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Premessa sulla degenerazione dei valori nel XXI secolo. l'urlo che anticipa il secolo, Munch. cause da cercare nella perdita di valori all'inizio del 900: morte di Dio di Nietzsche, esistenzialismo ateo di Sartre. teatro dell'assurdo di Beckett e disumani.
Materie trattate: arte, filosofia, inglese, italiano e storia
Non esiste alcuna mediazione tra mondo dipinto e mondo reale: colori e natura esistono
in funzione della percezione interiore, ogni cosa diviene specchio dell’anima.
L’artista cerca di descrivere le proprie emozioni in modo da generalizzarle adattandole
alla vita interiore di ogni uomo, l’urlo diventa dunque l’emblema del dolore universale.
L’opera rappresenta simbolicamente il tormento esistenziale dell’io, l’irrimediabile
perdita d’armonia tra l’uomo e il cosmo, la visione del mondo come un’entità estranea
all’esistente.
La creatura in primo piano sbarra gli occhi, tiene le mani alle orecchie per non udire un
urlo che è al contempo suo e del mondo circostante. È l’immagine di un qualsiasi essere
umano, senza sesso, senza razza, senza età, ridotto ai minimi termini, tanto che il corpo
stesso perde forma, ondeggia.
Ciò che si vuole sottolineare è la perdita d’equilibrio: le linee ondeggiano e sembrano
essere risucchiate da un vortice; il ponte scivola verso l’osservatore, coinvolgendolo.
L’uomo è atterrito, angosciato, annichilito. Non ha volto, non ha identità, non ha sguardo:
ciò che resta è l’urlo, unico atto di resistenza in un mondo vuoto, privo ormai di alcun
senso, privo di certezze, di riferimenti metafisici, Dio muore, e con lui tutti i riferimenti
illusori sui quali si era fondata la società dell’Ottocento.
5 Nietzsche e la morte di Dio
Chi riprende a pieno titolo la visione annichilita dell’esistente è
Friedrich Nietzsche
il filosofo tedesco (Roecken,1844 –
Weimar,1900).
Egli pone in discussione la civiltà e la filosofia dell’Occidente,
basata sul cristianesimo, distruggendo le certezze del passato.
Nietzsche sostiene che il cristianesimo non ha mai amato la vita ma ne ha sempre
auspicato una nuova, diversa, anzi, del tutto opposta a quella reale. Tale religione,
sostiene il filosofo, è ricorsa a Dio come centro di garanzia di una vita così fatta, l’ha
annunciata come vera vita, ha avvelenato l’umanità, ha imposto valori contrari
all’esistenza reale. La morale cristiana è tipica dei deboli, dei vinti, degli schiavi che,
mossi dal risentimento verso tutto ciò che è nobile, bello e aristocratico, dice Nietzsche,
non hanno altra arma per combatterlo se non la mistificazione. Questi uomini hanno
rovesciato tutti i valori, hanno reso nobile ciò che è brutto, morale ciò che è immorale nei
confronti della vita.
Se il cristianesimo è una bugia, un’illusione, allora cosa rimane dopo che la sua maschera
è caduta? Niente, un abissale nulla. Con l’annullamento cadono le menzogne di vari
secoli, la bugia si mostra per quello che è, un puro nulla.
Nell’opera datata 1882, Nietzsche annuncia la morte di Dio,
“La gaia scienza”,
drammatizzandola attraverso il racconto dell’uomo folle, e con lui muore il cristianesimo
e la sua “bugia”:
[…] Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “ dove se n’è
andato Dio?” – gridò – “ ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo
noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potremmo vuotare il
mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero
orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è
che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un
eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un
alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita
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su di noi lo spazio vuoto?” […] “ Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!
Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più
possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi
detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti
espiatori, quali giuochi sacri dovremmo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la
grandezza di quest’azione?” […] “la gaia scienza”, aforisma 125.
Cosa significa, dunque, che Dio è morto? L’annuncio dell’uomo folle esprime la
condizione dell’umanità nel mondo moderno: l’uomo è isolato, è solo, non ha più
speranza, non c’è nessuno che lo possa salvare, oltre all’umanità sta solo il nulla. Si può
quindi parlare di deperimento dell’uomo. L’apparenza del mondo vero non ha più
significato. Il mondo moderno è succube di una crisi morale, la quale ha portato
l’umanità nell’angoscia dell’assurdo ed alla perdita delle certezze ultime dell’uomo.
Crollano i valori, il nulla è il fondamento nascosto del mondo, Dio si è rivelato come la
più grande menzogna dell’umanità, come simbolo anti-vitale. La quotidianità è nulla, così
come il senso dell’esistenza.
L’umanità incontra la decadenza, non esiste più alcuna morale, alcuna distinzione tra ciò
che è giusto e ciò che non lo è. Dio è morto, tutto è concesso.
Il cielo è vuoto, i valori, una volta certi, coincidono con il puro nulla; non esistono più
valori trascendentali, essi sono stati creati e cancellati dagli uomini stessi. Nulla ha più
senso, il mondo raccoglie l’insensatezza. L’essere stesso, fondamento ontologico della
realtà, è un niente inserito nel vuoto, viene smaterializzato, si avvicina anch’esso ad
essere nulla. L’umanità, nell’avvento della decadenza, sprofonda nel più completo
Si tratta di un eterno precipitare, senza direzioni, verso il nulla.
nichilismo.
Nietzsche vede appunto il nichilismo come "la volontà del nulla", realizzato attraverso un
atteggiamento di fuga e di disgusto nei confronti del mondo reale, concreto, terreno.
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La filosofia dell’esistenza
La filosofia esistenzialista, nata in Germania e in Francia attorno agli anni trenta del
Novecento e basata sull’analisi dell'esistenza umana, riprende il pensiero di Nietzsche,
criticando le tradizioni morali e metafisiche occidentali e opponendovi il pessimismo
tragico.
Non sorprende dunque che l’esistenzialismo sia stato definito come “filosofia della crisi”:
perso ogni ottimismo e smarrita ogni fiducia nella religione, nella ragione, nella scienza e
nella storia, non resta che un’immagine di uomo la cui vita è contraddistinta
esclusivamente dalla finitudine, dall’incertezza, dalla contingenza e dal rischio.
L’attenzione quasi esclusiva che la riflessione esistenzialista ha posto sui caratteri della
negatività e della distruttività, interpretati come atti peculiari della vita umana, ha fatto in
modo che tale filosofia fosse presa in considerazione come summa della crisi
dell’individuo nel Novecento. Jean Paul Sartre (Parigi,1905 - 1980)
Cresciuto ed istruito secondo un’educazione isolata ma di
alto livello, il filosofo esistenzialista per eccellenza si
forma da solo, è autodidatta, e pubblica una biografia nel
1964, “Le mots”, titolo che mira a sottolineare la
consapevolezza singolare dell’uomo nel comprendere che il suo destino è fatto di parole.
Fino al suo primo romanzo, “La Nausea”, datato 1938, si pensava che il giovane Sartre
fosse destinato all’attività di romanziere, ma con la pubblicazione di “L’essere e il nulla”,
1943, tale visione si capovolge, mettendo in luce anche il lato estremamente filosofico
presente nei romanzi precedenti. Da qui Sartre sviluppa tesi sempre più esistenzialistico-
filosofiche e, ricevendo accuse da fronti comunisti, marxisti e anche cattolici, redige il
trattato “L’esistenzialismo è un umanesimo” come difesa.
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La nausea e la crisi Sartriana
Prima di considerare le complessità di un romanzo come “La Nausea”, che racchiude le
tesi fondamentali di Sartre, è necessario chiarire anzitutto cosa l'autore intenda con il
termine Nausea. La Nausea è il sentimento della coscienza che, di fronte alla pura
contingenza, di fronte all’esistente, prova angoscia. L’esistenza ci pervade
completamente, al punto che le cose, la realtà fattuale, l’insieme di fatti bruti, “opachi”,
insignificanti, contingenti e gratuiti, l’in-sé sartriano, hanno un’incidenza enorme sulla
coscienza, il per-sé: le sensazioni suscitate dalle cose sono anzitutto ribrezzo e disgusto,
giustificati dal fatto che ciò che ci circonda ci tocca, nostro malgrado, e ci opprime. Gli
oggetti che quotidianamente osserviamo intorno a noi costituiscono un “troppo”,
possiedono una tale pienezza e “gonfiezza” da risultare soffocanti e ributtanti. Ecco come
il protagonista del romanzo-diario, Antoine Roquentin, che poi è lo stesso Sartre,
stabilitosi per tre anni a Bouville, luogo in cui si svolge la vicenda, per completare le sue
ricerche storiche sul marchese di Rollebon, vissuto in epoca settecentesca, sperimenta per
la prima volta la Nausea, e la descrive così:
“[…] La Nausea m'ha colto, mi son lasciato cadere sulla panca, non sapevo nemmeno
più dove stavo; vedevo girare lentamente i colori attorno a me, avevo voglia di vomitare.
[…] Da quel momento la Nausea non m'ha più lasciato, mi possiede. […]”.
In queste poche righe si nota molto chiaramente come questo tipo di sentire coinvolga sia
la parte sensibile che quella razionale, la consapevolezza, della coscienza dell’individuo.
La condizione umana viene a configurarsi, quindi, come un solitario ed angoscioso
sperimentare le cose che sono intorno a noi, giungendo sino a provare ciò che l’autore
chiama Nausea è la presa di coscienza da parte di un individuo di
“orrore di esistere”.
trovarsi estraneo al mondo. A questo punto la Nausea non si configura più come uno stato
doloroso transeunte,
“ […] ma non la subisco più, non è più una malattia né un accesso passeggero: sono io
stesso. […]”.
Nella scena seguente, che si svolge nel giardino pubblico, Roquentin osserva la radice di
un castagno e solo in quell’istante si rende conto di aver compreso la vera natura delle
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cose, vale a dire la loro insensatezza e la sensazione di soffocante ingombro che esse
suscitano. Se ci si muove tra le cose in completa ovvietà, dice Sartre, vedendo le cose
come un tutt’uno fuso, uno sfondo uniforme, un muro, la Nausea non si presenta. È il
punto di vista nuovo, non ovvio e quotidianamente accettato dagli uomini che porta
l’individuo a smascherare l’assurdità dell’in sé. La solitudine in cui è immerso il
protagonista consentirà a quest’ultimo di prendere le distanze dall’inautenticità del
mondo.
“[…] Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse, il
significato delle cose, i modi del loro uso. […] Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo
presentito ciò che vuol dire “esistere”. Ero come gli altri, quelli che passeggiavano in
riva al mare nei loro abiti primaverili. […] Se mi avessero domandato che cosa era
l’esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente una forma
vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro
natura. E poi, ecco: d’un tratto era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era
improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta,
era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell’esistenza. O piuttosto,
la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era
scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una
vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in
disordine – nude, d’una spaventosa e oscena nudità. […] Eravamo un mucchio di
esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d’esser lì,
né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo
in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch’io potessi stabilire tra quegli
alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. […] Di queste relazioni (che m’ostinavo a
mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle