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Italiano: Giacomo Leopardi. Dialogo di un fisico e di un metafisico.
Filosofia: Friedrich Nietzsche. L'eterno ritorno dell'identico. Hannah Arendt. La vita della mente.
Fisica: Albert Einstein. Il concetto di simultaneità.
Scienzae: L'era di Plank. La nascita dell'universo.
Arte: Fotografia e pittura: due discipline a confronto.
Uno sguardo introspettivo
0.1. Come lo vivo, come lo vedo
Noi uomini e donne abbiamo la straordinaria capacità di gerarchizzare gli attimi, i singoli momenti
della nostra breve vita, andando contro a una percezione neutrale ed apatica del tempo.
Ognuno di noi sa che nella vita ci sono attimi più importanti, più significativi, più speciali di altri;
ognuno di noi sa bene che nella vita ci sono stati dei momenti che ci hanno cambiato, che ci hanno
segnato, che ci hanno resi quello che oggi siamo.
Il tempo è lo stesso per tutti, ma la nostra benedizione è che ognuno è in grado di viverlo in maniera
differente, rendendolo qualcosa di unico, di estremamente personale ed intimo.
Per questo sono orgoglioso di essere un uomo, una creatura in grado di valorizzare ciò che è
infinito, ciò di cui non conosce né inizio né fine, proprio grazie alla sua limitatezza, la quale
permette di dare al tempo un significato, la quale gli permette di definire l’attimo nell’assoluto.
Ma sono anche convinto che l’uomo non possa vivere in maniera totalmente pura, incontaminata e
trasparente tutti i singoli attimi della sua vita, perché in ognuno di essi c’è qualcosa di più, c’è
l’individuo, c’è il soggetto che li vive ed è dotato di memoria e di ragione.
Se la prima lo porta a ricordare il passato e a trasporlo sugli avvenimenti quotidiani, sugli attimi
presenti, la seconda lo porta a tentare di prevedere il futuro in conseguenza dell’azione che sta
svolgendo; ogni istante è così il presente che interseca in sé passato e futuro.
0.2. La caccia
Noi umani non ci siamo mai limitati e non ci limitiamo tutt’oggi a vivere “il qui ed ora” come
semplice attimo che fugge; lo vorremmo anche catturare.
Andiamo a caccia dell’attimo per poterlo rendere di nuovo “tangibile”.
Le prime forme d’arte, il dipinto, la scultura, l’architettura, persino l’odierna fotografia sono tutte
armi da caccia che permettono all’uomo di vivere nel presente l’attimo passato, di poterlo rivivere
all’infinito nel futuro.
Tutto questo perché l’attimo assume un valore molto intenso, che va oltre l’oggettività del momento
in sé, diventando la rappresentazione della condizione (morale, fisica, politica, sociale, psicologica,
umana, reale, astratta) del soggetto, qualunque esso sia. 3
La concezione oraziana dell’attimo
1.1. Una filosofia di vita
Orazio propone una vera e propria filosofia di vita atta ad indicare la via per poter vivere ogni
attimo, ogni singolo momento della vita nel migliore dei modi possibili.
Il poeta di Venosa sviluppa il suo pensiero partendo da un presupposto ben preciso: nessun
individuo può sottrarsi al continuo, infinito scorrere del tempo che caratterizza ogni singola
esistenza. In questa prospettiva, dove l’ultima tappa del destino umano è la morte, Orazio vede
inutile ed immotivato il continuo affannarsi degli uomini che vivono la vita dominati
principalmente da:
1) paura della morte; 2) volontà di migliorare la propria condizione sociale.
Una vita vissuta in questo modo è per Orazio infelice. È da chiarire, però, che il poeta non aspira a
fornire la “ricetta della felicità”, vuole invece indicare il modo per poter godere appieno di ogni
singolo momento felice della vita.
Per prima cosa consiglia di restare in quella condizione di equilibrio stabile, in quell’aurea
mediocritas in cui si è immuni dai problemi del ricco e dalle sofferenze del povero.
In questa condizione, infatti, si tengono lontane sia l’enorme sofferenza causata dalla povertà, sia i
problemi e le invidie portate da una grande ricchezza, poiché chi vive la vita secondo questo ideale
di equilibrio non è né povero né ricco; è “il giusto”.
Un’altra esortazione lanciata dal poeta per realizzare questa sua “filosofia di vita” è contenuta
nell’opera Carpe diem, che tratta specificatamente della concezione dell’attimo e che ora andremo
ad analizzare:
Carmina I, 11 Carpe diem
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques, et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero. 4
1.2. La sacrilega dannosità della previsione
Prevedere il futuro, l’avvenire era pratica assai diffusa tra i romani, ed è su questo che Orazio
intervenne.
Colui che interroga gli oracoli, colui che vuole conoscere ciò che ancora deve succedere, mai sarà
felice perché non coglie il presente, non gode appieno dell’attimo che sta vivendo, sacrificandolo in
virtù di qualcosa che è profondamente incerto.
È questo un altro tassello che aiuta a delineare il profilo della concezione filosofica oraziana.
Il futuro è incerto ed ha come meta la morte; questo è ciò che orienta il pensiero del poeta verso una
soluzione apparentemente tanto semplicistica: “non preoccuparsi delle cose “futili”, del futuro,
poiché esso non ci riguarda, è indecifrabile”.
In realtà il messaggio è molto profondo, il poeta vuole sottolineare che l’infelicità umana è dovuta
al fatto che ormai si è disimparato ad apprezzare veramente gli attimi soavi della vita, non si
gustano più i doni del destino, i momenti immensamente belli dell’esistenza, perché nel momento
stesso in cui si stanno vivendo si è già proiettati verso un futuro a-venire.
Ma questo porta inevitabilmente a non apprezzare, a non cogliere l’immensa bellezza della vita che,
nella sua totalità, è colma di attimi piacevoli degni d’esser vissuti ognuno pienamente, ognuno con
grande dedizione. Anche le cose più semplici, in questo contesto, acquistano nuovo significato, e
dentro questo orizzonte si può iniziare ad apprezzare ciò che prima si considerava consuetudine,
ovvietà, dando vita alla vita, donandole pienezza. Al fine di comprendere appieno questa
concezione possiamo analizzare alcuni aspetti significativi del testo.
Per prima cosa è da notare l’espressione “Scire nefas” che si traduce così:
«Tu non chiedere, è vietato saperlo, quale fine a me e quale destino a te
gli Dèi abbiano concesso, o Leuconoe, e non consultare i calcoli babilonesi…».
Nefas è composto dalla negazione –ne e dal sostantivo indeclinabile neutro fas, dove fas aveva per i
romani il significato di “diritto divino” realizzato dalla volontà degli dei; era una legge che si
autoimponeva ed il –ne indicava violazione, indicava il non rispetto di questa sacra legge. Secondo
Orazio, quindi, interrogarsi sul futuro era ben più del non godersi appieno l’attimo presente, era
infrangere una legge divina, era un sacrilegio da evitare assolutamente.
Un altro aspetto importante che rende l’idea dello scorrere travolgente, caotico, rapidissimo del
tempo è contenuto nei versi finali del brano:
«[…] giacché è breve la durata della vita, accorcia la speranza che va lontano. Mentre parliamo il
tempo è già fuggito. Cogli l'attimo, confidando il meno possibile nel futuro».
Nella sua ode Orazio sottolinea il disperato fuggire del tempo, l’impossibilità degli uomini di tenere
il suo passo; il rischio di non cogliere il presente. 5
Giacomo Leopardi e l’attimo
2.1. Il pessimismo cosmico
Fondamentale è l’evoluzione del pensiero leopardiano che tra il 1820 ed il 1824 subisce una
profonda crisi strutturale. Dal cosiddetto pessimismo storico, che considerava l’infelicità umana
come conseguenza diretta del comportamento dei soli uomini, si passa al più cupo e profondo
pessimismo cosmico che scompagina il pensiero precedente del poeta. Per prima cosa c’è da chiarire
che, secondo questa visione, l’uomo non è più responsabile della sua infelicità; infatti, nel momento
stesso in cui nasce, è soggetto alla malignità della natura che lo rende desideroso di vivere una vita
che essa stessa ha predisposto all’infelicità. Ecco che quindi l’uomo è destinato, o meglio, costretto
a vivere una vita infelice, proprio perché l’infelicità è ingrediente insito alla vita stessa.
Il pessimismo cosmico scaturisce principalmente da quattro motivazioni:
1) Il peggioramento delle condizioni fisiche del poeta, un’ulteriore dimostrazione, provata sulla sua
pelle, della malvagità della natura;
2) lo studio di filosofi antichi (stoici in particolare) quali Epitteto ed Epicuro, i quali erano
l’evidente prova che già nel passato gli uomini cercavano una soluzione all’infelicità. Col
tetrafarmaco, ad esempio, Epicuro voleva guarire i turbamenti dell’animo umano, l’infelicità
provata dall’uomo, proponendogli una “ricetta” - il tetrafarmaco appunto - in grado di annullare
le sofferenze dell’esistenza;
3) la formulazione della “Teoria del piacere”, che afferma l’impossibilità dell’uomo di raggiungere
la felicità. Secondo Leopardi, l’uomo non potrà mai essere felice perché desidera una felicità
illimitata, mentre la felicità, che invece può provare, è limitata in termini di durata e di estensione.
In parole più semplici, la felicità umana non può essere di durata infinita e nemmeno di intensità
totale poiché l’uomo è mortale e ciò che gli può provocare felicità è finito e limitato; non può,
quindi, derivare da ciò che è limitato e finito una felicità illimitata ed infinita.
“Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché ingenita o congenita coll'esistenza, e
perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente
termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione. Quindi non ci può
essere nessun piacere che uguagli 1. né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, 2. né la
sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista
limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto.”
(Zibaldone di pensieri: p. 165)
4) la convinzione dell’insensatezza della vita, che è solamente un ciclo cieco di nascita e di morte
uguale per tutti gli individui, nel quale la natura manifesta, nella maniera più esplicita, la sua
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indifferenza nei confronti del genere umano, il suo interesse rivolto solamente ad indurre alla morte
ogni singolo individuo per poter perpetrare all’infinito questo cieco ciclo.
2.2. Dialogo di un fisico e di un metafisico
È in questo periodo di evoluzione del suo pensiero, che Leopardi decide di abbandonare
momentaneamente la poesia per approdare alla scrittura in prosa, attraverso la quale si dedica alla
stesura delle Operette morali, scritti satirici che trattano di aspetti esistenziali, e dunque morali, di
grande intensità e fondamentali per definire i lineamenti del suo pessimismo.
Tra le 24 Operette morali, ho deciso di analizzare “Dialogo di un fisico e di un metafisico”, nella
quale ho trovato interessanti spunti di riflessione in rapporto alla realtà dell’attimo.
Il dialogo vede un fisico ed un metafisico impegnati in una discussione sull’utilità della possibilità,
grazie ad una scoperta sensazionale da parte del fisico, di vivere in eterno.
Fisico. Eureca, eureca.
Metafisico. Che è? che hai trovato?
Fisico. L'arte di vivere lungamente.
Metafisico. E cotesto libro che porti?
Fisico. Qui la dichiaro: e per questa invenzione, se gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo
meno in eterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.
Metafisico. Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro,
sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e
cavare il libro, quando sarà trovata l'arte di vivere felicemente.
Fisico. E in questo mezzo?
Metafisico. In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse l'arte di viver
poco.
Fisico. Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu difficile a trovarla.
Metafisico. In ogni modo la stimo più della tua.
Fisico. Perché?
Metafisico. Perché se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve