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Storia : la crisi del '29;
Inglese: il crollo della Lehman Brothers.
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Se ad uno studente di economia fosse chiesto di trattare l’argomento della “grande crisi”, certamente
inizierebbe con l’analizzare la dinamica di quel fatidico ottobre del 1929, nel corso del quale, in seguito al
massiccio crollo dei valori in borsa, finirono in fumo decine di milioni di dollari e iniziò un decennio
drammatico, caratterizzato dal fallimento di molte imprese, dalla depressione delle attività produttive e da
una disoccupazione diffusa e persistente, fenomeno che presto si sarebbe esteso a tutti i Paesi industriali.
L 1929
A CRISI DEL
Alla fine degli anni ’20 l’Europa e il mondo sembravano avviati a superare i traumi e le ferite del primo
conflitto mondiale. L’Occidente capitalistico aveva ripreso a svilupparsi con discreta regolarità, quando su di
esso si abbatté una crisi economica tanto imprevista quanto catastrofica. Scoppiata negli Stati Uniti
nell’autunno del 1929 e prolungatosi per buona parte degli anni ’30, la crisi economica fece sentire i suoi
effetti anche sulla politica e sulla cultura, sulle strutture sociali e sulle istituzioni statali, segnando una netta
cesura nello sviluppo storico delle società occidentali.
Gli Stati Uniti e il crollo del 1929
Durante la Grande Guerra gli Stati Uniti non solo avevano rinsaldato la loro posizione di primo paese
produttore, ma avevano anche concesso cospicui prestiti ai loro alleati in Europa, divenendo il maggior
esportatore di capitali. Il superamento della depressione postbellica del 1920-21 segnò per il sistema
economico statunitense l’inizio di un periodo di grande prosperità.
La diffusione della produzione in serie e della razionalizzazione del lavoro in fabbrica favorì notevoli
aumenti di produttività. Salì la produzione industriale e, con essa, il reddito nazionale anche se,
contemporaneamente, diminuì il numero degli occupati nell’industria, poiché gli sviluppi della tecnica
causarono una diminuzione della quantità di lavoro necessaria ad ottenere un determinato prodotto. Crebbe,
invece, l’occupazione nel settore dei servizi, mentre la larga diffusione dell’automobile e degli
elettrodomestici – radio, frigoriferi, aspirapolvere – trasformò gli Stati Uniti in un laboratorio dove per la
prima volta fu sperimentato un nuovo modo di vita, caratterizzato da una progressiva standardizzazione dei
consumi.
In questo periodo i repubblicani, che rimasero al potere per tutti gli anni ’20 attuando una politica
rigidamente conservatrice, alimentarono le più ottimistiche aspettative sui destini della prosperità americana,
senza troppo preoccuparsi dei gravi problemi sociali che pure continuavano a manifestarsi nel paese.
La distribuzione dei redditi, infatti, era fortemente sperequata e comportava l’emarginazione di consistenti
fasce della popolazione. Si aggiunse, inoltre, un’ondata di conservatorismo ideologico che investì in primo
luogo le minoranze nazionali e razziali. Contemporaneamente si inasprirono le pratiche discriminatorie nei
confronti della popolazione di colore e la setta del Ku Klux Klan, espressione del razzismo più isterico,
raggiunge negli Stati del Sud le dimensioni di un’organizzazione di massa.
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Questa realtà sociale così contraddittoria non intaccava però il sostanziale ottimismo della borghesia
nordamericana e la sua fiducia in una continua moltiplicazione della ricchezza e in un indefinito processo di
crescita.
La conseguenza più vistosa di questo clima fu la frenetica attività della Borsa di New York – denominata
Wall Street dal nome della via in cui tuttora ha sede. Incoraggiati dalla prospettiva di facili guadagni, infatti
i risparmiatori acquistavano azioni per rivenderle a prezzo maggiorato, facendo assegnamento sulla continua
ascesa delle quotazioni, sostenuta dalla crescente domanda di titoli. Questa incontenibile euforia speculativa
poggiava in realtà su fondamenti assai fragili.
L’industria statunitense aveva ovviato a queste difficoltà con l’aumento delle esportazioni nel resto del
mondo, in particolare nel vecchio continente. Così fra economia americana ed economia europea si era
venuto a creare uno stretto e proficuo rapporto di interdipendenza: l’espansione americana finanziava con un
cospicuo afflusso di prestiti la ripresa europea e quest’ultima, a sua volta, alimentava con le sue importazioni
lo sviluppo degli Stati Uniti.
Quando, nel 1928, molti capitali americani furono dirottati dai finanziamenti europee verso le più redditizie
operazioni speculative di Wall Street, le conseguenze sull’economia europea si fecero sentire
immediatamente, ripercuotendosi subito dopo sulla produzione industriale americana, il cui indice cominciò
a scendere già nell’estate del 1929.
In una situazione già incerta e carica di segnali allarmanti si abbatterono gli effetti catastrofici del crollo
della Borsa di New York: un evento che fu l’elemento propulsore che portò d’un tratto in superficie tutti gli
squilibri accumulatisi nel precedente periodo di espansione.
Il crollo dei titoli a Wall Street raggiunge i livelli più elevati all’inizio del settembre 1929. Seguirono alcune
settimane di incertezza durante le quali cominciò ad emergere la tendenza degli speculatori a liquidare i
propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni fino ad allora ottenuti. Il 24 ottobre, il “giovedì nero”,
furono venduti 13 milioni di titoli, il 29 ottobre 16 milioni. La corsa alle vendite determinò naturalmente una
precipitosa caduta del valore dei titoli, distruggendo in pochi giorni i sogni di ricchezza dei loro possessori.
A metà novembre le quotazioni si stabilizzarono su valori più o meno dimezzati. Ma intanto molte fortune si
erano volatilizzate.
Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti. Ma, riducendo drasticamente la
loro capacità di acquisto e di investimento, finì con l’avere conseguenze disastrose sull’economia di tutto il
paese e sull’intero sistema economico mondiale, che ormai dipendeva in larga parte da quello statunitense.
Gli effetti planetari della crisi furono aggravati dal fatto che gli Stati Uniti cercarono innanzitutto di
difendere la propria produzione inasprendo il protezionismo e contemporaneamente ridussero, fino a
sospenderla, l’erogazione dei crediti all’estero. Il protezionismo statunitense indusse gli altri paesi ad
adottare misure analoghe a difesa della propria bilancia commerciale. Fra il 1929 e il 1932 – l’anno in cui la
crisi giunse al culmine – il valore del commercio mondiale si contrasse di oltre 60% rispetto al triennio
precedente. 6
Attraverso la contrazione degli scambi, la recessione economica si diffuse in tutto il mondo – con la
significativa eccezione dell’Unione Sovietica – come una spaventosa epidemia, presentandosi ovunque con i
medesimi sintomi e con la stessa dinamica: un’industria chiudeva i battenti perché priva di ordini,
licenziando i suoi dipendenti; i lavoratori privi di occupazione erano costretti a ridurre i loro consumi; il
mercato diventata così sempre più svigorito, provocando il crollo di altre imprese, portando alla rovina gli
esercizi commerciali e aggravando la crisi dell’agricoltura che non trovava più sbocchi per i suoi prodotti.
Fra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30% e quella di materie prime del
26%. I prezzi caddero bruscamente sia nel settore industriale sia, soprattutto, in quello agricolo – dove il calo
fu di oltre il 50%. I disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli Stati Uniti e di 15 milioni in
Europa, cui si deve aggiungere la cifra, ingente anche se incalcolabile, dei sottoccupati.
Nel complesso un consistente impoverimento colpì la massa dei lavoratori urbani e rurali, generando uno
stato di diffusa incertezza, una crisi di sfiducia che in molti paesi fu all’origine di profondi mutamenti
politici. Le reazioni alla crisi mondiale
In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrappose una crisi finanziaria che ebbe le
sue prime manifestazioni in Austria e in Germania, dove si giunse al collasso del sistema bancario. Alla crisi
bancaria seguì una crisi monetaria. I crolli verificatisi in Austria e Germania provocarono un allarme
incontrollato sulla solidità delle finanze inglesi – molti capitali britannici erano stati infatti investiti in questi
due paesi - e sulla stessa tenuta della sterlina. Le banche inglesi dovettero far fronte a un precipitoso ritiro
dei capitali stranieri e ad ingenti richieste di conversione delle sterline in oro. Nel settembre 1931, esauritesi
le riserve auree della Banca d’Inghilterra, dovette essere sospesa la convertibilità della sterlina e la valuta
inglese fu svalutata: si trattò di un avvenimento sensazionale, poiché sanzionava emblematicamente la
decadenza della Gran Bretagna dal ruolo di “banchiere del mondo”. Analoghi provvedimenti di sospensione
della convertibilità e di svalutazione vennero successivamente adottati da molti altri paesi.
Quando la crisi ebbe inizio, tutti i governi dei paesi industrializzati ritennero di affrontarla affidandosi ai
classici principi della scuola economica liberale: primo fra tutti quello del pareggio di bilancio. Per ottenere
questi risultati, la spesa pubblica venne drasticamente tagliata – riducendo gli stipendi ai pubblici dipendenti
e diminuendo le prestazioni sociali elargite dallo Stato – e furono imposte nuove tasse. Questi provvedimenti
ridussero ulteriormente la domanda interna, aggravando perciò la recessione e la disoccupazione. Solo nel
1933 l’economia europea cominciò a manifestare sintomi di miglioramento. Ma nella maggior parte dei paesi
la ripresa fu molto lenta: un vero rilancio produttivo si ebbe solo alla fine del decennio e fu dovuto anche al
generale incremento delle spese militari seguente all’aggravarsi delle tensioni internazionali. In definitiva, fu
solo col riarmo e la guerra che l’Europa e il mondo uscirono dalla grande depressione.
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Stati Uniti: Roosevelt e il “New Deal”
Nel novembre 1932, quando tre anni di crisi avevano suscitato in tutti
gli Stati Uniti un angoscioso senso di insicurezza, si tennero le elezioni
presidenziali con la nomina a presidente del democratico Franklin
Delano Roosevelt, governatore dello Stato di New York. Quando
presentò la sua candidatura alla presidenza, Roosevelt non aveva un
programma organico da contrapporre ai repubblicani: fin dal momento Franklin Delano Roosevelt,
della campagna elettorale seppe però instaurare con le masse un 1933‐45
rapporto basato su notevoli doti di comunicativa e capì che la
condizione preliminare di un’azione politica di successo stava nella Franklin Delano Roosevelt, 1882-1945
capacità di infondere speranza e coraggio nella popolazione. Celebri
divennero, per esempio, le sue Conservazioni al caminetto, una trasmissione radiofonica che teneva spesso,
con tono familiare e suadente, per illustrare ai concittadini la sua attività. Già nel discorso inaugurale della
sua presidenza Roosevelt annunciò di voler iniziare un “New Deal” – “nuovo patto” o “nuovo corso” – nella
politica economica e sociale: un nuovo stile di governo che si sarebbe caratterizzato soprattutto per un più
energetico intervento dello Stato nei processi economici. Il “New Deal” fu avviato immediatamente, nei
primi mesi della presidenza Roosevelt – i cosiddetti “cento giorni” -, con una serie di provvedimenti che
dovevano servire da terapia d’urto per arrestare il corso della crisi: fu ristrutturato il sistema creditizio,
sconvolto da cinquemila fallimenti bancari che avevano polverizzato i risparmi di milioni di americani; fu
svalutato il dollaro per rendere più competitive le esportazioni; furono aumentati i sussidi di disoccupazione
e furono concessi prestiti per consentire ai cittadini indebitati di estinguere le ipoteche sulle case. A questi
provvedimenti di emergenza, il governo affiancò alcuni provvedimenti più organici e qualificanti,