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Italiano: Dante Alighieri (l'etimo del nome nel Paradiso); Marcel Proust (la musicalità del nome); Alessandro Manzoni e Giovanni Verga (i soprannomi); Gabriele D'Annunzio, Italo Svevo e Umberto Saba (gli pseudonimi); Luigi Pirandello; Tommaso Landolfi
Letteratura inglese: Emily Dickinson e Virginia Woolf (l'emancipazione del nome proprio)
Letteratura latina: l'agnomen e il cognomen nella latinità
Storia: storia dei nomi e dei cognomi durante e dopo il Fascismo
NOME PROPRIO E REFERENTE, UN RAPPORTO CONTROVERSO
Il nome, sia: brutto fino alla crudeltà. Moscarda. La mosca, e il dispetto del suo
aspro fastidio ronzante. Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato
civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio
nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno.
Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza
nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno -
staccato - che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà
non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.
L. Pirandello, Uno nessuno e centomila
Il nome è la particella con cui ciascuno di noi si presenta alla società e si mette in La presenza del
nome
relazione con essa, con cui è identificato nella sua singolarità e alla quale risponde.
Sancisce la nostra nascita come individui, nel momento della separazione dal
grembo materno (prima aleggia solo un “si chiamerà…”), segna l’ingresso in una
comunità civile, con l’atto di nascita, e in una comunità religiosa, con il battesimo.
Viene apposto per affermare la paternità di un’opera, per autenticare un
documento, e ciò che fisicamente resterà di noi sarà un nome su una foto sbiadita.
In qualche senso, per un processo di sovrapposizione tanto interiorizzato quanto
opinabile, noi siamo il nostro nome.
La maniera con cui il nome proprio, e il nome in generale, si lega al referente è Le teorie del
riferimento: Mill
stata dibattuta negli ultimi due secoli dai principali filosofi del linguaggio. Il primo,
sostanziale contributo si deve a Mill, responsabile della distinzione tra denotazione
e connotazione. La denotazione altro non è che il referente del nome, l’ente fisico
cui il nome rinvia. La connotazione invece è l’insieme di attributi che l’ente deve
presentare per essere referente di quel nome: perché la parola “uomo” ci denoti,
dobbiamo rispondere a particolari requisiti (ad esempio avere due braccia, due
gambe, ecc.). Secondo questa teoria, mentre il nome concreto comune ha anche
un “senso”, cioè connota delle caratteristiche del referente, il nome proprio ha solo
un “significato”: esso denota gli oggetti direttamente, senza che la loro
denotazione dipenda da qualche attributo o proprietà.
In seguito i cosiddetti “descrittivisti” si opposero alla tesi di Mill, evidenziandone Frege e Russel, il
nome proprio
alcuni aspetti problematici. Si pensi ad esempio a Espero e Fosforo, nomi che abbreviazione di
designano rispettivamente la stella della sera e la stella del mattino, ovvero, in descrizioni
entrambi i casi, Venere. Considerarli solo come due sequenze fonetiche diverse con
il medesimo referente significherebbe sminuire la loro portata comunicativa, il
fatto che, tramite il loro differente contenuto concettuale, esprimono il risultato di
genuine scoperte astronomiche. Frege e Russell pertanto sostengono che un nome
proprio è in realtà l’abbreviazione di una descrizione definita e il senso del nome è
quello della descrizione che esso abbrevia. Ad esempio, il senso di “Aristotele”
potrebbe essere: “Lo scolaro di Platone, maestro di Alessandro Magno”, descrizioni
che mentalmente associamo al nostro uso della parola “Aristotele”. Ne consegue
che un nome senza senso (come potrebbe essere “dfjeveksd”) non ha neanche un
referente.
Inizia a distaccarsi da queste argomentazioni Searle, il quale asserisce che, se il Searle e Kripke:
il nome proprio
nome proprio fosse sinonimo di una descrizione definita, sarebbe tautologico dire designatore
che Aristotele è stato discepolo di Platone; inoltre sarebbe da escludere a priori rigido
l’eventualità che Aristotele avrebbe potuto non ricevere insegnamenti da Platone,
fatto in realtà prettamente contingente. Kripke conclude che, a differenza delle
descrizioni, i nomi propri sono designatori rigidi: mentre le descrizioni denotano un
referente diverso a seconda delle circostanze di valutazione, il nome proprio
designa sempre la medesima entità. Se dico: “Nel 2008 il sindaco di Milano
(descrizione) ha trascorso le vacanze in Francia” posso intendere o che l’attuale
sindaco di Milano, Pisapia, ha trascorso le vacanze in Francia nel 2008, o che le ha
trascorse il sindaco di Milano di allora, Moratti. Dicendo “Nel 2008 Pisapia (nome)
ha trascorso le vacanze in Francia”, svanisce ogni ambiguità. Per Kripke quindi le
descrizioni, sebbene aiutino a identificare il referente di un nome in un contesto
conoscitivo, non sono necessarie né determinanti all’interno del rapporto che lega
nome e referente. Non danno un senso a tale rapporto, che per lui è stabilito sulla
base di una certa catena storico-causale, che parte da un battesimo iniziale e si
sviluppa in una serie progressiva di anelli, ogniqualvolta il nome passa di bocca in
bocca entro una determinata comunità linguistica.
Dall’articolata evoluzione delle teorie del riferimento possiamo ricavare da un lato Il senso del
nome
che il ruolo del referente nel determinare il senso del suo nome, per così dire
presentando e producendo descrizioni, è limitato; dall’altro che il senso del legame
nome/referente è stabilito da terzi nell’atto iniziale del battesimo, in seguito al
quale il nome è sensatamente associato al referente. Se prendiamo le mosse da
quest’ultimo rilievo e tracciamo un filo rosso da Kripke a Mill, rileviamo che il
nome, una volta assegnato, si lega a colui che lo porta con un rapporto di senso, o
connotazione.
Inoltrandoci su questa strada costatiamo che il nome proprio fornisce informazioni
e suggerisce attributi circa la persona cui si riferisce: in qualche modo ci “parla” di
essa e della sua collocazione, fosse solo nel comunicarne il genere
(maschile/femminile) o la nazionalità di appartenenza. Il nome può rivelare
particolari ascendenze dei genitori, qualora derivi da una stella del cinema
piuttosto che da un personaggio letterario da loro particolarmente amato; può
rifarsi a una figura della cristianità o del mito, oppure riprendere il nome di un caro
defunto. Può implicare caratteristiche fisiche e caratteriali, come testimonia un
amico di famiglia allorché riconosce nel promettente pargolo un degno portatore
del nome che ha ereditato. Scavando nel nome, entriamo in contatto con la forza
espressiva annidata nell’etimo e nell’intrinseca musicalità delle sillabe da cui è
composto.
ASCOLTARE L’ETIMO: IL SIGNIFICATO E LE SUGGESTIONI SINESTETICHE DEL NOME
Così , con ogni probabilità, chi si intende di nomi considera la loro forza espressiva
e non si lascia colpire se viene aggiunta qualche lettera, o viene spostata, o viene
tolta, o se anche in lettere completamente diverse sta la forza espressiva del nome.
Come quanto dicevamo poco fa, Astianax e Hektor non presentano alcuna lettera
eguale eccetto il tau, ma significano pure la stessa cosa. E Archepoli ('reggitore di
città') quale lettera presenta in comune con quelli? Eppure significa la stessa cosa.
E ve ne sono molti altri che non significano niente altro se non re. E altri ancora
stratego, come Agis (‘condottiero’) e Polemarco (‘guerra’ e ‘comandare’) e
Eupolemo (‘adeguatamente’ e ‘abile in guerra’); e altri sono nomi di medici quali
Iatrocle (‘medico’ e ‘gloria’) e Achesimbroto (‘guarire’ e ‘uomo’). E forse potremmo
trovarne molti altri che suonano ben diversamente nelle sillabe e nelle lettere, ma
che per la loro capacità espressiva fanno risuonare lo stesso concetto.
Platone, Cratilo
Nel Cratilo, dialogo in cui ci si domanda se i nomi ricalchino l’essenza del nominato Etimologia in
Platone e Dante
o siano solo vuote convenzioni, Socrate si lancia in una lunga dissertazione
etimologica, a riprova di quanto il nome racchiude circa la persona cui si riferisce.
Non è da meno Dante, che nel XII canto del Paradiso, attraverso la figura di
Bonaventura, si prodiga in una lode onomastica di san Domenico (dominicus, ‘che
appartiene al Signore’) e di coloro che lo misero al mondo: “Oh padre suo
veramente Felice!/ Oh madre sua veramente Giovanna (yôchanan, ‘grazia di Dio’),/
se, interpretata, val come si dice!”, quasi che il nome profetizzi la sorte riservata
loro. Successivamente, nel canto XXVI, lascerà la parola ad Adamo, colui a cui fu Il nome di Dio
affidato il compito di nominare ciascuna creatura, per alcune considerazioni
riguardo al nome di Dio. Nel primiloquio dell’Eden, Dio è semplicemente I,
“scienza” o “principio” dei cabalisti, numero uno dei Latini, poi mutato in El. Se il
nome, con il suo significato, rivela davvero l’essenza del referente, si comprende
perché quello di Dio rappresenta una tematica ampiamente discussa: quando Mosè
chiede al Dio/roveto ardente di palesare il suo nome, cosicché possa comunicarlo
al suo popolo, si sente rispondere: “Io sono colui che sono”, espressione con cui
tradizionalmente si rende il tetragramma YHWH. Alla natura tautologica di questa
affermazione, che vela volutamente di mistero l’identità divina, si aggiungono le
problematiche relative alla corretta pronuncia del tetragramma consonantico, che
è andata persa nel tempo e ha dato adito a diverse interpretazioni, da Jahvé a
Geova. I differenti culti costruiti su di esse sembrano affermare, e a volte lo fanno
esplicitamente, che alla pronuncia autentica del nome di Dio equivalga la fede
autentica in Dio.
Compare allora un ulteriore aspetto caratteristico, toccato anche dal Cratilo: quello La musicalità del
nome: Proust, le
della sonorità intrinseca in ogni nome, capace di suscitare nell’inconscio traduzioni e
suggestioni sensoriali alimentate dalle esperienze e dalla aspettative collegate a Jacinto Chiclana
quel nome. Rende magistralmente questo dimensione sinestetica Proust nella
Ricerca, quando si sofferma sulle varie località toccate dalla tratta di un treno:
Bayeux, “la vetta illuminata dall’oro antico della sua ultima sillaba”, Vitré, “il cui
accento acuto losangava di legno nero l’antica vetrata”, o Coutances, “cattedrale
normanna che il dittongo finale, grasso e biondeggiante, corona con una torre di
burro.” Sempre nella Ricerca, la decisione di Gilberte Swann di pronunciare il suo
cognome alla tedesca rimarca la presa di distanza dal padre, come avviene anche al
protagonista del dissacrante Frankenstein Junior.
Che la musicalità sia parte costitutiva dell’identità del referente lo suggeriscono le
difficoltà riscontrate dai traduttori nel rendere i nomi propri in una lingua diversa
dall’originale, nonché gli esiti comici dei deliri fascisti di italianizzazione, che
arrivarono a presentare al pubblico jazzisti del calibro di Louis Armstrong e Benny
Goodman come Luigi Fortebraccio e Beniamino Buonuomo. In bilico, tra l’etimo e
la musicalità di un nome, sta il Jacinto Chiclana, protagonista dell’omonima milonga
di Piazzolla, su testo di Borges: “Señores, yo estoy cantando / lo que se cifra en el
nombre” e l’affascinante Jacinto sembra poter profumare come un fiore, come un
giacinto…
Certo, l’idea di un’identità tra il significato etimologico del nome, la sua sonorità e Nome e
referente:
l’indole del referente è un’ipotesi sostanzialmente magica, valida nel mondo identità mancata
allegorico della Commedia, nella metafisica platonica o nelle fantasie letterarie e e soluzione
musicali, destinata a crollare dinanzi a una riflessione appena accurata. Risulta più
facile pensare che la musicalità sia una caratteristica ininfluente e che il significato
etimologico di un nome, qualora non sia stato applicato inconsapevolmente, abbia
valore di buon auspicio; ciascuna persona deciderà nel corso della sua vita se
realizzare o smentire la carica fatale del nome che porta.
Tuttavia, questa discrepanza tra la natura del nome e quella del referente non
cessa di disturbare, tanto che l’aspirazione a eliminarla non si è mai estinta.