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Tesina - Premio maturità 2008
Titolo: Lââ¬â¢uomo combattuto tra guerra e pace
Autore: Ilaria Cilano
Descrizione: titolo della mia tesina è lââ¬â¢uomo combattuto tra guerra e pace e il tema che si propone di affrontare è come lââ¬â¢uomo si pone e si sia posto di fronte alla guerra e abbia tentato, e tenti tuttora, di raggiungere la pace.
Materie trattate: storia, filosofia, italiano, latino, greco, inglese
Area: umanistica
Sommario: Titolo della mia tesina è l'uomo combattuto tra guerra e pace e il tema che si propone di affrontare è come l'uomo si pone e si sia posto di fronte alla guerra e abbia tentato, e tenti tuttora, di raggiungere la pace. Bobbio definisce il pacifismo come teoria che considera la pace un bene supremo tanto desiderabile da considerare ogni sforzo per raggiungerla degno di essere perseguito. Mira quindi ad una pace durevole e universale, perpetua, come la definì Kant nel suo saggio del 1795. Non si tratta dunque di una pace d'impero, quale quella denunciata da Calcago, capo caledone, che nell'Agricola di Tacito incita i suoi uomini a difendere la propria libertà dall'imperialismo romano. Quella che a Roma, dai tempi di Virgilio, veniva chiamata "pax augustea" non era vista allo stesso modo dai popoli sottomessi. La pace cui mira il pacifismo non può nemmeno essere definita pace d'equilibrio che è piuttosto una condizione di stallo con forti tensioni tra i paesi interessati come quella che si ebbe durante la guerra fredda in seguito alla corsa agli armamenti. Per evitare situazioni di questo genere il pacifismo si propone di agire contro le cause che le determinano contrapponendo, nel caso della guerra fredda, la politica del disarmo a quella della corsa agli armamenti. In questo caso, quando si agisce direttamente sui mezzi che potrebbero causare una guerra, si parla di pacifismo strumentale. Secondo la partizione di Bobbio ci sono tre tipi di pacifismo: strumentale, istituzionale e finalistico. Il pacifismo strumentale opera attraverso due grandi strade: il disarmo e la non violenza. Quest'ultima è la dottrina attraverso la quale Gandhi ottenne l'indipendenza dell'India senza scontri armati ed è la stessa dottrina che il Dalai Lama sta utilizzando per rendere il Tibet indipendente e lo ha portato ad ottenere il Premio Nobel per la Pace nel 1989. La non violenza non è quindi una passiva sopportazione dei soprusi e delle ingiustizie bensì una forma di pacifismo propositivo, attivo, che tenta di raggiungere gli scopi che si è prefissato usando metodi diversi da quelli violenti. E' quindi un atteggiamento diverso da quello passivo, che non potrebbe nemmeno essere definito pacifismo. Atteggiamento che viene criticato da Glucksmann, giornalista e filosofo francese, che in un'intervista del 2003 faceva notare che lo slogan dei manifestanti "non fate la guerra, fatevi un tè" denunciasse una forma di egoismo e di attenzione solamente al benessere del proprio paese piuttosto che uno spirito altruistico e umanitario nei confronti di popolazioni vittime di regimi dittatoriali o guerre.
Le due guerre mondiali del Novecento, le decine di milioni di morti da esse causati, la
scoperta della bomba atomica, la Guerra fredda e la politica della deterrenza come corsa agli
armamenti, hanno fatto sentire in maniera sempre più forte la necessità di superare
l’orizzonte della guerra, date le capacità distruttive sempre più potenti in mano agli stati.
Con il crollo dell’Urss e la fine del mondo bipolare non sono finite né le guerre né la
violenza, ma anzi queste hanno assunto nuove forme, anche più devastanti, come l’11
settembre 2001 ha purtroppo dimostrato.
Proprio per questo intellettuali, uomini politici e religiosi, ritengono più che mai necessario
riflettere sulla possibilità di creare nuovi organismi e nuove relazioni internazionali che
rendano superabile il ricorso alla guerra, rompendo il circolo vizioso per cui violenza e guerra
tendono ad autoalimentarsi.
Pacifismi, pacifismo
Seguendo l’analisi compiuta da Norberto Bobbio nel saggio “Il problema della guerra e le vie
della pace”, nella pratica del pacifismo attivo, cioè quello che «presuppone la critica delle
tradizionali giustificazioni della guerra e trova il suo sbocco nell’azione per eliminare la
guerra», si possono distinguere tre filoni fondamentali, che l’autore definisce come pacifismo
strumentale, istituzionale e finalistico, a seconda che intendano, per ottenere il loro scopo,
agire sui mezzi, sulle istituzioni o sugli uomini.
Il pacifismo strumentale
Il pacifismo strumentale si è storicamente proposto due obiettivi: da un lato un obiettivo
negativo, lottare per il disarmo, o almeno per la non-proliferazione delle armi, e dall’altro
uno positivo, la pratica della nonviolenza, cioè tentare di sostituire ai mezzi violenti i mezzi
non-violenti. La politica del disarmo appare la forma più elementare e moderata di pacifismo
in quanto non propone un’analisi sulla guerra e sulle sue cause, ma solo un rifiuto dei mezzi
usati per combatterla, si presenta appunto come una pratica politica più che come una
riflessione filosofica.
Le teorie della non violenza, a partire dal precetto evangelico del “non resistere a malo” fino
alla teoria della nonviolenza di Gandhi, propongono l’uso di mezzi non violenti anche nelle
situazioni nelle quali la violenza viene ritenuta legittima e moralmente giustificata, come la
legittima difesa e la resistenza all’oppressione, nella convinzione che questi mezzi siano più
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proficui per ottenere quei risultati che solitamente si intenderebbe ottenere con la forza.
Questa, che viene da Bobbio definita non violenza attiva, per distinguerla da atteggiamenti
di ispirazione religiosa di pura rinuncia all’azione di fronte al male, apre l’orizzonte a nuove
e inusitate forme di rapporti tra gli uomini e gli stati, in cui la ragione umana è chiamata a
inventare metodi di lotta alternativi e più efficaci rispetto all’uso della forza.
Il pacifismo istituzionale
Il pacifismo istituzionale non si interroga solo sui mezzi con cui la guerra si compie, ma
soprattutto sulle cause e le condizioni che la rendono possibile. A sua volta può essere
suddiviso in pacifismo giuridico, se ci si propone di giungere alla pace attraverso
modificazioni del diritto internazionale che hanno finora regolato i rapporti tra gli stati e
legittimato l’uso della guerra, e pacifismo sociale, se ci si propone di eliminare la guerra
superando l’orizzonte dello stato fondato sull’oppressione di una classe sull’altra e sulla
dominazione imperialista di uno stato sugli altri.
Il pacifismo giuridico, la cui esposizione più famosa è l’opera di Immanuel Kant “Per la pace
perpetua”, vede nella volontà politica di creare strutture sovranazionali di controllo della
potenza dei singoli stati, come la Società delle nazioni, l’ONU o l'Unione europea, la
possibilità di superamento della guerra come forma di soluzione dei conflitti, così come la
creazione dello stato, unico detentore al suo interno del monopolio della violenza, ha reso
possibile il controllo dei rapporti tra i singoli cittadini.
Il pacifismo sociale si propone invece di modificare la struttura sociale degli stati e la loro
politica imperialista, causa prima di tutte le guerre.
Il pacifismo finalistico
La terza forma di pacifismo, quello definito finalistico, intende portare l’analisi ancora più a
fondo, non sui mezzi né sulle istituzioni che rendono possibili le guerre, ma sul soggetto
storico che materialmente agisce sui mezzi e sulle istituzioni, l’uomo. Di nuovo anche questa
forma di pacifismo si articola in due diversi modi: coloro che, in una chiave etico-religiosa,
leggono la tendenza alla guerra come una sorta di peccato originale dell’umanità, e coloro
che, da Freud in avanti, in un’ottica decisamente materialista, vedono l’aggressività come
connaturata alla natura umana, nei suoi caratteri più specificamente biologici. Risulta
evidente che nella prima ottica si tratta di convertire l’uomo alla pace, nella seconda si tratta
di curare l’aggressività innata dell’uomo, sublimandola e dirigendola verso mete positive.
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Attuabilità ed efficacia della pratica pacifista
Le tre forme di pacifismo si articolano secondo gradi crescenti di complessità e profondità,
ma all’aumentare della complessità diminuisce la possibilità di attuazione e all’aumentare
della profondità aumenta però l’efficacia dell’azione stessa. Così la politica del disarmo
appare la più attuabile ma anche quella col minor grado di efficacia: anche una volta
stipulati, i trattati internazionali si possono violare e una volta distrutti gli arsenali bellici si
possono sempre ricostruire.
Il pacifismo finalistico, che si propone di modificare la natura umana, sarebbe certamente
quello più efficace ma è sicuramente quello meno attuabile.
Il pacifismo istituzionale si trova in una posizione mediana rispetto ai due estremi: la
creazione dello stato di nazioni o della società senza classi si è dimostrata finora meno
attuabile della legislazione internazionale sul disarmo; d’altra parte il pacifismo istituzionale,
soprattutto nella sua forma giuridica, indica una via di azione, il superamento dello stato-
nazione, che è sicuramente più attuabile del cambiamento della natura umana, anche se
meno efficace, nel senso che resta pur sempre aperto un margine di possibilità di ricaduta
nella pratica della violenza.
L’uomo combattuto tra guerra e pace Pagina 8
IL CONFLITTO ARMATO NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
Una politica aggressiva è in netto contrasto con le norme contenute nel diritto internazionale,
che vietano agli Stati il ricorso alla forza armata se non in presenza di limitate eccezioni. Tale
assetto della disciplina internazionale è il risultato di un processo originato, alla fine della
seconda guerra mondiale, dalla creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Oltre alla
progressiva limitazione del diritto di muovere guerra, il diritto internazionale si è evoluto
anche verso un uso sempre più controllato della forza quando il conflitto si è instaurato.
Questa evoluzione, che si riscontra nella seconda metà del ventesimo secolo, è il risultato di
un processo di ‘eticizzazione’ del diritto internazionale, che ha portato gli Stati ad orientare la
propria azione verso determinate finalità considerate degne di tutela, una delle quali è
appunto la pacifica convivenza.
Limitazione dello ius ad bellum
La conflittualità nei rapporti tra Stati è una conseguenza inevitabile della struttura anarchica
della Comunità Internazionale. Tutti gli Stati, infatti, sono egualmente sovrani e
indipendenti e non esiste un’autorità sovraordinata che possa imporre la propria volontà.
Succede così, a volte, che gli Stati si trovino nell’incapacità di risolvere pacificamente le
proprie controversie, e decidano perciò di utilizzare la violenza per far valere le proprie
ragioni. Nel diritto internazionale tradizionale, si poteva ricorrere alla guerra senza
limitazioni. Fin dall’inizio del ventesimo secolo, però, e in particolare dopo le tragiche
conseguenze delle due guerre mondiali, gli Stati hanno progressivamente elaborato una
disciplina che limitasse la possibilità di usare la forza armata. Il punto d’arrivo di questo
processo è la Carta delle Nazioni Unite, la quale stabilisce il divieto della minaccia o dell’uso
della forza nelle relazioni internazionali. La Carta Onu si esprime in termini di ‘uso della
forza’: si riferisce quindi non solo alla guerra, bensì a tutte le forme di violenza bellica tra
Stati. Nella Carta, e nel diritto internazionale consuetudinario, sono previste delle eccezioni
al divieto, tra le quali la più importante è sicuramente il diritto ‘naturale’ alla legittima difesa.
L’autodifesa è permessa in caso di aggressione, fintantoché l’Onu non abbia predisposto delle
adeguate misure per risolvere la situazione. Nonostante l’opinione contraria di alcuni Stati, il
diritto internazionale vigente non permette in alcun modo la legittima difesa preventiva,
poiché si richiede l’esistenza di un ‘attacco armato’ che deve essere attuale e non potenziale o
probabile. La Carta Onu prevede anche il diritto di legittima difesa collettiva, nel senso che
uno Stato vittima di un attacco armato può richiedere l’aiuto militare da parte di altri Paesi
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che possono così usare la forza contro l’aggressore senza violare il divieto contenuto nella
Carta. Si discute molto, ultimamente, sull’ammissibilità dell’intervento umanitario, cioè
l’intervento militare intrapreso da uno o più Stati senza l’autorizzazione dell’Onu per
contrastare gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Alla luce della disciplina attuale,
è molto difficile considerare lecito un tale intervento, tuttavia è sempre più diffusa oggi la
tendenza di alcuni Stati a giustificarlo da un punto di vista morale.
Limitazione dello ius in bello
Quando il conflitto è instaurato, la conduzione delle ostilità non è libera, bensì regolata da un
corpo di norme che prende il nome di ‘diritto umanitario’. Si è soliti distinguere all’interno
della branca del diritto umanitario due gruppi di norme. Il primo è il cosiddetto diritto
dell’Aja, che disciplina lo svolgimento delle ostilità. Innanzitutto, la stessa regolamentazione
del conflitto implica una sua limitazione, in quanto l’esercizio della forza non può essere
arbitrario. Le regole elaborate man mano indicano una progressiva restrizione dei mezzi e
metodi di guerra utilizzabili dai belligeranti durante il conflitto. Il secondo gruppo di norme
che fa parte del diritto umanitario è il cosiddetto diritto di Ginevra, che contiene le norme
relative alla protezione delle vittime della guerra, come i malati, i feriti, la popolazione civile,
i prigionieri di guerra. Questo ramo della materia, nato nella seconda metà dell’Ottocento, ha
avuto il suo momento di massima espansione dopo la seconda guerra mondiale. Quindi,
ricapitolando, gli Stati hanno cercato di darsi una auto-regolamentazione per ridurre l’utilizzo
della forza armata nei loro rapporti, agendo sul diritto stesso a muovere guerra, o, quando
questa è instaurata, limitando comunque l’esercizio della violenza militare entro regole
sempre più precise.
Il conflitto armato nella Costituzione Italiana
Art. 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità
con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la
pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo.”
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MOHANDAS KARAMCHAND GANDHI
«La non violenza è la forza più grande di cui disponga l'umanità»
Gandhi Mohandas Karamchand (Porbandar 1869 - Nuova Delhi 1948), detto Mahatma, "grande