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Questa tesina di maturità tratta della morte. Tra gli argomenti trattati dalla tesina: in Italiano Leopardi ela morte dell'anima, in Storia la Shoah, in Filosofia Schopenhauer, in Latino Seneca, le epistulae morales ad lucilium, in Inglese Coleridge (the rime of ancient mariner), in Geografia stronomica la morte delle stelle, in Storia dell'arte la morte a confronto: Goya, David e Caravaggio e in Fisica la corrente elettrica.
Italiano- Leopardi e la morte dell'anima.
Storia- La Shoah.
Filosofia- Schopenhauer .
Latino- Seneca (epistulae morales ad lucilium).
Inglese- Coleridge (the rime of ancient mariner).
Geografia stronomica- La morte delle stelle.
Storia dell'arte- La morte a confronto. Goya, David e Caravaggio.
Fisica- La corrente elettrica.
dell'uomo maturo che rende limitato e passeggero il piacere umano. La natura è ancora vista come
benevola, ma è la ragione umana matrigna. Il dolore storico volgerà infine al grado "cosmico".
L'origine dell'infelicità umana
Al centro della meditazione di Leopardi si pone l'infelicità dell'uomo. Egli identifica la felicità con
il piacere sensibile e materiale. Ma l'uomo aspira a un piacere infinito, e siccome nessuno dei
piaceri goduti dall'uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione.
La natura ha voluto offrire un rimedio all'uomo: l'immaginazione e le illusioni. Per questo gli
uomini primitivi, più vicini alla natura, erano felici. Il progresso della civiltà ha allontanato l'uomo
da quella condizione privilegiata. Gli antichi, erano anche più forti fisicamente, e questo favoriva la
loro forza morale; la loro vita era più attiva, e ciò contribuiva a far dimenticare il vuoto
dell’esistenza. La colpa dell’infelicità presente è dunque attribuita all’uomo stesso, che si è
allontanato dalla vita tracciata dalla natura benigna. Ne deriva un atteggiamento titanico: il poeta
come unico difensore dell’antichità, si eleva per sfidare il crudele destino che ha colpito l’Italia.
Questa fase del pensiero leopardiano è definita pessimismo storico, ovvero la condizione negativa
del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un
allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità. Questa concezione di natura
benigna e provvidenziale entra in crisi. È la natura che ha messo nell’uomo quel desiderio di felicità
infinita, senza dargli mezzi per soddisfarlo. Leopardi concepisce la natura non più come madre
amorosa, ma come meccanismo crudele: è una concezione meccanicistica e materialistica. La colpa
dell’infelicità non è più dell’uomo stesso ma solo della natura. Se causa dell’infelicità è la natura
stessa, tutti gli uomini sono infelici. Al pessimismo “storico” subentra così un pessimismo
“cosmico”: l’infelicità è legata ad una condizione immutabile di natura. Ne deriva, l’abbandono
della poesia civile e del titanismo: se l’infelicità è un dato di natura, vane sono la protesta e la lotta.
Il pessimismo cosmico
Nasce il dolore cosmico nel momento in cui Leopardi arriva ad una conclusione assolutamente
negativa: la condizione d'infelicità è propria del genere umano in quanto tale, ed è da attribuirsi alla
Natura stessa. Infatti questa, mettendoci al mondo, ha fatto sì che in noi nascesse il desiderio del
piacere infinito, senza però darci i mezzi per raggiungerlo. Questa concezione, che è alla base della
maggior parte della produzione poetica di Leopardi, emerge per la prima volta con assoluta
chiarezza nel "Dialogo della Natura e di un Islandese", un'Operetta morale scritta nel 1824. In
questo Dialogo la Natura si mostra del tutto indifferente alla sofferenza dell'uomo, che è soltanto un
elemento del ciclo universale di produzione e distruzione. Nella Ginestra, del 1836, Leopardi
ribadisce che la Natura non ha per gli uomini riguardo maggiore di quello che ha per le formiche:
eppure "l'uom d'eternità si arroga il vanto".
LA MORTE PER SENECA:EPISTOLAE MORALES AD
LUCILIUM
Valenza formativa e morale della morte
Ogni uomo, ha la possibilità di interrogarsi di fronte al succedersi degli avvenimenti e, dunque, di
fronte alla vita. Se la vita implica la morte, l'uomo ha la possibilità di interrogarsi sulla morte. Di
fronte alla vita, e quindi di fronte alla morte, il sapiente stoico deve dimostrare la propria virtù: la
virtù del sapiente consisterà nel mantenere ferma la propria forza razionale lasciando che essa si
esprima di fronte a qualsiasi evenienza, compresa la morte. Fisica e morale insieme, è questa quella
capacità tipica del sapiente di “rimanere eretto sotto qualsiasi peso”. Ma non è facile mantenersi
saldi e avere la forza di resistere incrollabili e saggi di fronte alla morte e a quanto, come la malattia
e il dolore, di essa è l'annuncio. Anzitutto occorre rendersi conto che “la distanza dalla morte è
ovunque breve: non è che la morte si mostri in ogni luogo vicina: essa è realmente in ogni luogo
vicina” (Lett.49.11).
. Il 'non essere' della morte
Con il suo stile stringato e sentenzioso Seneca farà presente all'amico Lucilio, che proprio il modo
in cui moriamo dirà chi davvero siamo; suggerirà quindi che il miglior rimedio per vincere la morte
è semplicemente quello di disprezzarla. Più seriamente, occorrerà considerare la morte per quello in
cui di fatto consiste: 'la morte è non essere' (Lett., 54.4), è la pura e semplice condizione in cui vi è
l'assenza della percezione della vita, l'occasione in cui il venir meno del corpo si accompagna al
venir meno della percezione e quindi della coscienza, “la morte è qualcosa di indivisibile: un
malanno del corpo che non risparmia lo spirito”. Essa finisce per essere (e qui la posizione di
Seneca si avvicina a quella dell'altra dottrina materialistica, quella epicurea) un punto d'arrivo
ineffabile: non solo dopo la morte non c'è nulla (perché non c'è alcuna possibilità di percezione), ma
il morire medesimo è qualcosa di sfuggente.
Il coraggio di affrontare l'inevitabile
Insomma, la morte non sta davanti a noi, anzi: il nostro errore è proprio nel non renderci conto che,
più che ciò che ci sta davanti, 'alla morte appartiene la vita già trascorsa', E occorre imparare che,
proprio perché viviamo, 'ogni giorno stiamo morendo'.
La filosofia, di essere sereno al cospetto della morte, forte e lieto al di là della condizione fisica; di
non cedere anche quando il fisico sta cedendo. Nell'imminenza della morte, allorché ogni possibilità
di evitarla è dileguata, nell'uomo scatta una reazione psicologica per cui anche chi per natura è
ignorante e debole trova un moto di coraggio e di orgoglio. Così è per il gladiatore che, per tutto il
combattimento, magari ha cercato solo di scansare i colpi; alla fine eccolo offrire la gola
all'avversario: trova il coraggio di non evitare l'inevitabile (non vitandi inevitabilia). Ma se la morte,
pur destinata a giungere, è solo in prospettiva davanti a noi, per predisporsi a essa occorre qualcosa
di più, occorre quella tenace fermezza d'animo, che appartiene solo al saggio.
La coerente posizione sul suicidio
Se occorre apprezzare la vita resistendo a tutti i dolori e a tutte le angosce, come può il sapiente
contemplare l'eventualità del suicidio?
Suicidarsi significa 'darsi la morte', e quindi intervenire nello svolgimento della vita in modo
autoritario, quasi contravvenendo alla tesi centrale dell'etica stoica che raccomandava
l'adeguamento allo svolgersi della realtà naturale. In realtà Seneca parte da un presupposto
particolare: al centro non sta tanto la vita quanto la vita 'razionale'; l'uomo, e per forza maggiore
l'uomo saggio, esiste solo nel momento in cui esibisce la propria ragione. Ecco allora che il suicidio
può essere immaginato solo se razionalmente inteso. Che vuol dire e che comporta ciò?
L'uomo saggio è tale finché riesce a resistere alle contrarietà dell'esistenza senza perdere la propria
ragione; se invece dovesse essere minacciato dal rischio di perdere il controllo e di impazzire (e
quindi si trovasse nella condizione imminente di smarrire la propria specifica virtus), ha la
possibilità di sottrarsi a questa perdita salvando la propria razionalità. Ecco il suicidio: è decisivo
cogliere che solo il saggio è in grado di sapere se è giunto il momento estremo oltrepassato il quale
la sua virtus sarebbe perduta ed egli non sarebbe più saggio; soltanto il saggio sa cioè quando è
giunto il momento di adottare il suicidio, convinto che 'morire bene significhi sfuggire al pericolo di
vivere male', anche l'ultimo degli schiavi, se ha rispetto di sé ed è quindi sapiente, può trovare il
modo di suicidarsi. Nessun ostacolo può infatti trattenere chi ha veramente deciso di evadere dalla
vita. E’ la ragione che ci invita a morire, se possibile, come ci piace, altrimenti sfruttando qualsiasi
mezzo ci si offra.
Solo il saggio che consapevolmente ed eroicamente sa accettare fino in fondo il proprio destino ha a
disposizione il suicidio; giunto il momento, sarebbe colpa gravissima quella di chi tentasse di
ostacolare tale decisione: sarebbe ancor più grave del dare la morte a qualcun altro. Impedir di
morire a qualcuno che lo desidera è come ucciderlo.
“Esprimerò il mio parere su questo argomento: se è opportuno disdegnare l’estrema vecchiaia e
non attendere la morte ma procurarsela con la propria mano.
Colui che attende passivamente il proprio destino è simile a chi teme, 0ed è simile all’ubriacone
che prosciuga l’anfora e beve anche la feccia. Tuttavia chiediamoci se l’ultima parte della vita sia
feccia o piuttosto bevanda assolutamente limpida e pura, se solo la mente rimane salda, e i sensi
integri aiutino lo spirito, e il corpo non sia disfatto e morto prima del tempo.
C’è molta differenza se prolunghiamo la vita oppure la morte!
Ma se il corpo è oramai inutile alle sue funzioni, perché non liberare l’anima che soffre? E forse lo
si deve fare appena prima di essere obbligati, per non trovarsi nell’impossibilità quando giungerà
il momento. Poiché è maggiore il pericolo di vivere male rispetto a quello di morire presto, è stolto
colui che, per guadagnare poco tempo, non si libera dal rischio di una grande sventura. Una
vecchia troppo lunga ha condotta alla morte pochi uomini senza loro danno, a molti è rimasta una
vita inerte e priva del controllo di sé: dunque, quanto più crudele ti sembra avere perso un
pezzettino di vita, piuttosto che avere perso il diritto di porvi fine? Non ascoltarmi malvolentieri,
come se codeste mie parole riguardassero direttamente te, e valuta bene ciò che dico: non
abbandono la vecchia, se mi conserverà integro, ma integro nella parte migliore di me; ma se essa
inizierà a colpire la mia mente e a sconvolgere parte di quella , se non mi lascerà la vera vita, ma
solo impulso vitale, balzerò fuori dall’edificio marcio e fatiscente.
Non fuggirò la malattia con la morte, purché quella sia curabile e non mi leda l’anima. Non
rivolgerò la mia mano contro me stesso a causa del dolore: morire così significa essere sconfitto.
Tuttavia ,se saprò che devo sopportare un dolore senza fine uscirò dalla vita, non per il dolore in
sé, ma perché mi sarà di ostacolo per tutto ciò che rappresenta motivo di vita; è debole e vile chi
muore a causa del dolore, ma è stolto chi vive per soffrire.
Mi sto dilungando troppo, e in più mi restano argomenti che occuperebbero tutta la giornata; e
come potrà porre fine alla vita colui che non sa porre fine a una lettera? Stammi bene, dunque: e
leggerai più volentieri questo saluto che tutti i miei discorsi sulla morte.”
Epistulae morales ad Lucilium 58,32-37
In un passaggio del testo, Seneca affronta il tema del suicidio. E’ preferibile darsi la morte- si
chiede- o affrontare una vecchiaia in invalidante e che, soprattutto, può colpire il centro della vita
umana, cioè la sua mente? La risposta che si da Seneca è chiara: la morte non deve essere cercata
come via di fuga dalla malattia o dal dolore; ma se la situazione di salute lascia presagire una
perdita di autonomia -cioè di libertà per l’individuo- essa è da preferire: in condizioni menomate
l’uomo non sarebbe più padrone della propria razionalità e non potrebbe più vivere secondo natura.
E’ una posizione, quella stoica, che limita molta la concezione della vita come valore assolto: in
certe condizioni, infatti, è indifferente se vivere o morire. Da notare il lessico ”platonico” con cui è
affrontato l’argomento; per esempio, l’immagine di “liberare l’anima che soffre” dalla gabbia di un
corpo che oramai è un peso inerte ricorda la concezione platonica del corpo come prigione
dell’anima. Sorprendente è anche la battuta scherzosa con cui Seneca conclude l’epistola, quasi a