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Tesina - Premio maturità 2008
Titolo: Il mito e il simbolo nell'opera di cesare pavese
Autore: Isabella Bossolino
Descrizione: analisi della funzione del mito (principalmente greco, ma non solo) e dell'utilizzo del simbolo nelle opere poetiche e prosastiche di c. pavese, con riferimenti alla psicologia e all'antropologia.
Materie trattate: letteratura italiana
Area: umanistica
Sommario: Nell'opera del grande Cesare Pavese è possibile individuare frequentemente, quasi continuamente, riferimenti più o meno espliciti alla mitologia: i lavori da lui composti, infatti, traboccano di simboli e immagini che il lettore attento può facilmente ricondurre alla sfera mitica. La riflessione sul mito, perciò, è una componente fondamentale del pensiero pavesiano. Gli studi che sono alla base di questa concezione dell'utilità del mito sono diversi: dalla meditazione sul Vico agli studi di etnologia e antropologia fino a un certo interesse per l'irrazionalismo decadente. In particolare, è evidente lo studio delle teorie junghiane sull'inconscio: infatti, particolarmente significativa per la comprensione delle opere di Pavese è l'idea del mito come espressione dell'inconscio collettivo, grande scoperta dello psicanalista svizzero. Egli infatti afferma: "I miti sono, originariamente, rivelazioni dell'anima pre-cosciente, involontarie testimonianze di processi psichici inconsci e tutt'altro che allegorie di processi fisici. Allegorie di questo genere non sarebbero che giuochi oziosi di un intelletto non scientifico. I miti, invece, hanno un significato vitale. Essi non esprimono soltanto, ma sono essi stessi a costituire la vita psichica della tribù primitiva che si disgrega e tramonta, non appena viene a perdere la sua eredità mitica, come un uomo che perda la propria anima". Il patrimonio mitico, dunque, ha una funzione fondamentale perché esprime in maniera universale e definitiva la storia e l'esistenza umana, rendendola immortale e incancellabile. Lo scrittore di Santo Stefano Belbo, infatti, elaborò a partire da queste considerazioni una idea-base secondo la quale "in noi, in un aurorale contatto col mondo, si creano miti, simboli, che assurgono a significazione delle cose, irrazionale ma definitiva e determinante per il futuro: una sorta di memoria del sangue" (Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento). Lo stesso Pavese afferma in Feria d'agosto, dunque, che il mito è qualcosa fatto "una volta per tutte, che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo, in grazia appunto della sua fissità non più realistica [â⬦] Per questo esso avviene sempre alle origini, come nell'infanzia: è fuori del tempo". Il compito dell'artista, quindi, sta, secondo lui, nell'escavazione di questo fondo mitico, primigenio e irrazionale, nel recupero dei suoi momenti esemplari, nel dare forma, parola a tutto ciò.
Inoltre, il riferimento taurino assume grande rilevanza nel dialogo, tratto dall’opera
Dialoghi con Leucò, Il toro.
intitolato proprio Dalle parole che Teseo, di ritorno
dall’impresa cretese, rivolge all’amico Lelego si comprende la valenza simbolica del
sacrificio taurino nella concezione religiosa arcaica: “Penso agli ultimi giorni nella
reggia, quella casa tutta fatta di piazze, e i soldati mi chiamavano il re-toro, ricordi?
Quel che si uccide si diventa, nell'isola. […] in quell’isola si uccidono gli dei, come
le bestie. E chi li uccide si fa dio”. L’identificazione tra epifania animale e dio stesso
è completa e la forza del sacrificio sta proprio in questo, nella sostituzione
dell’uomo alla figura divina: il fatto che nei riti attici e tessalici l’ascia colpevole di
aver ucciso il toro sacro venisse sottoposta a un vero e proprio processo ci fa
comprendere, come afferma il Frazer, che “il bove era qui considerato non soltanto
una vittima offerta al dio, ma una creatura sacra in se stessa”; sacra proprio perché
uccidendo quest’animale si uccideva lo stesso dio e si guadagnava, in quanto
vincitori, la possibilità di prendere il suo posto.
Infine, sempre dalle pagine della Philippson apprendiamo che il toro nella
religiosità greca veniva considerato anche come epifania di un altro dio, Dioniso,
non solo emblema della ferinità e della oscura istintività insita nell’inconscio
umano, ma anche strettamente legato alla vegetazione e alla Natura, in quanto “il
toro incarna comunemente lo spirito del grano nell’Europa orientale” (James
Il ramo d’oro).
Frazer,
La capra e Dioniso Paesi
Un altro animale importante in numerosi scritti di Pavese, ma in particolare in
Tuoi, è la capra: è facile notarla, infatti, perché essa, apparentemente in modo
avulso dallo svolgimento della storia, continua a scappare dal proprio recinto,
cercando la libertà sulle colline. Il simbolo che essa incarna è chiaramente quello di
Dioniso: come ci ricorda il Frazer, questo dio viene molto spesso associato a
divinità silvestri minori tipicamente caprine, come i Fauni, i Satiri, i Sileni e i Pani, e
l’animale sacro al giovane dio è proprio il capro. Il riferimento a Dioniso, già
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individuabile attraverso la figura del toro, è significativo, poiché esprime uno dei
temi più cari al Pavese narratore di vite collinari: la violenza e l’istintività delle
campagne piemontesi, del tutto lontane dalla regolarità e dall’apparente civiltà
cittadina. La capra che corre tranquilla su e giù per i pendii diventa la
manifestazione esteriore dell’animo dei personaggi, in particolare di Talino, talvolta
addirittura descritto con “occhi da caprone”: l’animalità del personaggio, sempre
inquieto e pronto alla violenza, infine capace di uccidere la sorella, è espressione
anche dell’ambiente in cui vive, dell’asprezza e della durezza delle colline, della
terra bruciata dal sole, di quella voglia di indipendenza e di libertà dalle
convenzioni cittadine che la solitudine del paesaggio collinare mette in corpo.
Il fanciullo orfano
La condizione di orfano, solo marginalmente toccata in altre opere di Pavese,
La luna e i
assume estrema importanza nel suo romanzo probabilmente più noto,
falò : in esso, infatti, il protagonista, Anguilla, è orfano e, dopo essere cresciuto con
la famiglia adottiva e aver lavorato come bracciante nella zona di Santo Stefano
Belbo, è andato negli Stati Uniti a far fortuna per poi tornare almeno una volta nei
luoghi della sua infanzia. “Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove sono nato non
lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa
dire ‘Ecco cos’ero prima di nascere’. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai
boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del
duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna”: proprio la
consapevolezza di non appartenere completamente a quest’ambiente è ciò che
permette al giovane Anguilla di trovare il coraggio per imbarcarsi e vedere il
mondo; gli altri ragazzi della collina non riuscirono mai a staccarsi dalle profonde
radici, forse perché, proprio come afferma l’amico Nuto, “per farcela a vivere in
questa valle non bisogna mai uscirne”. La condizione di orfano, dunque, per
quanto inizialmente negativa e crudele per un bambino mai accettato fino in fondo
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dalla comunità, si rivela infine utile e spronante, permettendogli di farsi una vasta
esperienza di vita.
La duplice valenza di questa condizione si rivela molto interessante se confrontata
con i miti più antichi di varie religioni arcaiche, soprattutto di quella greca.
Prolegomeni allo studio scientifico
Nell’opera di Carl Gustav Jung e Kàroly Kerényi
della mitologia viene mostrata in modo esemplare l’importanza della figura
dell’orfano nella storia delle religioni. Kerényi, infatti, evidenzia che “il fanciullo
divino è per lo più un trovatello abbandonato”, il cui padre è spesso il nemico
principale e la cui madre è assente o del tutto impotente, e adduce esempi illustri
come Zeus, Dioniso, Hermes e Apollo. Questa disgraziata condizione iniziale, però,
non è assolutamente priva di significato: anzi, come ci spiega Jung, “essere
abbandonati, esposti, minacciati ecc. fa parte dell’ulteriore elaborazione dell’inizio
insignificante nascita misteriosa e prodigiosa”;
da una parte, d’altra parte della in altri
termini, quindi, il dio deve partire da una condizione svantaggiata e di minoranza,
che ne accentui però il carattere unico e straordinario, per poi giungere a una
coscienza superiore, a una essenza più propriamente divina. Questo viene espresso
chiaramente nel tema del distacco dalle origini, estremamente importante nel
romanzo di Pavese e così spiegato dallo psicologo: “<<Fanciullo>> significa
qualcosa che si sta maturando all’autonomia. Esso necessita un distacco dalle
origini: lo stato d’abbandono è dunque una condizione necessaria, non un semplice
fenomeno accessorio. Il conflitto non si supera, se la coscienza rimane attaccata ai
contrasti”. Solo attraverso un allontanamento radicale dal vecchio ordine, dalla
stagnante situazione originaria il soggetto è in grado di risolvere il conflitto, di
raggiungere una consapevolezza diversa, di offrire soluzioni nuove e forse
rivoluzionarie (in particolare è il caso di Zeus e Dioniso).
Un’altra caratteristica fondamentale del giovane dio (e di Anguilla) è la continua
solitudine, solo sporadicamente interrotta da brevi incontri con altri personaggi, ma
comunque sempre vissuta come vera e propria condizione esistenziale. Sempre
rifacendoci alle parole di Jung possiamo dire che coloro che hanno avuto il coraggio
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(o il destino) di allontanarsi dalle proprie origini diventano “Illuminatori, cioè
accrescitori della coscienza”: “essi sconfiggono le tenebre, cioè il precedente stato
d’incoscienza. Una coscienza più alta, che significa un sapere oltre ai limiti della
solitudine universale.
coscienza attuale, equivale a una La solitudine esprime il
contrasto tra il portatore o simbolo della coscienza superiore e il suo ambiente”.
L’illuminatore, dunque, non può essere accettato dalla società, perché destinato
all’incomprensione e alla diffidenza generali: il caso emblematico è chiaramente
Dioniso.
La solitudine, però, è in grado di evidenziare anche un altro carattere dell’orfano: lo
strettissimo legame con la natura e l’elemento primordiale del mondo. Secondo
l’analisi di Kerényi “ciò che dal punto di vista della vita umana significa una
situazione eccezionalmente triste, la posizione minacciata e perseguitata
dell’orfano, appare sotto tutt’altra luce nella mitologia. Essa si svela come la
solitudine degli esseri elementari, solitudine confacentesi all’elemento
primordiale”. La figura simbolo di questa esperienza è Zeus: “appena nato, sua
madre lo espone – per salvarlo. Le nutrici divine e animalesche nel mito di Zeus, o
solitudine
l’imitazione di esse nel culto di Dioniso bambino, esprimono due cose: la
familiarità
del fanciullo divino e, d’altra parte, la sua con il mondo primordiale”.
Quindi il dio non è solo colui che acquisisce una coscienza superiore, ma anche
colui che partecipa pienamente della vita della natura; colui che è portatore di una
concezione del mondo innovativa, ma che allo stesso tempo incarna gli elementi
primordiali dell’uomo.
Riflesso di queste caratteristiche, tutte riferibili ad Anguilla, è anche il piccolo
Cinto, disgraziato ragazzo di campagna, cresciuto nella piena asprezza e violenza
della famiglia d’origine e della collina: egli rappresenta quasi ovviamente il doppio
del protagonista, che attraverso di lui rivive alcune delle sensazioni che solo il
paesaggio collinare è in grado di trasmettergli. 7
La tradizione popolare
I falò e le feste del fuoco
La luna e i falò,
Nel romanzo si possono individuare tre tipi di fuochi fondamentali
per lo sviluppo della storia: i grandi falò accesi dai contadini in occasione della
festività di San Giovanni, l’incendio appiccato alla Gaminella dall’ultimo
proprietario, il Valino, e il fuoco che ha incenerito il corpo della giovanissima
Santina, simbolo stesso della violenza della guerra e dell’impossibilità di rivivere il
passato dopo un evento tanto traumatico. In particolare assumono grande rilevanza
i grandi fuochi di mezz’estate o di San Giovanni, celebrati appunto nel periodo del
solstizio estivo: questi falò si rifanno a una tradizione vastamente diffusa in tutta
Europa da moltissimi secoli, quasi certamente di origine precristiana. Come ci dice
Il ramo d’oro
il Frazer nel suo : “Da un tempo immemorabile i contadini d’ogni parte
d’Europa hanno usato accendere dei falò, i cosiddetti fuochi di gioia, in certi giorni
dell’anno, ballarvi intorno e saltarvi sopra”. I fuochi accesi dai contadini delle
colline piemontesi, però, non si limitano soltanto ad esprimere la gioia per i
festeggiamenti, ma hanno anche la funzione di rendere fertile e produttiva la terra
dei contadini che li accendono; è una tradizione estremamente radicata nella
cultura contadina, tanto che perfino una persona di una certa cultura come Nuto, il
grande amico del protagonista, si sente in dovere di difenderla dallo scetticismo di
Anguilla: “<<Fanno bene sicuro>> saltò. <<Svegliano la terra>>. <<Ma, Nuto>>
dissi, <<non ci crede neanche Cinto>>. Eppure, disse lui, non sapeva cos’era, se il
calore o la vampa o che gli umori si svegliassero, fatto sta che tutti i coltivi dove
sull’orlo si accendeva il falò davano un raccolto più succoso, più vivace”. La forza
distruttiva tipicamente associata al fuoco, come nel falò di Santina o in quello
scatenato dalla disperazione del Valino, in queste manifestazioni viene del tutto
accantonato per fare anzi posto a una concezione positiva e fruttifera dell’azione
del fuoco: come per la concezione ambivalente del sole, anche in questo caso ci si
può rifare ai miti che individuano nelle fiamme non soltanto un simbolo di morte,
ma anche il principio della rigenerazione, di una nuova vita. 8
I
Un altro testo significativo per comprendere la simbologia del fuoco è il dialogo
fuochi : in esso due pastori, padre e figlio, discutono dell’antica usanza contadina di
accendere falò propiziatori in determinati periodi dell’anno, per invocare la pioggia
e la prosperità della terra. Sono quelli che il Frazer definisce “fuoco di necessità o
fuoco di miseria” (“Notfeuer” per i popoli teutonici): “i contadini di molte parti
d’Europa ricorrono da età immemorabile in tempi di bisogno o di calamità a un
rituale del fuoco a intervalli irregolari […] possono forse considerarsi come la
sorgente e l’origine di tutte le altre feste del fuoco. Certo essi datano da una
remotissima antichità”. In particolare, in questo dialogo, ambientato in Grecia,
vicino al monte Citerone, viene affrontato il tema del sacrificio umano attraverso le