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S ENECA
Contraddittorietà della sua condotta e presunta doppiezza
Lucio Anneo Seneca nacque a Cordova, in Spagna, tra il 5 e l’1
a.C. e morì suicida a Roma nel 65 d.C., per ordine di Nerone. È
stato filosofo, politico e drammaturgo.
La figura di Seneca è tra le più controverse nella storia dell’anti-
chità: si pensi al fatto che egli fu stoico e nel contempo teorico del
lathe biosas epicureo, rigido moralista ma non estraneo al mondo dei Seneca ritratto da Rubens
compromessi, caro ai cristiani così come ai pagani.
Il destino segnato per Seneca è quello che tocca a chiunque provi a far combaciare la riflessione
filosofica con l’esperienza autobiografica. Per evidenziare i dissidi e la contraddittorietà della
figura di Seneca si prenderanno in esame tre argomenti, attraverso i quali giungere alla tesi del
“situazionismo” filosofico senecano. Questa stessa tesi ha due aspetti differenti: può esser vista
sia come incidenza della propria esistenza sul pensiero teorico, sia come ricorso a teorie diver-
genti od opposte al fine di giustificare le decisioni prese di volta in volta.
A tal proposito, si farà qui di seguito riferimento al testo Scienza, cultura, morale in Seneca, a cura
di Paolo Fedeli, che ripropone una serie di posizioni tratte dagli Atti del Convegno di Monte
Sant’Angelo, tenutosi nei pressi di Foggia dal 27 al 30 settembre 1999. In particolare, le tre po-
sizioni seguenti rientrano nell’ambito dello scritto Seneca, ovvero de!a contraddizione, ad opera
del latinista Ivano Dionigi.
1. Actio e contemplatio
Che l’uomo dovesse dedicarsi alla theoria e alla praxis, alla contemplatio e all’actio, era principio stoico,
ripreso da Aristotele. È noto a tutti che a Roma la finalità dell’actio aveva la priorità; Seneca stesso
ne darà prova sulla scena politica come consigliere di Nerone dal 54 al 59.
Ma solo dopo poco tempo - agli inizi degli anni sessanta - nel De otio, Seneca procede alle seguenti
affermazioni: l’utilità del distacco dalla politica, l’elogio dell’individualismo, la legittimità della scelta
dell’otium per il sapiens , la necessità dell’otium per tutti.
Come giustificare questa inversione nel rapporto otium/negotium? Semplice, incalza Seneca: l’otium
giova alla res publica maior, vale a dire al mondo intero nel quale sono compresi uomini e dèi, mentre
il negotium giova solo alla res publica minor, alla città in senso stretto e alla sua popolazione.
Ma a nessuno sfugge che qui Seneca - consapevole di creare una frattura sia col mos maiorum sia col
proprio passato - accede ad una tesi epicurea: all’imperativo categorico del “vivi nascosto” (lathe bio-
sas).
La Ricerca del Possibile 6
Vero è che quest’improvviso mutamento concettuale era dovuto a una drammatica urgenza perso-
nale. Il De otio infatti è composto a ridosso del 62 d.C., anno in cui Seneca chiede a Nerone il ritiro
dalla politica in una situazione di non ritorno e in un clima da ultima spiaggia. Seneca nel De otio
elenca con precisione le motivazioni e gli impedimenti che consentono o addirittura impongono al
sapiens il ritiro dalla politica: la corruzione dello stato, la prevalenza dei malvagi, l’inutilità dell’azione
politica, la poca autorevolezza, il veto da parte dello stato, la cattiva salute.
2. Sermo e vita
Seneca avvertiva il problema della propria coerenza: sospeso tra il principio di idealità, che invocava
l’accordo tra parole e vita, e il principio di realtà, che al contrario ammetteva il distacco tra inten-
zioni ed eventi. Erano lontani, a ben vedere, i tempi del paradosso stoico secondo il quale «il saggio
non cambia mai parere».
Fatto oggetto di molteplici e pesanti accuse (lusso sfrenato, avidità, usura), Seneca prova a scagio-
narsi scrivendo il De vita beata, dove all’obiezione di predicare bene e razzolare male (“aliter” inquis
“loqueris, aliter vivis”) risponde che egli sta parlando della virtù e non di se stesso, che rinvia il mo-
mento della coerenza personale a quando sarà più forte interiormente e che si riconosce in chi aspi-
ra alla saggezza e non in chi già la possiede.
Questa uscita di sicurezza gli era fornita dallo Stoicismo di mezzo, il quale introduce il concetto di
“progresso” morale secondo il quale all’interno della categoria degli “incamminati verso la saggezza”
vi è una netta differenza tra il sapiens da un lato e i viri boni, i philosophi dall’altro; addirittura Seneca
riteneva il sapiens una figura così rara da paragonarla alla fenice che rinasce ogni cinquecento anni.
Ma ben poco conforto Seneca traeva dalla dottrina stoica di fronte alle accuse infamanti dalle quali
era bersagliato: prima fra tutte - stando alle testimonianze di Tacito - quella di aver addirittura ac-
cumulato un capitale di oltre trecento milioni di sesterzi.
Questo processo contro Seneca, ritenuto campione di doppiezza, è durato inalterato per duemila
anni, ed ha avuto grandi accusatori. Tra i più remoti si ricordi Agostino («coltivava quello che rim-
proverava, adorava quello che condannava ») e Petrarca («Sei incappato nel principe più crudele di
1
tutti i tempi … La radice prima di tutte le tue miserie deriva dalla leggerezza, per non dire della viltà
del tuo animo. Hai concupito, o duro vecchio, la vana gloria letteraria con troppa debolezza, per
non dire, ancora, fanciullaggine »).
2
Tra i censori più recenti, vale la pena ricordare Herman Melville. L’autore di Moby Dick così si
esprime: «Nel busto di Seneca … vediamo un volto che somiglia molto di più a quello di un corruc-
ciato usuraio, pieno di rughe e di pensieri. È la sua apparenza esatta, perché è ben noto che egli era
avaro e avido, e che s’occupava volentieri d’ipoteche e di prestiti, e che conduceva affari spregiudica-
De Civitate Dei 6,10
1 Epistole Familiares 24,5
2
La Ricerca del Possibile 7
ti anche per quei tempi. È ferreo e inflessibile e non sarebbe disdicevole neanche a un agente di
Wall Street» 3
3. Vita brevis, vita longa
Una contraddizione non esistenziale - come nei due casi precedenti - bensì dottrinale segna il tema
del tempo. Centrale in Seneca e disseminato in tutte le sue opere filosofiche, esso inaugura l’episto-
lario e costituisce l’oggetto specifico del De brevitate vitae.
Proprio in questo dialogo, smentendone il dettato del titolo, Seneca afferma che la vita non è breve
ma lunga, in polemica con la tesi aristotelica la quale accusava la natura di ingenerosità per averci
assegnato una vita troppo breve: mentre la natura ha concesso agli animali di poter vivere cinque o
dieci generazioni, all’uomo, destinato a grandi cose, è fissato un termine tanto più breve.
Quest’idea senecana del tempo poggia su alcune basi concettuali proprie dell’ortodossia stoica, tra
cui la concezione qualitativa del tempo.
Per Seneca ciò che conta è la qualità e non la quantità della vita, il modo e non la durata. Concezio-
ne qualitativa, e più precisamente concezione puntuale del tempo: «la nostra vita è meno di un pun-
to in paragone all’eternità».
Ma in altre opere il cordovese ha un’altra concezione del tempo, laddove altrettanto decisamente
afferma che la vita è non lunga, bensì breve, anzi brevissima. Nella Consolatio ad Marciam si può leg-
gere: «nati per un tempo brevissimo, destinati a cedere subito il posto ai sopravvenuti, siamo solo di
passaggio nel soggiorno che ci è stato assegnato». Qui è Cremuzio Cordo che dall’alto dei cieli con-
sola Marcia per la perdita del figlio ricordandole che, rispetto alle cose celesti, le cose terrestri sono
un punto e come tali infinitamente piccole. Confrontato con l’eternità, il tempo che ci è stato asse-
gnato è brevissimo. È evidente che si tratta di una concezione opposta al De brevitate vitae.
La tesi del latinista Dionigi è tanto chiara quanto interessante: alla questione se Seneca sia o
meno contraddittorio, ci si deve limitare a definire Seneca “situazionale”. A seconda delle di-
verse tesi da dimostrare egli adottava infatti diversi punti di osservazione, selezionando quel
modello o quell’altro che di volta in volta più gli giovava. In questo modo egli era in grado di
giustificare l’otium e il negotium, l’aspirazione alla sapientia e l’ammissione del compromesso.
Così com’era in grado di fornire soluzioni diversificate, o addirittura opposte, al problema del
tempo.
Ai fini della ricerca della possibilità nell’ideologia dell’individuo, occorre analizzare la questione
“virtù-beni materiali” più a fondo. Seneca, alla luce di quanto già detto, nonostante fosse stato
uomo di potere, si fosse ritirato a vita privata solo quando vi era stato costretto e possedesse
rendite ingenti, predicava il disprezzo della ricchezza. Fino a questo momento si è considerata
Diario Italiano, Roma 1964, p.127
3
La Ricerca del Possibile 8
semplicemente l’«accusa» nei suoi confronti. Si prendano ora in considerazione gli argomenti
della «difesa».
Innanzitutto, Seneca non insegna ad applicare “letteralmente” il disprezzo della ricchezza, con-
cezione tipica della diatriba stoico-cinica (il cosiddetto contemptus divitiarum): il suo insegna-
mento ha invece come scopo la “sopportazione” della ricchezza e delle “sofferenze” da essa de-
rivanti. Tant’è vero che, nel già citato dialogo De vita beata, Seneca fa l’esempio del famoso stoi-
co Catone Uticense (il quale lodava il buon tempo antico in cui era considerato un reato punito
dalla legge possedere un po’ di argenteria) e si dichiara pronto a dichiarare che, se gli fosse capi-
tato di accumulare altri soldi ai milioni di
sesterzi già in suo possesso, non li avrebbe
rifiutati.
«Nessuno ha condannato il sapiente alla po-
vertà» si difende Seneca. E continua dicen-
do: «Il saggio non ama le ricchezze, ma le
accetta senza difficoltà, non le accoglie nel
suo animo, ma nella sua casa sì; non getta
via quelle che possiede, ma se le tiene e fa in
modo che offrano maggiore materia alla sua
virtù» 4 .
I beni materiali, le divitiae, si vengono dun-
que a configurare non come uno scopo, ma
come un mezzo necessario alla virtus: è
chiaro come in questa accezione anche il
più vile degli strumenti diventi d’importan-
za capitale per un fine superiore.
La morte di Seneca,olio su tela di Noël Sylvestre, Béziers,
Musée des beaux-Arts. Eppure, in questa machiavellica verità, resta
il dubbio circa l’integrità morale di un personaggio come Seneca, un dubbio destinato con tutta
probabilità a non trovare mai soluzione definitiva.
De vita beata 21,4
4
La Ricerca del Possibile 9
PART E SECONDA
La possibilità negli infiniti mondi quantistici
La fisica degli universi para!eli
P REMESSA
L’analisi del possibile è alla base di una delle interpretazioni più importanti della meccanica
quantistica: l’Interpretazione a Molti Mondi. È bene precisare fin da ora che l’obiettivo di que-
sta sezione non è quello di dimostrare la teoria degli universi paralleli, bensì quello di mostrare
una visione quanto più chiara possibile della stessa.
La ricerca prenderà inizio da un’immagine, una figura quasi innocua: un gattino.
Un gatto anonimo è infatti uno dei protagonisti della storia della fisica quantistica. Il gatto in
questione è un animale mitico inventato dal fisico austriaco Erwin Schrödinger, vissuto tra il
1887 e 1961. Il suo gatto è parte di una storia scientifica che tratta di come altri mondi potreb-
bero veramente esistere affianco al nostro.
L’ C C
I N T E R P R E T A Z I O N E A N O N I C A DI OPENHAGEN
Schrödinger fu uno dei pionieri della fisica quantistica. Egli fu tra coloro che, negli anni Venti,
scoprirono le regole che governano il comportamento di atomi ed elettroni. Essi pervennero a
queste leggi innanzitutto osservando che diversi tipi di atomi irradiano luce di differente colo-
re. La svolta, però, giunse con il successivo studio della radioattività. La radioattività è un in-
sieme di processi tramite i quali alcuni nuclei atomici instabili emettono particelle subatomi-