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Nel corso della storia, i paradossi sono stati utilizzati nei modi più svariati. Aristotele e Russel li hanno temuti come la natura aborrisce il vuoto, cercando di proporne soluzioni più o meno soddisfacenti e utili. Zenone e Hegel hanno abbracciato le.
Materie trattate: Filosofia, Fisica, Astronomia, Matematica, Storia dell'Arte, Letteratura italiana, Letteratura inglese, Letteratura latina, Storia.
come una caratteristica fondante della realtà. In breve egli riteneva che il paradosso di Zenone
costituisse sì una riduzione all’assurdo, ma non dello spazio e del tempo fisici, bensì della loro
rappresentazione concettuale. Egli concluse infatti asserendo che “la vita se la ride dei veti
logici”, e Achille sorpassa la tartaruga senza problemi.
L E ANTINOMIE KANTIANE
Le sono quattro paradossi logici contenuti nella Critica della ragion
antinomie kantiane
pura di Immanuel Kant. Antinomia deriva dal greco composto di "contro" e un
αντινοµια, αντι
derivato di "legge".
νοµος
Secondo Quintiliano, "la parola antinomia significa propriamente conflitto di leggi", un
concetto che Kant estese, come scrive nel suo "Dizionario di Filosofia" Nicola Abbagnano, ad
indicare il conflitto con sé stessa, in cui la ragione si trova in virtù dei suoi stessi procedimenti.
Alla maniera dei ragionamenti dei sofisti, le antinomie kantiane sono affermazioni
ciascuna dimostrabile logicamente ed in modo ineccepibile, senza contraddizione. In
opposte,
pratica, sono proposizioni probabilmente vere o false (ossia se ne può dare prova), ed
inconfutabili di per sé. Ciò in quanto hanno le loro fondamenta in un presupposto
inconoscibile, ossia la realtà, o nelle parole di Kant "la Dato che la
vera natura del mondo".
cosa in sé, ossia la realtà, è per Kant inconoscibile, la ragione non può dimostrare, né provare
certamente e in modo perentorio, alcuna delle quattro antinomie kantiane: in particolare,
afferma Kant, le tesi sono proprie del pensiero metafisico e del razionalismo, mentre le antitesi
sono tipiche dell'empirismo e della scienza. Inoltre, per quanto riguarda la terza e la quarta
antinomia, le antitesi potrebbero valere per il fenomeno (nel cui ambito non si incontrano mai
né Dio né la libertà) mentre le tesi potrebbero valere per la cosa in sé.
Queste le quattro antinomie di Kant:
• 1ª antinomia
Tesi: il mondo ha un inizio nel tempo e, nello spazio, è chiuso dentro limiti.
Antitesi: Il mondo è infinito sia nel tempo che nello spazio.
• 2ª antinomia
Tesi: ciascuna cosa è composta da parti semplici che costituiscono altre cose
composte da parti semplici.
Antitesi: non esiste nulla di semplice, ogni cosa è complessa.
• 3ª antinomia
Tesi: La causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono essere
derivati tutti i fenomeni del mondo. E’ necessario ammettere per la spiegazione di
essi anche una causalità per la libertà.
Antitesi: Nel mondo non c’è nessuna libertà, ma tutto accade unicamente secondo
leggi della natura.
• 4ª antinomia
Tesi: esiste un essere necessario che è causa del mondo.
Antitesi: non esiste alcun essere necessario, né nel mondo né fuori dal mondo che
sia causa di esso.
È così che con Kant il questa volta formulato sottoforma di antinomia, assume
paradosso,
una funzione positiva: esso mostra chiaramente il tentativo illusorio della ragione di conoscere
la totalità di una realtà che è, per definizione, inconoscibile, altro rispetto al mondo fenomenico.
’ ’
L IDENTITÀ DELL IDENTICO E DEL DIVERSO NELLA DIALETTICA HEGELIANA
Si è detto che Hegel abbracciò le contraddizioni della realtà nel suo sistema filosofico,
fondando su di esse il proprio rifiuto di una realtà statica, capace solo di mostrare
determinazioni separate le une dalle altre. Il sapere filosofico, afferma Hegel, è invece sistema,
ovvero totalità organica di concetti legati da un rapporto di opposizione-unificazione che solo
la ragione è in grado di ricostruire e comprendere.
Dialettica, in questo senso, è la parola chiave della filosofia hegeliana, poiché rappresenta il
processo costitutivo non solo del pensiero, ma della realtà stessa. Si pone quindi sia sul piano
ontologico come legge suprema del reale, e sul piano
legge del divenire per opposti,
gnoseologico come procedimento del pensiero filosofico.
legge della conoscenza del reale,
Grazie alla dialettica il sistema filosofico contiene in sé tutte le opposizioni e le riconduce a
unità, senza annullarle come tali. La realtà è infatti prima di tutto divenire, movimento,
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pertanto la verità non può essere un oggetto, un fatto, ma un risultato, e insieme il
dinamicità,
processo che lo ha prodotto: la verità è l’intero, afferma Hegel.
Il cuore della dialettica diventa così il movimento, il permanere del dileguare, e pertanto essa
si configura come movimento circolare con ritmo triadico, scandito cioè da tre momenti: il
il o della dialettica in
momento astratto o intellettivo, momento negativamente razionale
senso stretto, il momento positivamente razionale.
Nel primo momento l’intelletto considera i singoli concetti come a sé stanti, irrigidendoli
nelle loro determinazioni: esso fornisce quindi una conoscenza inadeguata, che resta chiusa nel
finito. È la ragione che guarda al di là di ogni specifica determinazione, smuovendo la rigidità
dell’intelletto e dei suoi prodotti. Ma ciò comporta che ogni determinazione colta dall’intelletto
venga a rovesciarsi nella determinazione contraria, dissolvendosi in essa. Il negativo che emerge
dal momento dialettico consiste nella manchevolezza che ciascuno degli opposti rivela quando
si misura con l’altro. Nel terzo momento l’opposizione viene a sua volta negata. Non annullata,
ma superata. È questo il compito del momento speculativo, che coglie l’unità delle
ovvero il positivo che emerge dalla risoluzione degli opposti,
determinazioni contrapposte,
superandoli in una sintesi che conservi quelle opposizioni in un livello superiore di
unificazione. Il momento speculativo è quindi un superare che è nello stesso tempo un “togliere
e conservare”: per questo motivo Hegel utilizza il termine Aufheben, che significa da un lato
togliere, negare, e dall’altro conservare.
Paradossalmente, quindi, in Hegel la comprensione della realtà implica la necessità di
superare la logica tradizionale, che, essendo ancorata ai principi di identità e di non
contraddizione, ci mostra la realtà come formata da determinazioni separate le une dalle altre.
Se prima il pensiero filosofico era basato sul principio secondo cui A=A, ora si ha un completo
rovesciamento di prospettiva: omnis determinatio est negatio, ogni determinazione è negazione,
scrive Hegel citando Spinoza, proprio perché nella realtà ogni concetto finito tende ad
oltrepassarsi, a negarsi nel suo circoscritto ambito di riferimento, per correlarsi a ciò che esso
“non è”. È così che il paradosso e la contraddizione divengono il fondamento ultimo del
pensiero filosofico, perché su di essi si basa lo sviluppo stesso della realtà.
K :
IERKEGAARD UNA FILOSOFIA DEL PARADOSSO
All’identità hegeliana di soggetto e oggetto, essere e pensiero, Kierkegaard risponde che la
e non vi è superamento di
vita intera è basata sulla contraddizione e sul paradosso,
contrari bensì alternative impegnative che si escludono a vicenda: non vi è nessun et et ma solo
un aut aut: o questo o quello, la vita è una scelta continua.
La vita religiosa, la fede, va al di là dello stesso ideale etico della vita. Il simbolo della fede
è visto da Kierkegaard nella figura di Abramo, perché egli accetta il rischio della prova
impostagli da Dio, accetta il rischio di porsi di fronte a Dio nel silenzio e nella solitudine, come
un singolo di fronte all’Altissmo. La fede va al di là della stessa morale perché Dio ordina ad
Abramo di sacrificargli il figlio, quindi di commettere un omicidio. Come poter accettare una
simile prova? Ma la fede consiste proprio in quel rischio, nell’accettazione del paradosso e
L’atto di fede implica una rottura recisa con la razionalità ed esige il passaggio, il
della prova.
salto, ad una sfera che è incommensurabile con la ragione naturale. L’oggetto della fede urta
contro la ragione che pretende di spiegare e di esaurire tutto e non ammette nulla sopra di sé:
per essa, che non vuole credere, Per il credente, che
l’oggetto della fede è un assurdo.
ammette la trascendenza ed è convinto che a Dio nulla è impossibile, esso è un paradosso. Il
paradosso nella verità religiosa dipende dal fatto che essa è la verità così come lo è per Dio. Qui
si usano una misura ed un criterio sovraumani, e rispetto a questo una sola situazione è
possibile: quella della fede. Proprio per il paradosso come tale il credente è portato a credere, e
non per una evidenza logica. Kierkegaard ha trovato una formula per esprimere il paradosso
della fede: “Comprendere che non si può (né si deve) comprendere”. Lo scandalo è per Kierkegaard il
momento cruciale nella prova della fede, il punto di resistenza e perciò il segno della
trascendenza della verità cristiana di fronte alla ragione. Lo scandalo indica il soccombere
perché è il rifiuto di "comprendere di non comprendere", giacché la ragione vuole
della ragione
solo comprendere. Per Kierkegaard l’origine dello scandalo nasce dal fatto che l’uomo non si
pone come "Singolo davanti a Dio", e cioè non accetta la misura di Dio. Quando ci poniamo
davanti a Dio non c’è più spazio per finzioni, mascheramenti, illusioni, vi è innanzitutto la
scoperta che "c’è un’infinita abissale differenza qualitativa tra Dio e l’uomo", e cioè che l’uomo non
può assolutamente nulla, che è Dio a dare tutto.
Ma oltre a questo si tratta, nel Cristianesimo, di ammettere che Dio stesso si è messo in
rapporto con l’uomo, che Dio è entrato nel tempo, che l’Eterno si è incarnato in un uomo, e
questo dà scandalo! L’oggetto dello scandalo è proprio la figura di Cristo, cioè è scandaloso
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credere che un uomo singolo sia Dio, che Gesù sia Dio. Le forme dello scandalo, a questo
riguardo, sono per Kierkegaard, tre : considerare Gesù come un semplice uomo in conflitto con
l’ordine stabilito (è lo scandalo che Gesù provocò sui Farisei e gli scribi); oppure lo scandalo
nel senso dell’elevatezza: se è un uomo, non può essere Dio, anche se Lui agisce come se fosse
Dio, dice di essere Dio (è lo scandalo dei nemici di Cristo); o ancora, lo scandalo in direzione
dell’umiliazione, che colui che pretende di essere Dio appare come un uomo povero, sofferente,
impotente (è tipico di coloro che hanno solo ammirazione per Cristo). Ora, la fede in Cristo è
proprio superamento dello scandalo ed accettazione del paradosso che è l’uomo-Dio; è accettazione del
fatto che la Chiesa sia militante e non trionfante. E questo può essere fatto solo con una scelta
di fede.
Nel pensiero di Kierkegaard, che rappresenta la rivincita della religione contro la filosofia,
della fede contro la ragione, sembra di riascoltare l’affermazione del teologo africano
del II secolo, al quale è attribuita la frase: "credo quia absurdum" ("credo perché è
Tertulliano
assurdo, perché è impossibile"). Secondo questo paradosso, scaturito da un fideismo
antintellettualistico, i dogmi della religione vanno difesi con convinzione tanto maggiore,
quanto minore è la loro compatibilità con la ragione umana.
La filosofia di Kierkegaard si pone quindi in netta antitesi con quella hegeliana. Hegel,
infatti, riduce tutta la realtà a uno Spirito universale e infinito. Kierkegaard, invece, afferma che
veramente reale non è l'astratta Ragione universale, ma cioè l'individuo particolare.
il singolo,
Kierkegaard, dunque, rivaluta lo spirito individuale, l’io empirico, che era considerato da
Hegel un semplice mezzo per l'affermazione dello Spirito universale, e contrappone alle tesi
hegeliane la concezione dell'uomo propria del cristianesimo, che assegna un valore infinito
proprio al "piccolo di ciascuno di noi.
io"
Secondo Kierkegaard le verità importanti sono le "verità soggettive", cioè quelle che
riguardano l’individuo, che gli dicono a che cosa egli è destinato, qual è lo scopo e il senso della
sua vita. Non sono invece importanti le "verità oggettive" circa lo Spirito assoluto, la Ragione
universale e l’Umanità di cui parlava Hegel. Kierkegaard concepisce così la verità come qualche