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Sintesi
Sintesi Tesina sulla Morte


L'obiettivo della mia tesina di maturità è quello di descrivere la morte e la sua concezione nella filosofia. Ho scelto di fare una tesina sulla morte nella storia della filosofia, perché è un tema che mi affascina e mi fa
riflettere. Ogni uomo immagina la morte in modo differente. Rifacendomi alla filosofia ho pensato di costruire un percorso cronologico delle più conosciute riflessioni sulla morte. Vedremo che le concezioni sono diverse, ogni filosofo cerca di farsi un’immagine della morte che lo porti a non temerla. Vedremo che non tutti indicano col termine morte il momento in cui la vita finisce. Qualsiasi cosa la gente dica sulla morte, nessuno potrà dire l’assoluta verità, che è inconoscibile.
Iniziamo il nostro viaggio nella storia della filosofia e torniamo indietro di 2.500 anni. Ho cercato di descrivere nella mia tesina di maturità il tema della morte attraverso il pensiero di vari filosofi: Socrate, Platone, Epicuro, Michel De Montaigne, Pascal, Hume, Kant, Hegel, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Freud, Heidegger.


Tesina monografica di Filosofia sul tema della morte in vari pensieri filosofici.
Estratto del documento

<< Gli uomini non sospettano affatto che chi si dedica alla filosofia,

IX

nel senso più vero della parola, non miri ad altro che a morire presto. E,

dunque, sarebbe veramente ben strano che chi per tutta la vita ha

desiderato la morte, quando poi essa giunga, si addolorasse proprio di

ciò che ha, per tanto tempo, desiderato e cercato.>> Sorrise Simmia

e:<< Per Giove, Socrate,>> disse, <<io non ne avevo voglia e tu mi hai

fatto sorridere perché penso a tutta quella gente che, nell'ascoltare

queste tue parole, crederà che tutti i filosofi siano degli aspiranti alla

morte; specialmente, poi, i miei concittadini direbbero che essi se la

meritano.»

«E avrebbero ragione di dire così, Simmia, salvo poi a capirne qualcosa;

però, credo che non comprenderebbero in che senso i veri filosofi

aspirino alla morte e a quale specie di morte e come di essa ne siano

degni. Ma lasciamo perdere la gente e ragioniamo, dunque, tra noi.

Orbene, a nostro avviso, la morte è qualcosa?»

«Sicuro.»

«E che altro è se non separazione dell'anima dal corpo? E il morire cos'è

se non un distinguersi del corpo dall'anima, un isolarsi in sé, un

separarsi dall'anima e, questa, a sua volta, dal corpo? Che altro è la

morte se non questo?»

«Proprio così .»

«Guarda, ora, mio caro, se sei d'accordo con me, perché questo è importante per comprendere meglio quello di cui

discutiamo. Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere ?»

«Niente affatto.» «E di quelli d'amore?» «Nemmeno.»

«E degli altri piaceri del corpo, come, per esempio, bei vestiti, scarpe di marca, altri ornamenti del genere, tu credi

che il filosofo li tenga in gran conto e, comunque, più di quanto la necessità lo richieda?»

«Credo che il vero filosofo le disprezzi tutte queste cose.»

«E allora,» proseguì , «non ti pare che tutte le preoccupazioni di un uomo simile siano rivolte non al corpo, che

anzi, per quanto può, egli trascura, ma all'anima?»

«Sì, certo.»

«E, allora, non è chiaro, tanto per cominciare, che, in tutto questo, il filosofo cerca di liberare, per quanto possibile,

l'anima da ogni influenza del corpo, riuscendovi assai meglio degli altri?»

«Pare.»

«Per questo motivo, Simmia, la maggior parte della gente giudica indegno di vivere colui che non prova diletto per

certi piaceri materiali, anzi come se fosse già col piede nella tomba chi non si cura di quei piaceri che sono propri

del corpo.» «Dici proprio giusto.»[…]

«E allora,» soggiunge Socrate, «necessariamente, tutte queste considerazioni inducono i veri filosofi a un

XI

ragionamento presso a poco di questo genere: ‹Esiste come un sentiero che ci porta nella direzione giusta, ma fino

a che avremo un corpo e la nostra anima sarà confusa a una simile bruttura, noi non giungeremo mai a possedere

ciò che desideriamo, che è, poi, quello che noi chiamiamo verità. E non solo il nostro corpo ci procura infiniti

fastidi, per il fatto stesso che, ovviamente, dobbiamo nutrirlo, ma quando si ammala, sorgono sempre nuovi

impedimenti che ci distolgono dalla nostra ricerca della verità; e, poi, ancora, amori, desideri, timori, visioni fallaci

d'ogni genere, vanità innumerevoli, non fanno che frastornarci (è la parola giusta) così che, fino a quando siamo

in sua balia, non possiamo concentrarci su nulla. E così pure le guerre, le discordie, le zuffe, è il corpo che le fa

nascere con le sue passioni. La brama di possesso, ecco la causa di tutte le guerre e se noi ci affanniamo a

procurarci la ricchezza, è il corpo di cui siamo gli schiavi. Da tutto questo deriva il fatto che noi non troviamo più il

tempo per dedicarci alla filosofia. E il peggio è che, se pure, riusciamo, per un momento, a liberarcene e a volgere

5

la nostra mente a qualcosa, subito ne siamo distolti, per la sua importuna intrusione, che ci confonde, ci distrae, ci

frastorna, al punto di renderci incapaci, ormai, di distinguere la verità. ‹Dunque, è chiaro che se vogliamo giungere

alla pura conoscenza di qualche cosa, dobbiamo staccarci dal corpo e contemplare con la sola anima le cose in sé.

Soltanto allora, a quel che sembra, noi avremo ciò che desideriamo e che dichiariamo di amare: la sapienza, ma

dopo che saremo morti e non certo da vivi, come tutto questo discorso vuol dimostrare.

Finale del Fedone: la morte di Socrate Come egli ebbe detto così, -

LXIV.

Ebbene, o Socrate, disse Critone, hai

nessun ordine da dare a questi tuoi

amici o a me per i tuoi figlioli o per

altra persona o cosa? che cosa

possiamo fare per te che ti sia

particolarmente gradito? - Quello,

rispose, che dico sempre, o Critone,

niente di nuovo: che se voi avrete cura

di voi medesimi, farete cosa grata a

me e ai miei e a voi stessi qualunque

cosa facciate, anche se ora non mi

promettete niente; se invece non

avrete cura di voi e non vorrete vivere

seguendo le tracce di quel che s’è

detto ora e in ragionamenti

precedenti, non vale che v’affanniate a ripeterne di gran promesse in questo momento; non farete niente di

meglio. - Quanto a questo, si certo, disse, procureremo di fare come tu dici; ma.. in che modo dobbiamo

seppellirti? - Come volete, rispose: dato che pur riusciate a pigliarmi e io non vi scappi dalle mani! E ridendo

tranquillamente e vòlti gli occhi verso di noi, soggiunse: Non riesco, o amici, a persuadere Critone che io sono

Socrate, questo qui che ora sta ragionando con voi e ordina una per una tutte le cose che dice; ed egli invece

séguita a credere che Socrate sia quello che tra poco vedrà cadavere, e, naturalmente, mi domanda come ha da

seppellirmi. E quello ch’io mi sono sforzato di dimostrare tante volte da tanto tempo, che, dopo bevuto il farmaco,

io non sarò più con voi, e me n’andrò via lontano di qui, beato tra i beati; questo, per lui, è come se io lo dicessi

così per dire, quasi per consolare voi e al tempo stesso anche me. Ora voi mi dovete far garanzia, disse, presso

Critone; ma una garanzia contraria a quella che egli mi fece davanti ai giudici: ai giudici egli garantì su la fede sua

che io non sarei scappato; e voi dovete garantire a Critone su la fede [e] vostra che dopo morto io non sarò più qui,

e me ne andrò via lontano; e così Critone sopporterà la cosa più facilmente; e, vedendo il mio corpo o bruciato o

sepolto, non si affliggerà per me come s’io stessi soffrendo pene tremende, e non dirà nel funerale che è Socrate

che espone e Socrate porta via e seppellisce. Perché tu devi pur sapere, aggiunse, mio ottimo Critone, che parlare

scorrettamente non solo è cosa brutta per se medesima, ma anche fa male all’anima. Dunque bisogna non avere

di queste preoccupazioni, e dire che è il mio corpo che seppellite: il mio corpo seppellitelo come vi piace e come

credete sia meglio conforme alle leggi comuni.

Così detto, Socrate si alzò per andare in una stanza a lavarsi; e Critone lo seguiva; e a noi ci disse di rimanere.

LXV.

E noi rimanemmo lì ad aspettare; e intanto si ragionava tra noi delle cose dette, e si rimeditavano una per una, e

anche pensavamo alla nostra sventura, quanto era grande, sapendo bene che il rimanente della nostra vita,

privati come del padre, saremmo stati orfani veramente. E quando si fu lavato e gli ebbero portati i figlioletti -

n’aveva due piccolini e uno più grandicello - e anche si furon recate da lui le sue donne di casa, egli s’intrattenne a

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parlare con loro, alla presenza di Critone; e poi, fatte le raccomandazioni che voleva fare, disse alle donne e ai

figlioli di andarsene, e ritornò fra di noi. S’era vicini ormai al tramonto del sole; perché in quella stanza s’era

intrattenuto parecchio tempo. Ritornato dal bagno, si mise a sedere, e dopo d’allora non si disse quasi più niente.

Ed ecco venne il messo degli Undici, il quale, fermatosi davanti a lui, - O Socrate, disse, io non avrò certo a

lagnarmi di te come ho da lagnarmi di altri che si adirano meco e mi maledicono, quando io vengo ad annunziar

loro, per ordine degli arconti, che devon bere il veleno. Ma te, in tutto questo tempo, ho avuto modo più volte di

conoscere che sei il più gentile e il più mite e il più buono di quanti mai capitarono qui; e ora specialmente so bene

che tu non ti adiri meco, perché li conosci coloro che ne hanno colpa, e con quelli ti adiri. Ora dunque - tu lo sai

quello che sono venuto ad annunziarti - addio, e vedi di sopportare meglio che puoi il tuo destino. E così dicendo

scoppiò a piangere, voltò le spalle e se n’andò. E Socrate, levato un po’ il capo a guardarlo, - E anche a te, disse:

addio; e io farò come dici. E, rivolto a noi, - Che gentile persona, disse. Per tutto questo tempo egli veniva spesso a

trovarmi; e talvolta s’indugiava a conversare meco ed era uomo eccellente; e vedete ora come sinceramente mi

piange? Su via Critone, diamo retta ora a colui, e qualcuno porti il veleno, se è pestato; se no l’uomo lo pesti. E

Critone: - Ma il sole, disse, o Socrate, è ancora, credo, sui monti, non anche è tramontato. E io so che altri assai più

tardi bevono dopo che ne hanno avuto l’annunzio; e dopo mangiato e bevuto a loro volontà, e taluni perfino dopo

essere stati insieme a loro piacere con chi vogliono. Tu dunque, se non altro, non avere fretta, perché c’è tempo

ancora. E Socrate: - E’ naturale, disse, o Critone, che costoro, quelli che dici tu, facciano così, perché credono

d’aver qualche cosa da guadagnare facendo in codesto modo; ed è anche naturale che non faccia così io, perché

credo di non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi, se non di rendermi ridicolo a’ miei stessi occhi,

attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c’è più niente da risparmiare. Via, disse, dà retta e non

fare diversamente.

E Critone, udito ciò, fece cenno a un suo servo ch’era in piedi vicino a lui, e il servo uscì, rimase fuori un po’ di

LXVI.

tempo, e tornò menando seco l’uomo che doveva dare il farmaco, che lo portava pestato in una tazza. E Socrate,

veduto colui, - Bene, disse, brav’uomo, tu che di queste cose te n’intendi, che si deve fare? - Nient’altro, rispose,

che, dopo bevuto, andare un po’ attorno per la stanza, finché tu non senta peso alle gambe; dopo, rimanere

sdraiato; e così il farmaco opererà da sé. E così dicendo porse la tazza a Socrate. Ed egli la prese, oh, con vera

letizia, o Echècrate; e non ebbe un tremito e non mutò colore e non torse una linea del volto; ma così, come soleva,

guardando all’uomo di sotto in su con quei suoi occhi da toro, - Che dici, disse, di questa bevanda, se ne può libare

a qualche Iddio, o no? - O Socrate, rispose, noi ne pestiamo solo quel tanto che crediamo sufficiente a bere. -

Capisco, disse Socrate. Ma insomma far preghiera agli dèi che il trapasso di qui al mondo di là avvenga

felicemente, questo si potrà, credo, e anzi sarà bene. E questa appunto è la mia preghiera; e così sia. E così

dicendo, tutto d’un fiato, senza dar segno di disgusto, piacevolmente, vuotò la tazza fino in fondo. E i più di noi

fino a quel momento erano pur riusciti alla meglio trattenersi dal piangere; ma quando lo vedemmo bere, e che

aveva bevuto, allora non più; e anche a me, contro ogni mio sforzo, le lacrime caddero giù a fiotti; e mi coprii il

capo e piansi me stesso: ché certo non lui io piangevo, ma la sventura mia, di tale amico restavo abbandonato! E

Critone, anche prima di me, non riuscendo a, frenare il pianto, s’era alzato per andar via. E Apollodoro, che già

anche prima non avea mai lasciato di piangere, allora scoppiò in singhiozzi; e tanto piangeva e gemeva che niuno

ci fu di noi lì presenti che non se ne sentisse spezzare il cuore: all’infuori di lui, di Socrate. E anzi, Socrate, - Che

stranezza è mai questa, disse, o amici? Non per altra cagione io feci allontanare le donne, perché non

commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù,

dunque, state quieti e siate forti. E noi, a udirlo, ci vergognammo, e ci trattenemmo dal piangere. Ed egli girò un

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