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Latino: Seneca (Epistulae morales ad Lucilium)
Storia dell’Arte: Edvard Munch (L’Urlo)
Filosofia: Arthur Schopenhauer; Karl Marx
Inglese: George Orwell (Animal Farm)
Storia: la rivoluzione russa
Geografia astronomica: la rivoluzione copernicana (dal geocentrismo all’eliocentrismo)
Fisica: la rivoluzione della fisica contemporanea (Albert Einstein e lo spazio-tempo)
ogni evasione dalla finitezza e dal regno della necessità, altro non resta che attendere un evento di
altra natura, il “miracolo”, la rottura dell’ordine generale. Ma l’attesa del prodigio si rivela un
fallimento. Allora al poeta, all’uomo, non rimane che la “divina indifferenza”, non cinismo ma
assoluta intransigenza morale e intellettuale; non rimane che l’accettazione lucida e consapevole
della propria condizione di angoscia e di sconfitta; non rimane che descrivere la “negatività” del
mondo. Ciò non significa che il poeta deve rinunziare alla vita. Dunque non indietreggiare mai nei
confronti della realtà, ma nello stesso tempo avere la coscienza dei propri limiti.
Latino
Un tipo simile di disagio, è riscontrabile nella letteratura romana dell'età imperiale. Dopo la grande
fioritura sotto Augusto, la produzione letteraria entra in un periodo di crisi; il primo secolo
dell'impero è un'età di depressione della cultura, dove il complesso problema dei rapporti tra cultura
e potere non trova sbocchi positivi e convincenti. Appare chiaro che il potere imperiale, per
reggersi, deve necessariamente ridurre il peso dell'aristocrazia senatoria, la classe dalla quale gli
vengono le più energiche critiche ed opposizioni: ma è anche l'unica classe in grado di apprezzare e
sostenere la produzione letteraria. Le antiche famiglie aristocratiche iniziano una parabola di
decadenza economica e politica, accompagnata da un rilevante assottigliamento numerico, e di
conseguenza immediata da questo stato di cose è la scomparsa dei mecenati, quei personaggi colti e
facoltosi che finanziavano e proteggevano gli artisti. Gli artisti in particolare i poeti, vivono così
un'esistenza di povertà e di frustrazione; e la letteratura si allontana dalle grandi tematiche politiche,
storiche e sociali. Il principale problema degli intellettuali di questi anni è proprio quello di
prendere posizione nei confronti del principato: nei primi anni del dominio di Nerone sembra
rinascere qualche speranza, perché il giovane imperatore, alla caccia del consenso e spinto
probabilmente anche da un certo interesse personale, riprende una debole forma di mecenatismo,
rivolta in modo particolare ai poeti ed ai musicisti. Sono gli stessi anni in cui prende corpo il
tentativo di Seneca, destinato a rimanere un'esperienza unica, di collaborazione tra intellettuali e
potere: ma il suo tentativo si infrange contro la brutalità dell'assolutismo neroniano.
Lucio Anneo Seneca (Cordova 4 a.C. - Roma 65 d.C.). Appartenente a una benestante famiglia
spagnola, riceve a Roma, per volontà del padre, un'accurata educazione grammaticale e retorica
nonché filosofica. A motivo della salute cagionevole o perché indotto dal padre, contrario all'attività
filosofica, verso i venticinque anni si reca in Egitto, dove ha modo di ritemprare il fisico e di
ampliare la sua cultura. Di ritorno a Roma, intraprende la carriera forense e inizia con la questura il
cursus honorum. I successi oratori gli procacciano fama e ammirazione nel gran mondo della
capitale, ma sono altresì causa delle prime disgrazie. Geloso della sua eloquenza, o più
probabilmente contrariato dai principi politici in essa espressi, Caligola pensa di disfarsi di lui,
risparmiandolo solo nella convinzione, suggeritagli da una sua favorita. Nel 41 d.C., coinvolto in
un'accusa di adulterio contro Giulia Livilla viene relegato da Claudio in Corsica. Il forzato distacco
dalla società romana gli pesa a tal punto che si abbassa a meschine adulazioni per ottenere il ritorno.
Ma soltanto dopo otto anni (49 d.C.) può rientrare a Roma, quando Agrippina, la nuova moglie di
Claudio, lo fa richiamare per affidargli l'educazione del figlio Nerone. Per riconoscenza della libertà
riacquistata non meno che per la fiducia di preparare il precoce ingegno del giovane principe, cui la
madre appresta la dignità imperiale, a un illuminato esercizio del potere, Seneca assume l'incarico.
Come Nerone diviene imperatore (54 d.C.), gli rimane accanto in qualità di consigliere ne guida
felicemente la politica per cinque anni. Poi la crescente pretesa di Agrippina di intervenire nella
direzione del governo e il risentimento del figlio, insofferente della sua ambiziosa tutela, creano una
situazione insostenibile, che si risolve nel matricidio. Seneca vi ha la sua parte, anche se non si sa
quale. La ragion di Stato prevale probabilmente in lui su ogni altra considerazione. Ciò nonostante
la sua posizione presso Nerone si indebolisce sempre più mettendosi in disparte e dedicandosi alla
vita contemplativa e alla speculazione filosofica. La conclusione della sua fortunosa esistenza
avviene nel clima di terrore instaurato da Nerone, ormai libero da ogni freno: accusato di aver
partecipato alla congiura capeggiata da Calpurnio Pisone, si toglie la vita sotto ordine imperiale con
l'eroica serenità dello stoico (65 d.C.).
La sua vita fu un susseguirsi di dolori e frustrazioni: la sua politica fallì, la sua influenza sul giovane
Nerone diminuì fino a dileguarsi del tutto. Il sogno di ordinare uno stato ideale, governato da un
principe filosofo e dai suoi consiglieri illuminati, aristocratici nel sangue e nell'intelletto, crollava di
fronte alla svolta antioligarchica che avrebbe fatto di Nerone il prototipo del sovrano folle e
degenerato. Dopo la rottura con l'imperatore Seneca divenne un emarginato di lusso, e nella sua
nuova ottica di espatriato dal mondo, sradicato dalla società, riuscì a considerare fratelli gli schiavi,
dissennati gli oppressori, felici i mansueti, i rassegnati alla sorte, i disposti al giudizio e al perdono,
i forti nella sconfitta, i mediocri nella mediocrità delle scelte per sopravvivere. In questo senso
Seneca, contrariamente agli intellettuali più moderni, trova un senso nel suo isolamento, nei suoi
fallimenti, nel proprio disagio: arrendersi alla vita, cioè lasciarsi vivere dagli eventi e insieme
cercare di dominarli, senza presunzione di trionfo, godere di ogni bene in cui accada di imbattersi
senza averlo febbrilmente cercato, significa vincere nella morte, cioè rientrare in un disegno divino
riconoscibile in ogni cifra dell'universo. Ed il tutto deve culminare nell'eroica (secondo l'accezione
stoica) accettazione del suicidio e della morte, proprio come gli eroi delle sue tragedie che vanno
sereni verso il sacrificio. La sua più celebre opera del triste periodo del ritiro dalla scena politica
sono le Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di lettere di maggiore e minore estensione e di
vario argomento indirizzate all'amico Lucilio. L'opera ci è giunta incompleta e si può datare attorno
al 64; lo spunto per la composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a Seneca da Platone
e da Epicuro, in qualsiasi caso egli mostra la consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria
latina un genere nuovo. Il modello cui egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli
amici ha saputo arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale. Seneca è
convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un'unione con l'amico che, fornendo
direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un insegnamento dottrinale. La lettera è
maggiormente vicina alla vita reale e permette di proporre ogni volta un nuovo tema; Seneca
utilizza la lettera come strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale,
fondata sull'acquisizione di alcuni principi basilari. Inoltre il genere epistolare si rivela appropriato
ad accogliere un tipo di filosofia, come quella di Seneca, priva di sistematicità e incline soprattutto
alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Col tono pacato di chi non si atteggia a
maestro severo ma ricerca egli stesso la sapienza, Seneca propone l'ideale di una vita indirizzata al
raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione
sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si
accentua, nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e all'assurgere dell'ozio a
valore supremo: un ozio che non è inerzia, ma attiva ricerca del bene.
Storia dell’arte
Il male di vivere, così come ha interessato la poesia italiana del ‘900 e la letteratura latina, è
presente nell’arte e si manifesta prepotentemente con Edvard Munch.
Edvard Munch è il pittore dell'angoscia: gli unici temi che lo interessano sono la passione, la vita e
la morte. L'ombra di questa lo accompagnerà lungo l'arco della sua intera esistenza: muore la
madre, mentre è ancora bambino e, adolescente, assiste alla morte della giovane sorella, logorata
dalla tubercolosi. Questi episodi acuiranno la sua sensibilità nervosa e ne influenzeranno già i primi
quadri. L'uso dei colori, la potenza dei suoi rossi, la lucidità violenta con cui tratta i suoi temi, lo
porteranno ad essere il precursore, se non il primo degli espressionisti. Le angosce e i disagi
esistenziali dell'artista, provato fin da piccolo da numerosi lutti familiari, vengono espressi mediante
l'uso di colori violenti e irreali, linee sinuose e continue, immagini deformate, consumate dal
tormento interiore. L'artista ha una visione della realtà profondamente permeata dal senso
incombente e angoscioso della morte. In quest'ottica anche l'amore è visto come l'affiorare di
un'animalità primitiva e insopprimibile e la voglia di annullarsi uno nell'altro viene ancora una volta
letta come espressione di morte. L'utilizzo del rosso, soprattutto, è dovuto alla lunga permanenza
dell'artista al capezzale della sorella, malata di tubercolosi. Un trauma che influenzerà molto spesso
le scelte tonali dei suoi dipinti.
Il Grido, dipinto nel 1893, è il celebre capolavoro di Edvard Munch, pittore norvegese, massimo
esponente della Secessione di Berlino. Munch racconta "Una sera passeggiavo per un sentiero, da
una parte stava la città, e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato: mi fermai e guardai al di là del
fiordo, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura, mi sembrò quasi
di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero: i colori stavano urlando."
Il grido della natura, dunque, il grido dell'animo: l'angoscia di una mente malata e imprigionata in
un'esistenza dolorosa e claustrofobica, un malessere cosmico, concentrato nell'atto di un urlo
disperato. La creatura raffigurata non è né uomo né donna, è semplicemente l'umano ridotto alla sua
essenza, al suo destino di morte già inscritto nell'atto della nascita; grida eppure si tappa le orecchie
per non sentire il proprio stesso urlo, che risale da dentro e si propaga attorno fino a deformare in
onde sonore il paesaggio che lo circonda. I colori sono usati in maniera innaturale; il cielo è rosso
sangue, e si riflette sul mare e sulla strada, il linguaggio compositivo è caratterizzato dalla
semplicità e dalla deformazione, ottenuta tramite lunghe pennellate ondulate: per Munch la pittura è
la pura espressione della propria tragica visione del mondo, i colori e le forme devono rispecchiare
stati d'animo, non hanno una funzione descrittiva. Il Grido è la più chiara espressione del
sentimento d'angoscia che pervade tutta l'opera di Munch così come l'esistenza umana, è l'urlo della
nascita, dell'essere gettati nel mondo e pure già condannati, è il più tragico degli autoritratti: "Poteva
essere dipinto solo da un pazzo", ammette lo stesso Munch; è infine la manifestazione di una psiche
instabile e malinconica, ma anche di una cultura repressiva, quella del Kaiser Guglielmo II,
caratterizzata dalla mancanza di espressione democratica.
Filosofia
Sicuramente tutta l’opera di Munch è influenzata dai circoli Berlinesi in cui la filosofia
Schopenhaueriana condiziona e domina la scena.
In Schopenhauer troviamo eco del profondo disagio intimo e dello sradicamento dalla società. Il
punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la distinzione tra fenomeno e cosa in sé. Per