costruite case
su case, i ragazzi si offrivano per tutti i lavori possibili (ambulanti, lustrascarpe,
fiammiferai, spazzacamini, mozzi di stalla) e nessuno li proteggeva e li tutelava. Invece,
altri si davano al furto.
I primi che Don Bosco accolse sotto le proprie "ali" furono i muratori e gli scalpellini.
Altri preti incominciarono a preoccuparsi dei ragazzi abbandonati, ma alla fine si
lasciavano travolgere dai problemi politici; invece, Don Bosco, continuava a non farsi
intimorire da nessuno, si preoccupava solo e soltanto dei suoi giovani che raggruppava e
se li trascinava dietro nella continua ricerca di un luogo abbastanza capace per poterne
ospitare un numero sempre crescente.
Trovato lo spazio, l'Oratorio era sempre sorvegliato dalla polizia poiché i politici temevano
dei comportamenti rivoluzionari. Ma non c'era alcun motivo per cui preoccuparsi: i ragazzi
obbedivano ad ogni cenno di Don Bosco.
Nell'estate del 1854 a Torino, vicino all'Oratorio, scoppiò il colera. Il sindaco rivolse un
appello alla città ma non si trovavano né volontari per assistere i malati né per trasportarli
nel Lazzeretto.
Allora Don Bosco radunò tutti i ragazzi, chiese loro di dedicarsi all'assistenza degli
appestati promettendo loro che: «Se voi vi mettete tutti in grazia di Dio e non commettete
nessun peccato mortale, nessuno sarà colpito dalla peste.»
I più grandi servivano nel Lazzeretto, gli altri soccorrevano i malati e i moribondi. Ognuno
di loro aveva con sé una bottiglietta d'aceto per potersi lavare le mani dopo aver toccato i
malati.
A Torino ci furono 2500 appestati, 1500 morirono ma nessuno dei ragazzi di Don Bosco si
ammalò.
Don Bosco veniva considerato un pazzo, lo deridevano e lo lasciavano da solo in mezzo
a più di cinquecento ragazzi, per fortuna "il loro affetto e la loro obbedienza toccavano
vertici incredibili". Nonostante il grande numero di giovani, egli s'interessava ad ognuno di
loro. Molte voci a Torino affermavano che quel pretino era come in prigione, ma non si
rendevano conto che egli "era prigioniero", ma in mezzo ai suoi amati ragazzi.
Purtroppo, però, un giorno Giovanni svenne, perdendo da una ferita molto sangue.
Ricevette l'estrema unzione; i suoi ragazzi lavoravano, facevano dei fioretti impegnativi
(mangiare solo pane e acqua, recitare il Rosario ogni giorno della loro vita) in cambio
della sua guarigione. L'emorragia durò a lungo, ma impensabilmente egli guarì.
A questo punto Don Bosco affermò:
«La mia vita la devo a voi. D'ora in poi, la spenderò tutta per voi. Ho promesso a Dio che
l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani. Io per voi studio, per voi
lavoro, per voi vivo, per voi sono anche disposto a dare la vita. Fate conto, quando io
sono, sono tutto per voi, giorno e notte, mattina e sera, in qualunque momento.»
E così, continuò ad occuparsi di tutti quanti loro: fondò una scuola serale, un laboratorio
per calzolai e sarti, un altro di legatoria di libri e un altro ancora di falegnameria, oltre ad
una tipografia e un'officina di fabbro ferraio.
Adesso i suoi amati ragazzi potevano avere anche un luogo in cui lavorare.
A Giovanni Bosco la politica non interessava, egli non si schierò mai dalla parte di un
partito, semplicemente, stava col Papa, faceva "la politica del Pater Noster" e nel
momento in cui vedeva il bisogno di fare qualcosa, interveniva. Ma interveniva su uomini
concreti.
Sostanzialmente l'Oratorio era Don Bosco stesso, la sua persona, il suo stile, la sua
energia, ma soprattutto il suo metodo educativo.
Innanzitutto, l'educatore doveva dedicarsi totalmente ai propri allievi, infatti Don Bosco
esigeva che anche i direttori delle sue case stessero in mezzo ai ragazzi perché
dovevano essere percepibili, visibili, possibili da incontrare e familiari.
L'allegria era l'elemento che doveva accomunare ogni ragazzo, ogni imposizione era
abolita e la felicità del ragazzo si otteneva solo se il suo cuore era in pace con se stesso.
Ragione, religione, amorevolezza erano i tre principi chiave, su cui Don Bosco intendeva
fondare la sua opera preventiva. L'amorevolezza aveva una connotazione particolare.
Ognuno, dentro di sé, può amare molto ma riesce a combinare poco. Quindi, i giovani
non solo devono essere amati, ma è necessario che stessi sappiano di essere amati.
Per Don Bosco, non basta amare, si deve far vedere che si ama. L'amore va esternato
attraverso parole e gesti, espresso con gli occhi, con il sorriso, con il volto.
Un ragazzo che viveva nell'oratorio ha confessato che ognuno di loro "viveva quasi
esclusivamente di affetto".
Centomila giovinetti furono accolti, assistiti ed educati da Don Bosco. Grazie al sistema
preventivo, impararono la musica, le scienze letterarie e molti mestieri. Molti poterono
accedere all'università, laureandosi e diventando letterati, matematici, medici, avvocati,
farmacisti, notai, ingegneri ecc..
L'intervento di questo pretino lombardo ha influito molto sulla società, tanto che il giorno
di Pasqua del 1934 egli fu proclamato Santo.
Tutta l'Italia, sia i cattolici che gli atei, anche gli stessi politici, gli furono riconoscenti per
l'enorme attività compiuta. Il sistema preventivo
Giovanni Bosco, durante la sua vita, scrisse molte opere, alcune a carattere pedagogico,
fra queste: "Trattatello sul sistema preventivo" e "Guida dell'educatore".
Il sistema preventivo si identifica con la figura dell'educatore che "è un individuo
consacrato al bene dei suoi allievi, deve essere pronto ad affrontare ogni disturbo, ogni
fatica per conseguire il suo fine, che è la civile, morale, scientifica educazione dei suoi
allievi."
Educare, più che un lavoro, è una "forma di vita", una mis