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Alimentazione: Cambiamento delle abitudini alimentari, obesità, industria alimentare, omologazione del Gusto, Slow Food
Oltre alle libertà portate dalla democrazia,
un altro fattore importante che ha
consentito lo sviluppo è stato senza dubbio
la scelta economica della fine del
protezionismo e l’adozione di un sistema
di tipo liberista, che rivitalizzò il sistema
produttivo italiano, favorito inizialmente
dall’adesione alla Ceca (Comunità europea
del carbone e dell’acciaio) nel 1951; poi
dalla creazione del Mercato Comune
Europeo e della CEE (Comunità Economica
Europea) a cui l’Italia aderì nel 1957 con i
trattati di Roma.
Inoltre, fu importante il ruolo svolto dallo Stato, caratterizzato da un notevole interventismo
nell’economia. Venne finanziata la costruzione di un gran numero di infrastrutture, in
particolare le vie di comunicazione, essenziali per lo sviluppo economico del Paese, tramite
stanziamenti statali e prestiti a tasso agevolato che ammontarono a più di 714 miliardi di lire.
Nel 1959, Antonio Segni, Presidente della Repubblica di quel periodo,in un discorso tenuto nel
Consiglio dei Ministri, sottolineò l’importanza dei lavori pubblici che rappresentavano l’unico
rimedio possibile alla crisi congiunturale e alla disoccupazione.
La Banca d’Italia mantenne un tasso di sconto estremamente favorevole per gli istituti di
credito, i quali concessero prestiti a tassi molto bassi (circa 3,5 %) che permisero un più facile
accumulo di capitali, anche tra i piccoli risparmiatori, al fine di agevolare gli investimenti e la
nascita di piccole-medie imprese. 6
Un altro fattore determinante per la ricostruzione dell’Italia fu l’espansione del commercio
mondiale, reso sicuro da un mercato regolato in seguito agli accordi di Bretton Woods (1944), i
quali erano destinati a ripristinare un sistema monetario internazionale anche attraverso la
nascita del Fondo Monetario Internazionale, dove era necessario promuovere lo sviluppo
economico e ricreare un sistema di scambi multilaterali in condizioni di stabilità dei cambi. Nei
15-20 anni successivi, i movimenti di capitali si erano enormemente intensificati e accelerati in
un fenomeno in cui prevale la competizione internazionale dei Paesi, oggi conosciuto come
globalizzazione.
L’integrazione all’interno dell’economia europea, dunque, aprì alle esportazioni italiane un
ampio mercato.
L’economia cresce
Congiuntamente alle scelte politico-economiche dello Stato, vi furono altre condizioni
favorevoli:
la disponibilità di manodopera a basso costo rispetto alla media degli altri paesi europei,
proveniente dalle campagne e dal centro-sud;
la disponibilità di materie prime che potevano essere importate ad un prezzo costante
(N.B.: L’Italia, ancora oggi è un paese povero di materie prime!);
la disponibilità abbondante di fonti di energia grazie anche alla nascita compagnia statale
ENI (Ente Nazionale Idrocarburi);
la disponibilità di tecnologie avanzate per l’industria provenienti dall’America grazie al
piano Marshall.
Tra il 1958 e il 1963, anni di massima crescita economica, il PIL crebbe addirittura del 6,3% e la
produzione industriale raddoppiò, innescando un circolo vizioso che, grazie alla minor
disoccupazione, portava a maggiori consumi di massa e, quindi, a una maggior domanda di
beni interna ed esterna, grazie alle agevolazioni degli scambi commerciali all’interno degli
stati europei. 7
Mercato e industria
Sin dall’inizio, la struttura produttiva italiana si caratterizzò per il fenomeno chiamato
“dualismo”, che consisteva in un’ampia sfasatura e livello di crescita tra mercato interno ed
esterno. Infatti l’Italia presentava un vantaggio competitivo sulla produzione interna basata sui
settori tradizionali, mentre la domanda estera dei paesi ricchi e industrializzati premeva per
prodotti sempre più innovativi dove invece, i fattori produttivi maggiormente usati erano il
capitale e la tecnologia. L’urgenza di soddisfare questa domanda e quindi cercare di ottenere
un vantaggio competitivo anche in Europa, portò lo sviluppo di settori che divennero il fulcro
del boom e la base della nascente industria italiana. Si assiste, quindi, ad un mercato estero
caratterizzato da una forte dinamicità a cui si contrapponeva quello interno, decisamente
statico.
L’Italia cercò di sfruttare questo dinamismo di idee e di capitali, riuscendo ampiamente ad
imporsi nel campo degli elettrodomestici, dell’automobilismo e delle manifatture; infatti, in
questi anni nascono le grandi industrie italiane la cui produttività aumentava progressivamente,
grazie alle nuove tecnologie da
loro utilizzate. Fiat, Zanussi, Candy,
Olivetti, sono solo degli esempi del
passaggio da un’Italia
fondamentalmente agricola ad un
Paese dove l’industria era il settore
maggiormente produttivo. L’alta
tecnologia impiegata nei processi
produttivi permise alle imprese di
autofinanziarsi più facilmente,
perché non era necessario
assumere manodopera; inoltre, la stabilità dei prezzi portò a un relativo contenimento dei
salari, a un sempre maggior investimento produttivo e a una crescita dei consumi. Nonostante
questa situazione positiva portasse il Paese verso un benessere sempre maggiore, gli squilibri
non mancarono. La crescita della domanda estera conferì un’importanza eccessiva alla
produzione di beni di consumo anche di lusso, a scapito, invece, degli investimenti in
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infrastrutture. Questa distorsione venne riscontrata anche a livello di consumi individuali,
proprio a causa del diverso dinamismo e ritmo di crescita dell’economia. Infatti, i beni primari
risultavano proporzionalmente più costosi rispetto a quelli secondari, proprio perché la volontà
di emulare le ricche società europee aveva causato un salto troppo brusco per un Paese
ancora provinciale e contadino, dove spesso l’auto era un necessario status-symbol e i servizi
igienici solo una comodità di pochi.
Gli esempi di industrie legate al boom sono stati limitati al Nord Italia; questo perché il Sud, a
causa del già noto divario industriale, riuscì ad avvertire qualche impulso solo nel 1957.
Infatti, durante questo anno venne approvata la legge che obbligava le aziende a
partecipazione statale a indirizzare nelle regioni meridionali il 60 per cento dei loro
investimenti, al fine di creare nuove aree industriali. Esse furono la FIAT e l’Olivetti, che
effettuarono la riorganizzazione aziendale, unico modo per rendere le industrie italiane adatte
all’affermazione in campo internazionale.
La FIAT, società già nata nel 1915, riuscì ad instaurare un sistema di produzione a costi
decrescenti che dipendeva da un massimo sfruttamento degli impianti, dall’allargamento del
mercato interno e da una graduale liberalizzazione degli scambi. Essa fu in grado di imporsi a
livello internazionale, diventando competitiva alla pari di altre imprese europee. La Fiat, quindi,
fu un asse portante del modello di sviluppo caratteristico del miracolo economico italiano
degli anni ’60, perché aveva esteso la sua presenza
all’estero sino a diventare un gruppo multinazionale.
Stesso percorso seguì l’Olivetti, sviluppo un piano
aziendale di produzione per rettificatrici, macchine
multiple e speciali, impianti di lavorazione
automatizzati. Nata tra il 1946 e il 1947, l’Olivetti, nel
1958, riusciva a soddisfare con ottimi risultati, tecnici e
organizzativi, una domanda sempre crescente di
macchine da scrivere e di calcolo. Lo sviluppo
industriale che si verificò in Italia fu sorprendente e
contribuì a cambiare l’opinione pubblica mondiale, che
era abituata a considerare gli Italiani come europei di secondo livello. 9
Un miracolo con molte ombre
Il grande sviluppo di fine anni ’50 ebbe un’importanza fondamentale per la modernizzazione,
non solo economica, dell’Italia; ma non risolse alcuni gravi squilibri della nostra economia:
si svilupparono soprattutto i settori ad alta intensità di lavoro (meccanico,
elettromeccanico, tessile, alimentare), cioè basati su largo impiego di manodopera più che
sull’alta innovazione tecnologica; questo fatto, unito ai modesti investimenti nella ricerca
scientifica, aggravò la dipendenza tecnologica dell’Italia dagli altri paesi avanzati, in primo
luogo dagli Stati Uniti;
vennero trascurati i consumi pubblici o sociali (case, ospedali, scuole, trasporti), dando
luogo a carenze ancora oggi rilevanti;
il sistema fiscale venne trascurato: era iniquo, poco efficiente e lasciava largo spazio all’
evasione delle imposte, provocando palesi ingiustizie, limitando le entrate dello Stato e
aggravando il costo del lavoro a causa dei contributi sociali
NORD E SUD: UNA FRATTURA SEMPRE PIÙ APERTA
La situazione al Sud
In questi anni, il divario economico tra Nord e Sud divenne ancora più accentuato. Il Meridione
aveva un’industria scarsamente sviluppata e una tecnologia arretrata, la produttività del lavoro
era molto bassa e un’alta percentuale della popolazione era dedita all’agricoltura. Inoltre, vi era
stata una scarsa capacità di accumulazione dei capitali, le infrastrutture erano insufficienti e la
classe dirigente, priva di capacità imprenditoriale, non permetteva un rinnovamento politico e
amministrativo. In questi anni, per la volontà di incentivare la nascita di un tessuto industriale
anche al sud, nasce l’esigenza di dimostrare che il Mezzogiorno non era un costo, ma un vero e
proficuo investimento anche per in Nord. Al risanamento dell’economica del Sud contribuisce la
Cassa del Mezzogiorno, nata con la legge dell’ottobre 1950. Essa operava in tre principali
direzioni: politiche tese alla costruzione di infrastrutture, agevolazioni all’impresa privata,
l’interveto diretto dello Stato. L’operato della Cassa del Mezzogiorno fu però un parziale
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fallimento: oltre a realizzare immensi insediamenti industriali, chiamati “cattedrali nel deserto”
in città come Siracusa, Taranto o Brindisi; non fu in grado di utilizzare e formare l’abbondante
manodopera locale e creare una rete di piccole e medie imprese di fornitura, in modo da
evitare che le grandi “cattedrali” si trovassero isolate quando avevano bisogno di servizi o
prodotti esterni alla loro impresa.
Gran parte dei finanziamenti finì anche nelle mani delle organizzazioni mafiose. A pagarne le
conseguenze, ovviamente, fu la popolazione del Sud, che tra il 1951 e il 1974 dovette
abbandonare in massa le proprie case in cerca di fortuna ed occupazione al Nord.
L'emigrazione
Negli anni del miracolo economico aumenta notevolmente l’emigrazione. L’apice di questo
fenomeno, secondo lo storico Ginsborg, si verifica negli anni ’55-’63 in cui venticinque milioni
di Italiani decidono di emigrare dal
Meridione. Le mete erano le città del
Centro-Nord Italia, soprattutto Milano,
Torino, Genova, oppure quelle del nord
Europa; infatti, dopo la crescita
industriale che coinvolse anche il resto
degli Stati europei, Svizzera, Belgio e
Germania divennero meta di molti nostri
connazionali. Già prima dell’avvento del
boom, il “consueto” divario tra Nord e
Sud dell’Italia era enorme; con lo
sviluppo economico queste differenze
aumentarono, costringendo molte
persone a trasferirsi nelle ricche città del
Nord alla ricerca di una speranza.
Alla base di questo fenomeno vi sono
diversi fattori, tra cui la necessità di
maggiore denaro e di un lavoro stabile, il fascino delle nuove metropoli del Nord. Questo flusso
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di gente divenne così imponente che lo Stato, viste le ingenti e urgenti necessità, stabilì la
creazione di un’ apposita linea ferroviaria, chiamata il “Treno del sole”, che attraversava l’Italia
da nord a sud, in modo tale da favorire e permettere nel migliore dei modi questi spostamenti.
Gli uomini trovarono lavoro come operai nelle numerose di fabbriche che nascevano in gran
numero in quegli anni, oppure nei cantieri edili; le donne, al contrario, erano occupate in lavori
a domicilio, nel campo della maglieria, del filato e della sartoria, oppure anch’esse nelle
fabbriche. Molti di questi manovali e operai acquisirono in quegli anni un’esperienza tale da
permettere loro di diventare, in seguito, imprenditori nei vari settori in cui avevano fatto