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il piacere vano delle illusioni."
Filosofia - Schopenhauer "La realtà come immagine illusoria"
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Geo astronomica - Le stelle: gigantesche palle di gas incandescenti sospese nel vuoto
Inglese - The picture of DORIAN GRAY
Inglese - (Allegato)
Matematica - Curva costituita da linee rette
In questa fase la ragione sembra avere un ruolo positivo poiché ha il
compito di svelare il male che è nella natura; la ragione rivela l’inganno delle
illusioni e il bisogno umano di illudersi per poter vivere (uomo saggio).
Nei grandi idilli, troviamo l’elemento autobiografico, sollecitato dalla
difficile situazione psicologica del poeta ritornato a Recanati.
Qui ai ricordi dell’infanzia si unisce la consapevolezza del “vero”, in un
confronto tra il suo destino e quello degli uomini in generale. Cerca di rendere
più oggettivi gli spunti autobiografici ed è sempre presente la contemplazione
della natura ma la sua visione è ormai estremamente negativa perché il passato
è perduto e la vita è solo infelicità.
L’ultima fase, definita Pessimismo eroico, è caratterizzata dalla
consapevolezza che l’infelicità e il dolore sono comuni a tutti gli uomini e per
questo l’unica possibilità è quella di allearsi per non rassegnarsi al proprio
destino.
Questa visione è illustrata in modo suggestivo nella “Ginestra”, un ampio
componimento in cui il poeta utilizza simbolicamente la ginestra, umile fiore
che cresce alle pendici del Vesuvio, come simbolo della dignità umana che deve
reagire alla sorte. Il poeta sostiene che contro la natura, il destino, il “secol
superbo e sciocco”, bisogna lottare con dignità senza piegarsi ma accettando
consapevolmente la propria condizione.
1.3 La teoria del piacere
Legata alla visione positiva e benigna della natura, è la teoria del piacere,
in cui Leopardi sostiene che ogni comportamento umano è guidato dalla ricerca
del piacere che, tuttavia, l’uomo non riesce mai a raggiungere.
Ciò genera un costante desiderio ed un’aspettativa continua alimentata
dalle illusioni e “[…] la disposizione dell’uomo a trovare un senso alla propria
4
vita attraverso le illusioni e la stessa esperienza poetica” .
4 G. Ferroni, Storia e testi della letteratura italiana 2C, Enaudi Scuola, pag. 90 6
Il piacere, dunque, secondo Leopardi, altro non è che una momentanea
assenza di dolore prodotta dal rifugiarsi nelle illusioni: grazie alla facoltà
immaginativa l'uomo può creare piaceri inesistenti, e immaginarli come infiniti
in numero, durata ed estensione. Non stupisce che per gli uomini la speranza
sia il bene maggiore e che la felicità corrisponda all'immaginazione stessa.
La natura fornisce tale facoltà all'uomo come strumento per giungere
non alla verità, ma ad un'illusoria felicità.
Leopardi si interroga anche sul rapporto tra piacere e dolore sostenendo
che, essendo il dolore e l’infelicità elementi costanti dell’esistenza umana, il
piacere non esiste se non come momentanea assenza di dolore.
In questo iter è inserito anche il concetto di amor proprio, di quel
legame naturale che ciascun individuo ha con se stesso che è alla base del
desiderio di felicità e che si caratterizza come altra fonte di illusione.
Nessuna dolce e nobile ed alta e forte illusione può stare senza la grande illusione
dell'amor proprio, l'illusione della stima di se stesso e della speranza. Togliete via
questa, tutte le altre verranno meno immantinente, e potrete conoscere allora che
questa era il fondamento e la nutrice, per non dir la radice e la madre di tutte l'altre.
G. Leopardi, Zibaldone, 1817/32
1.4 La noia e il taedium vitae
Alla teoria del piacere si collega il concetto di noia, effetto del
pessimismo universale e cosmico, formulato nello Zibaldone nel 1823 e ripreso
anche in opere successive.
La noia, il taedium vitae, inteso come stanchezza del vivere, viene
considerato da Leopardi, fra tutti i mali, il più angosciante e, nello stesso
tempo, ”più sublime” perché misura la grandezza dell’animo umano. Essa si
configura come desiderio astratto e assoluto, dunque inappagabile che invade
l’animo in assenza di dolore e di desiderio. 7
Secondo l’idea che il “sapere accresce il dolore”, sebbene secondo
Leopardi esso sia preferibile all’ignoranza, chi sa che la felicità è
irraggiungibile prova spesso questo senso invincibile di noia per la vita, per le
cose di ogni giorno, per l’epoca in cui vive. Tuttavia tale noia può costituire uno
stimolo alla conoscenza: può sollecitare azioni eroiche e grandi aspirazioni
come reazione agli stretti orizzonti che quotidianamente ci soffocano. Ciò
ricorre in alcune liriche e in diverse Operette morali, tra le quali la più famosa
è il Dialogo di Cristofolo Colombo e di Pietro Gudierez.
La noia, cioè il non essere mai soddisfatti di ciò che si ha o si è, non è un mal comune,
come è un male comune essere inoperoso o sfaccendato, ma è un sentimento che
provano soltanto coloro che hanno una certa superiorità intellettuale e spirituale, per i
quali essa (la noia) è qualcosa di penoso e terribile. La massima parte degli uomini
invece non avverte la noia, è anzi sempre soddisfatta di quello che ha e, quando è
inoperosa, non si annoia mai. Perciò gli uomini comuni non comprendono, anzi si
meravigliano quando gli spiriti sensibili parlano della noia come di uno dei maggiori mali
della vita. G. Leopardi, I Pensieri, LXVII
1.5 Leopardi e Schopenhauer
Le fasi del pensiero leopardiano fin qui analizzate ci portano ad un
collegamento immediato con il pensiero e le conclusioni del filosofo
irrazionalista Schopenhauer, soprattutto per quanto riguarda la visione
pessimistica dell’esistenza, il concetto del dolore e della noia, l’idea di una
felicità irraggiungibile.
In realtà il primo a porre in relazione i due intellettuali fu De Sanctis,
nel saggio del 1858, “Schopenhauer e Leopardi”, che rilevò sostanzialmente le
differenze tra i due autori. Il pessimismo di Schopenhauer, secondo De
Sanctis, è assoluto, astratto, metafisico dal momento che scaturisce da un
puro ragionamento senza tener conto dell’esperienza. Egli infatti considera la
realtà come forza cieca, volontà di agire per conservare la nostra esistenza, di
8
cui solo l’uomo ha coscienza. Dal momento che questa volontà cesserebbe di
esistere se non fosse soddisfatta ne consegue che è proprio nella nostra
natura avere costantemente desideri insoddisfatti, cioè dolore. Se la vita è
dolore il rimedio supremo al “male di vivere” è la “noluntas”, la non volontà,
l’indifferenza e il distacco totale dal mondo.
Il pessimismo leopardiano, sempre secondo De Sanctis, invece, ha una
genesi pratica: all’inizio è personale, poi storico, ed infine cosmico; tuttavia
Leopardi non si rassegna ma reagisce col sentimento cercando conforto e
rimedio al dolore. Sembrerà trovarlo nell’ultima fase della sua meditazione
rappresentata dalla Ginestra in cui esorta gli uomini alla solidarietà per
vincere, o almeno lenire, tutti insieme, in una “social catena”, il dolore.
Nell’ottica di De Sanctis, dunque, il pessimismo leopardiano da
distruttivo diviene attivo e costruttivo proteso alla costruzione di un mondo
migliore; visto in tale contesto si può parlare di “ottimismo” leopardiano.
In merito ai rapporti diretti tra Schopenhauer e Leopardi circolano
diversi luoghi comuni, ma sembra indubbio che, mentre Schopenhauer cita
Leopardi manifestando grande considerazione per “l’italiano” che ha saputo
rappresentare in maniera profonda il “dolore”, Leopardi, invece, non abbia
avuto modo di conoscere il pensatore tedesco.
Appare chiaro, tuttavia, che, sebbene vi siano alcuni punti specifici in cui
il loro “discorso esistenziale” presenti delle affinità, si tratta in realtà di due
esperienze intellettuali molto diverse, maturate in contesti storico-culturali
5
distinti .
1.6 A Silvia: essenza e caduta delle illusioni
All’interno del percorso poetico leopardiano, in relazione al tema delle
illusioni, mi è parso particolarmente rappresentativo il componimento “A
Silvia”, poiché in esso si possono cogliere alcuni aspetti particolarmente
5 N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Vol. C, Paravia, pag. 242 9
interessanti, relativi al tema delle illusioni e al sentire del poeta in merito ad
esse. La lirica, scritta a Pisa tra il 19 e il 20 Aprile del 1828, testimonia il
ritorno dell’ispirazione poetica nella città toscana dove il poeta si era
trasferito dal 1827 per problemi di salute. In questo contesto si manifestano i
ricordi e le illusioni di un tempo, della giovinezza, da cui scaturiscono i
cosiddetti “canti pisano-recanatesi”; in tali componimenti l’intimismo degli idilli
giovanili diviene espressione “oggettiva” e definitiva del dolore, del male
cosmico, secondo le conclusioni già espresse nelle “Operette morali”.
La struttura iniziale di questi componimenti poetici è analoga a quella dei
piccoli idilli: prende spunto da un particolare realistico, ma in seguito la poesia
si eleva a rappresentare il mistero e il dolore universale.
L’importanza di tali testi poetici, tuttavia, sta soprattutto nel
raggiungimento di quella “ lirica pura” intesa come voce del cuore realizzata sia
attraverso le tematiche sia attraverso un intenso linguaggio poetico.
Uno tra i più suggestivi di questi idilli è senza dubbio “A Silvia”, ispirato
dalla giovane figlia del cocchiere di casa Leopardi, Teresa Fattorini, morta di
tisi nel 1818 a soli 21 anni. L’episodio colpì profondamente il poeta, come
testimoniato da alcuni appunti, tanto da divenire fonte di riflessione ed
oggetto di un componimento poetico estremamente intenso e significativo.
Il punto di partenza della lirica è appunto rappresentato dal nome della
giovane, Silvia, a cui il poeta si rivolge chiedendo se essa ricorda quel tempo
della sua vita quando la bellezza ancora risplendeva nei suoi occhi e lei si
affacciava gioiosa e colma di speranze e di aspettative, alla soglia della
gioventù.
La domanda ovviamente è destinata a rimanere senza risposta, poiché
più avanti nel testo l’autore ci narra l’esito drammatico della vicenda di Silvia
(vv.40 sgg), ma offre lo spunto al poeta per ricordare alcuni momenti felici
della vita della fanciulla di cui lui fu spettatore. Tornano così alla memoria del
poeta le immagini e i sogni della giovinezza, di Silvia ma anche suoi, nella
cornice familiare di Recanati. 10
Qui lei, mentre era “all’opre femminili intenta” cantava gioiosamente
“assai contenta”, immaginando il proprio futuro; lui, “d’in su i veroni del paterno
ostello” abbandonando talvolta “le sudate carte”, gli studi che occupavano la
parte migliore della sua giovinezza, ascoltava la voce di lei, mentre osservava
con emozione il panorama intorno.
La chiusura della terza strofa descrive chiaramente l’impossibilità di
esprimere con le parole i sentimenti e le speranze presenti nel cuore del poeta
in quei momenti: “lingua mortal non dice quel che io sentiva in seno”.
La dolcezza del ricordo, le speranze e i sentimenti di quel passato
lontano sembrano ancora presenti nel cuore del poeta che pare ancora
rivolgersi a Silvia; tuttavia il ricordo di quelle speranze rende ancora più
doloroso il presente, la sua “sventura” che lo porta a porsi una domanda alla
quale non vi è risposta: “O natura, o natura, perché non rendi poi quel che
prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi? ”
Troviamo qui il tema dell’inganno della natura, ora chiaramente
“matrigna”, perché non mantiene quelle promesse di felicità con le quali illude
gli uomini in gioventù; questo è vero per il poeta ma soprattutto è emblematico
nella sorte di Silvia che morirà prematuramente.
I versi vv.40-48 narrano di questo evento, ma soprattutto di ciò che la
morte ha tolto a Silvia: la giovinezza, le speranze, le illusioni, l’amore.
Ancora una volta, il richiamo alla sorte di Silvia porta il poeta a valutare
la propria condizione: anche la sua speranza sarebbe morta di lì a poco dopo
aver preso coscienza del suo destino doloroso e dell’impossibilità di vivere una
giovinezza spensierata. Le domande accorate dei vv.56-59 esprimono tutto il
rammarico e il dolore di chi considera la propria condizione in modo realistico,
senza più il conforto delle “illusioni”: “Questo è il mondo? […] Questa la sorte