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L'infinito non è solo un semplice concetto filosofico o matematico. Riguarda tutta la nostra vita, in ogni suo aspetto. Ed è questo che io ho cercato di dimostrare.
Materie interessate: Matematica, Geografia Astronomica, Italiano, Storia Dell'Arte, Filosofia, Letteratura Inglese
Italiano: Giacomo Leopardi, L'Infinito
Arte: Escher, rappresentare l'infinito
Filosofia: Friedrich Nietzsche, Così Parlò Zarathustra
Inglese: William Butler Yeats, Sailing To Byzantium
Chi prenderà in mano questa "tesina", se vogliamo chiamarla così, probabilmente si troverà a pensare che l'infinito, di per se, sia un argomento forse banale e già sfruttato. Che poi sarebbe la stessa cosa che ho pensato io da principio. La trattazione, tuttavia, può avvenire attraverso molteplici (infinite, direi) vie: si può dare un'impostazione umanistica, scientifica, linguistica, artistica al lavoro che si svolge, a seconda della personalità e delle peculiarità del singolo individuo. E ognuna di queste impostazioni, fintanto che il lavoro resterà originale, avrà differenti caratteristiche.
Quella scientifica è una delle più interessanti e, per certi versi, innovative. La "promessa", tuttavia, si è rivelata più difficile del previsto da mantenere, vuoi per il poco tempo a disposizione, vuoi per l'estrema complessità dell'argomento. E questo mi ha costretto a dirottare il mio lavoro su un'analisi forse più superficiale ma al contempo più allargata.
Divagazioni a parte, l'infinito è uno dei temi che quest'anno, indipendentemente dal lavoro scolastico, ho avuto modo di affrontare più volte, attraverso letture, riflessioni personali e con alcuni miei cari "compagni di pensiero", addirittura attraverso i miei hobby (cosa che mai mi sarei aspettato). La mia decisione non è quindi solo legata all'apparente semplicità (come in un primo momento mi era parso) di questa idea, ma anche al mio stupore nel notare come un qualcosa che io avevo sempre considerato puramente matematico (non dico anche filosofico perché, si sa, matematica e filosofia sono quasi la stessa cosa) potesse entrare in un modo o nell'altro in ogni campo dell'esistenza.
Alla stessa maniera, la scelta di iniziare la trattazione proprio dalla matematica è volta allo scopo di dimostrare un"idea che mi ha praticamente "perseguitato" durante il periodo del liceo: all'interno della mia classe sono il solo a cui piace la matematica intesa come materia scolastica, e sono il solo che proseguirà gli studi iscrivendosi proprio in quella facoltà . Ogni volta che esprimo questo mio desiderio, la maggior parte degli ascoltatori mi guarda allibita quasi a chiedersi quale specie di bestia rara si ritrovi davanti. Più volte sento dire che la matematica non serve a niente, che è inutile, che in fondo basta saper fare le operazioni di base per procedere nella vita senza problemi. Ma io so che non è così. Innanzitutto, la nostra società , di stampo economico/capitalistico, si basa interamente sulla matematica: portando un esempio che potrebbe sembrare stupido, anche il prezzo della benzina che paghiamo settimanalmente quando facciamo il pieno è il risultato di una relazione matematica tra i fattori domanda - produzione - periodo. Il funzionamento dei computer è il risultato della scrittura di un codice "binario" proprio della matematica, i programmi, i videogiochi, persino i video e le immagini disponibili su internet sono il risultato di algoritmi complessi studiati allo scopo di raccogliere e sintetizzare i dati nella maniera più semplice e veloce possibile. Eppure la matematica non è solo questo.
Fonti internet:
• http://www.wikipedia.org , l'enciclopedia gratuita online
• http://www.vialattea.net , il sito per la divulgazione scientifica
• http://images.google.it , ricerca immagini Google
• http://www.deviantart.com , dove l'arte incontra l'applicazione
Fonti testuali:
• AA.VV., I Filosofi e le Idee, Mondadori
• AA.VV., Books and Bookmarks, Loescher
• Escher M. C., Grafica e Disegni, Taschen
• Lotman e Uspenskij, Tipologia della Cultura, Bompiani
• Nietzsche Friedrich, Così Parlò Zarathustra, Mursia
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geometrie (locali e assolute) spaziali, differenti elucubrazioni sull’origine e sulla fine
dell’universo, svariate teorie sulla presenza o meno della vita nell’universo.
La finitezza dell’universo lascia adito a riflessioni molto interessanti e, per certi versi,
anche inquietanti. Ne ho individuate due, in particolare: la possibilità che l’universo sia finito in
estensione ma infinito in superficie; la finitezza dell’universo e la presenza di un qualcosa al di
fuori di esso.
Per esporre la prima riflessione, prendiamo come esempio una qualsiasi sfera, come
una pallina da tennis, o qualcosa che sia sufficientemente
sferoide, come la terra. Noteremo subito che sia il volume di
questa sfera è finito e precisamente calcolabile, e di questa
sfera è possibile trovare un centro. Anche la superficie è
calcolabile e quantizzabile, ma con una differenza: l’assenza
di qualsiasi limite, di un centro definito. E questo la rende,
per definizione, in-finita (senza limiti).
La possibilità che l’universo sia finito implica che al di
fuori di esso esista un qualcosa. E perché esista questo
qualcosa, deve per forza essere di grandezza superiore.
Avremmo allora trovato l’idea di dio? Immaginare che il
nostro universo sia così infinitamente grande per noi… e per
qualcun altro possa invece essere solo una palla di vetro,
magari un souvenir comprato in qualche bancarella da tenere
sul comodino…
Proprio a questo proposito, girovagando tra i vari testi letterari possiamo trovare
svariate interpretazioni dell’infinito e del suo rapporto con lo spazio. Soprattutto racconti brevi.
Passiamo così per “Il libro di sabbia” di Jorge Luis Borges, impossibile da aprire sulla stessa
pagina e la cui copertina, per quanto possiamo sfogliare pagina dopo pagina, risulterà sempre
impossibile da raggiungere; per “L’hotel straordinario” di Staninslaw Lem, piccola avventura a
proposito degli insiemi infiniti di numeri.
In Italia è Giacomo Leopardi a dare un’interpretazione interessante dell’infinito nella sua
omonima poesia L’Infinito. Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
Già il titolo della poesia richiama alla nostra mente l’immagine metafisica che l’autore vuole
analizzare. Eppure, ci troviamo, dopo i primi tre versi, vagamente sconcertati.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
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In questo incipit, l’autore si pone in uno spazio angusto, limitato, quasi angoscioso: il mondo
“caro”, sensibile, si chiude a qualsiasi comunicazione con l’esterno, con l’orizzonte, la cui
visione è impossibilitata all’autore da una siepe che forma un tutt’uno con un colle “solitario”
come il poeta. Perché questa aperta antitesi con il titolo? Il significato ci è chiaro nei quattro
versi successivi. Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo;
Il poeta rinuncia al senso proprio della vista e fa propria l’idea di infinità: con gli occhi della
mente osserva ciò che sta oltre la siepe limitatrice, spazi interminati e sovrumani, che
contrastano, assieme al titolo, l’idea che ci viene proposta nei primi tre versi della poesia. Tra
spazio chiuso e infinto viene così a crearsi un rapporto duale, con il risultato che questi due
spazi diventano un’unica entità: l’impossibilità di trasferirsi dal primo al secondo spazio è
risolta con l’interiorizzazione del secondo nell’anima del poeta.
Resta comunque un’antitesi tra il concetto di infinito e le limitazioni dello spazio (la siepe),
seppur in maniera rarefatta. Questa antitesi, tuttavia, si concretizza con la seconda parte della
poesia. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei.
I rumori dello spazio interno, prima solo sottointesi e ora nominati, si pongono in contrasto con
il silenzio infinito. Lo spazio interno diventa così una fotografia del presenta, un periodo ben
definito, mentre lo spazio esterno diventa rappresentazione dell’eternità. E da qui, lo spazio
esterno diventa la vita, quello esterno la morte. Tuttavia questo non impedisce al poeta,
romantico, di essere ancora attratto e affascinato dall’infinità, valore romantico supremo. La
differenza con la prima parte del testo, comunque, sta nel finale.
Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
Il poeta, la sua forza, la sua immaginazione, vengono soggiogati dalla potenza dell’infinito
(nella prima stesura della poesia “immensità” era “infinità”) e si perdono, costretti a rinunciare
alla propria singolarità. Questo porta l’autore su un nuovo piano di esistenza e la sintesi tra i
due spazi viene raggiunta: la coscienza di questo rende la perdita di sé “dolce” e il
trasferimento da uno spazio all’altro assume un connotato positivo e piacevole.
In Leopardi, quindi, l’infinito rappresenta non solo un qualcosa di trans-umano o super-umano,
comunque non raggiungibile dalle persone normali, ma anche una condizione mentale di
apertura alle realtà nascoste del mondo, un particolare uso del pensiero che permette di
esulare dai limiti dell’umanità per raggiungere nuovi orizzonti normalmente nascosti.
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Per terminare la trattazione dell’infinito inteso come
spazio, non possiamo mancare di citare le molteplici
rappresentazioni visuali che di questo sono state date.
Spesso l’idea di infinito ci viene data attraverso l’utilizzo di
artefatti visivi come la ripetizione dello stesso oggetto
svariate volte in maniera da ottenere un gioco prospettico
tendente, appunto, all’infinito. Il modo più semplice di
ottenere questo risultato è sistemare due specchi uno di
fronte all’altro. L’immagine verrà riflessa dai due specchi in
maniera tale da ripetersi all’infinito. Nell’immagine a destra,
invece, vediamo come attraverso un semplice gioco di colori si abbia l’idea di come l’artista
possa idealmente procedere nel disegno senza fermarsi mai. Ovviamente questo è impossibile
per ragioni di spazio e strumenti, ma il nostro occhio viene ingannato e anche il nostro
cervello.
Rappresentare veramente l’infinito è dunque impossibile?
La risposta ci viene data da Maurits Cornelis “Mauk” Escher, un artista contemporaneo
morto solamente nel 1972. Nella maggior parte dei suoi quadri, soprattutto quelli prodotti nella
maturità, con il semplice utilizzo di pochi colori e forme è riuscito a trasportare il concetto di
infinito dall’idea all’oggetto, immortalandolo nelle sue opere. L’esempio più famoso è
indubbiamente “Il Nastro di Moebius.” Di per se, il nastro di moebius è una particolare figura
geometrica formata da una sola superficie: la particolarità della figura sta nel fatto che non
esistono un interno ed un esterno, come nei normali anelli. O, meglio ancora, interno ed
esterno sono fusi in un singolo elemento. Nell’opera, le formiche mostrano la particolarità di
questa rappresentazione geometrica: l’assenza di limiti all’unità della superficie permette
all’animale di continuare il suo cammino all’infinito senza doversi mai fermare per un qualche
ostacolo. Il discorso, tuttavia, non può dirsi concluso se analizzato solo dal
punto di vista spaziale. La nostra percezione, infatti, si basa anche sul
concetto di tempo. E cosa è più infinito, visto nella prospettiva della
nostra breve esistenza, dello scorrere del tempo? È proprio questa la
domanda che si pone Friedrich Nietzsche in Così Parlò Zarathustra
quando analizza la concezione di Dio, del tempo, dell’uomo. Il filosofo si
pone il problema della finitezza dell’esistenza di fronte all’infinità dello
scorrere del tempo, risolvendolo con la concezione dell’eterno ritorno.
In un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può
ripetersi infinite volte.
Questa frase è al contempo semplice ed estremamente complicata. Se nel campo logico
matematico l’affermazione si esaurisce con un discorso di combinazioni (numeriche e non),
nella filosofia il lavoro da svolgere è più lungo e tortuoso: bisogna innanzitutto analizzare
parola per parola il nome che si dà al concetto stesso. “Eterno” e “Ritorno” ad uno sguardo
superficiale possono lasciare che si immagini il tempo come un sistema ciclico nel quale gli
avvenimenti si ripetono in uno schema ben preciso, come teorizzato dagli stoici. La parola
“eterno” invece non significa “fissità, immobilità”, bensì esprime il concetto di infinità senza
limiti in nessuna direzione, senza inizio o fine. Per questo, il “ritorno” non è una ripetizione
quanto piuttosto un “divenire”.
E se “eterno ritorno”, in realtà, vuol dire “incessante divenire”, Nietzsche può finalmente
affermare che non ha senso parlare di Fine Ultimo o Verità Assoluta, in quanto se la realtà si
trasforma senza fine, allora l’idea stessa di assoluto e immutabile diventa un controsenso.
Persino il rancore e la vendetta perdono significato. Questi sono causati, infatti, dal tentativo di
identificare un momento preciso nel passato, e costruendo il futuro nell’ottica della rivalsa, che
a questo punto diventa però assurda e priva di significato.
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La concezione dell’eterno ritorno influenzò molto le forme
d’arte che si svilupparono tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900.
Un’interessante interpretazione ci viene data da William Butler Yeats
che nelle sue poesie sviluppa una visione del ciclo degli eventi storici
molto particolare. Influenzato anche dalle idee di Gianbattista Vico,
Yeats identifica l’alternarsi degli eventi con una struttura che lui chiama
“gyre” (con la g dura) composta da due coni che si compenetrano
avvolgendosi l’uno con l’altro. Ogni momento della storia si muove
attraverso queste spirali, l’una rappresentante la soggettività, l’altra
l’oggettività, di grandezze inversamente proporzionali l’una all’altra. Ma non
è solo la storia ad essere eterna.
Anche l’essere umano ha la possibilità di raggiungere l’infinito, inteso
come “senza termine”, “eterno”: questo gli viene permesso dall’arte, unica via per eliminare il
normale decadimento dell’uomo. L’idea del poeta, espressa nella poesia Sailing To Byzantium,
è strettamente correlata alla situazione politica della sua nazione (l’Irlanda) e alla sua
condizione fisica (la vecchiaia).
That is no country for old men. The young
In one another's arms, birds in the trees
- Those dying generations - at their song,
The salmon-falls, the mackerel-crowded seas,
Fish, flesh, or fowl, commend all summer long
Whatever is begotten, born, and dies.
Caught in that sensual music all neglect
Monuments of unageing intellect.
An aged man is but a paltry thing,
A tattered coat upon a stick, unless
Soul clap its hands and sing, and louder sing
For every tatter in its mortal dress,
Nor is there singing school but studying
Monuments of its own magnificence;
And therefore I have sailed the seas and come
To the holy city of Byzantium.
O sages standing in God's holy fire
As in the gold mosaic of a wall,
Come from the holy fire, perne in a gyre,
And be the singing-masters of my soul.
Consume my heart away; sick with desire
And fastened to a dying animal
It knows not what it is; and gather me
Into the artifice of eternity.
Once out of nature I shall never take
My bodily form from any natural thing,
But such a form as Grecian goldsmiths make
Of hammered gold and gold enamelling