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Sintesi
Storia: storia della Russia tra il 1915 e il 1930; il secondo dopoguerra italiano

Letteratura: il Formalismo russo e i suoi principali rappresentanti (con approfondimento sulla figura di Roman Jakobson)

Storia dell'arte: il gruppo Forma e i suoi artisti
Estratto del documento

L. S. Moretti _ Medaglia Ilario _ A. S. 2010/2011

In seguito, con Lenin prima e Stalin poi, fu la dittatura; le libertà furono completamente soppresse, crebbe il

numero di enti con potere legislativo ma soprattutto esecutivo e giudiziario in quell’ambito specifico e

l’unico tipo di espressione consentita doveva avere forma realista e contenuto socialista: era questo, appunto,

il periodo del realismo socialista ed è evidente come l’autonomia che i formalisti rivendicavano alla propria

“scienza letteraria” cozzasse contro questo tipo di idee. Formalista fu, genericamente e con disprezzo,

chiamato chiunque manifestasse caratteristiche eterogenee rispetto alla linea culturale del regime e,

all’indomani della fine della NEP e dei primi piani quinquennali stalinisti (1928), arbitro della linea culturale

del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) divenne e rimase per vent’anni Andrej Ždanov, sotto la

guida del quale si consumò il triennio culmine di questa situazione di censura e repressione, noto come

Ždanovščina (1946-48). In quegli anni, gli anni delle “grandi purghe”, terribile fu la fine di quegli artisti che

vollero difendere la proprio libertà di espressione dalla becera censura di regime e i dati reali dell’eccidio

furono resi noti solo successivamente da Nikita Khruščëv: era il famoso “discorso segreto” del 25 febbraio

1956 (Stalin era morto tre anni prima).

2.2 Linee teoriche ed epistemologiche

Molteplici sono i risultati specifici conseguiti dai formalisti russi e farne un bilancio è estremamente

complesso, tuttavia a livello generale, teorico ed epistemologico, tra le osservazioni di critica letteraria più

rilevanti e tutt’oggi al centro degli studi di linguistica e poetica, sono da sottolineare certamente almeno le

seguenti, che Todorov mette in risalto nell’introduzione al testo, edito da Einaudi nel 1968, I formalisti russi

(1965):

- l’opera in sé è al centro della “preoccupazione” critica e ogni metodo psicologico, filosofico o sociologico

alla base della critica letteraria russa del tempo è rifiutato, ciò significa che l’opera non è spiegabile

“partendo dai dati biografici dello scrittore e neppure dall’analisi della vita sociale che gli fu

contemporanea”;

- come evidenzia Šklovskij, nel suo articolo L’arte come procedimento, ogni “misticismo” deve essere

negato dal momento in cui non fa altro che “occultare l’atto creativo e l’opera stessa” e ci si deve al contrario

sforzare di “spiegare in termini tecnici come questa venga fabbricata”;

- come nota, ancora una volta, Šklovskij, l’arte ha come suo preminente “ruolo innovatore” quello di

superare l’ “automatismo della percezione”, l’ “abitudine che ci vieta di vedere, di sentire gli oggetti”,

promuovendo una propria continua evoluzione (questa osservazione venne poi ampliamente confermata: se

già Norbert Wiener affermava qualche decennio dopo che i classici non erano più amati perché visti come

“una congerie di citazioni note”, gli attuali mezzi pubblicitari sono dimostrazione concretissima di come

“l’informazione recata da un messaggio diminuisce via via che ne aumenta la probabilità”).

Sono queste le idee che stanno alla base di quello che potrebbe essere definito come il primo periodo

formalista, durante il quale questo movimento fu strettamente legato al futurismo e più in generale alle

avanguardie artistiche dell’epoca, che ricevevano “analisi e giustificazioni” in cambio degli “slogans dei

propri poeti”; dai primi anni venti, “impercettibilmente si verifica un mutamento” e si passa da un

formalismo d’avanguardia, di carattere letterario, ad un formalismo scientifico, da “digressioni liriche” a

“argomentazione vera e propria”.

Tutto ciò porta ad un rafforzamento del “positivismo ingenuo dei formalisti” e le idee che emergono durante

questo secondo periodo, o comunque si consolidano, sono, quanto meno, le due seguenti:

- un corretto metodo di critica letteraria deve essere “immanente alla ricerca”, cioè variato e perfezionato

ogni qual volta si giunga all’analisi di fenomeni letterari “irriducibili alle leggi formulate in precedenza”:

deve essere dunque eminentemente empirico;

- il “breve numero di proposizioni” teoriche a cui si giunge non può essere confuso con il “tenore” di

un’opera scientifica, non è possibile “affermare il carattere concluso della conoscenza” e nemmeno

confondere le secche conclusioni teoriche con le dinamiche discussioni sempre in evoluzione che le

generano.

Appare ora evidente che le considerazioni di questo secondo periodo sono di carattere prettamente

epistemologico, proponendo, in un certo senso, in anticipo quelle che saranno le opinioni al centro delle

discussioni tra Karl Popper e gli intellettuali del Circolo di Vienna a seguito della pubblicazione di Logica

della scoperta scientifica (1934).

Anche se di inferiore importanza, si riscontra poi l’esistenza di un terzo periodo formalista, durante il quale

Tynjanov propose una “nuova sintesi” delle idee precedentemente espresse dalla critica formalista,

riflettendo in particolar modo attorno alla distinzione tra forma e funzione dell’elemento letterario (Il

concetto di costruzione, 1923; L’evoluzione letteraria, 1927). 4

L. S. Moretti _ Medaglia Ilario _ A. S. 2010/2011

2.3 Gli studiosi più noti e i loro risultati

Tenuto presente che le conclusioni più significative a cui i formalisti giunsero sono alla base di gran parte

dell’odierna critica letteraria, anche a livello scolastico, tra i formalisti più noti è certamente indispensabile

ricordare il nome di colui che è considerato il padre del formalismo russo: Viktor Šklovskij, l’autore del

saggio L’arte come procedimento (1917), ormai un classico del metodo formale, anche per le importanti

considerazioni metodologiche contenute, che abbiamo analizzato in precedenza. Rilevanti sono poi gli studi

di Osip Brik nel campo della poesia contenuti in Ritmo e sintassi (1920-27) e il saggio La teoria del “metodo

formale” (1927) in cui Boris Ejchenbaum, ad oltre dieci anni dalla nascita del movimento di critica russo,

tenta un parziale bilancio dell’attività svolta dai formalisti.

Questi possono essere considerati, assieme a Roman Jakobson, i tre più grandi rappresentanti del movimento

di critica russo; esistono tuttavia interessanti saggi di altri formalisti: si pensi, ad esempio, alla notorietà che

ha raggiunto Vladimir Propp con i suoi studi storico-antropologici attorno alle funzioni della fiaba,

sintetizzabili nel cosiddetto “schema di Propp” e contenuti nei suoi tre più celebri scritti (La trasformazione

delle favole di magia e Morfologia della fiaba, 1928; Le radici storiche dei racconti di fate) e all’analisi dei

concetti di fabula e intreccio di Boris Tomaševskij (La costruzione dell’intreccio, 1925).

2.4 Roman Jakobson: Mosca, l’attività formalista, la nascita della Scuola di Praga e gli studi successivi

Cenno a parte merita la figura di Roman Jakobson (1896-1982), uno dei più grandi linguisti e semiologi del

XX secolo: egli fu uno dei primi tra i critici formalisti orbitanti attorno al Circolo linguistico di Mosca, città

che gli dette tra l’altro i natali, e di questo periodo si ricorda in particolar modo il suo saggio Il realismo

nell’arte (1921).

In questo saggio, Jakobson fa emergere una serie di considerazioni interessanti e sul piano generale dei

caratteri formali della ricerca del gruppo di studiosi presi in considerazione e sul piano specifico del concetto

letterario di “realismo”; peraltro l’autore tiene costantemente entrambe le dimensioni in intima connessione

tra di loro: secondo Jakobson, la critica russa precedente e contemporanea è semplice e banale “causerie”,

perché “non ha una terminologia specifica”, non delimita con esattezza i termini che utilizza, non bada al

loro aspetto polisemico, perché in definitiva non è scienza. Il testo risulta dunque emblema della svolta

interna al formalismo russo avvenuta all’inizio degli anni ’20: l’obiettivo ultimo è la creazione di una critica

letteraria scientifica, dopo aver ripudiato gli “epigoni” della critica letteraria di origine “realista”

(nell’accezione del termine riferita “alla somma dei singoli tratti tipici di una determinata corrente del secolo

XIX”), che aveva, ad esempio, banalizzato alcuni concetti polisemici come, appunto, quello di “realismo”

(alla riflessione sulla polisemia del termine è, in particolar modo, dedicata l’ultima parte del saggio

Jakobsoniano, che si è tuttavia deciso di non prendere specificamente in analisi in questa sede in quanto la

sua comprensione risulta molto ostica poiché contiene, all’interno della concezione della critica letteraria

come metodo “immanente alla ricerca”, una serie di riferimenti empirici specifici a numerosi autori stranieri

non affrontati durante il mio percorso liceale, senza i quali anche la comprensione profonda dell’intera

struttura argomentativa risulta essere praticamente impossibile).

La figura di Roman Jakobson non è tuttavia universalmente nota solo per il ruolo che il semiologo russo

ebbe all’interno del Circolo linguistico di Mosca, ma anche per gli studi successivi che egli portò avanti: nei

primi anni venti infatti Jakobson fu costretto a lasciare la Russia e a trasferirsi a Praga e lì, nel 1926, fondò,

insieme ad un gruppo di linguisti cechi e russi, tra cui il suo più anziano collega ceco Vilelm Mathesius, il

PLK, meglio noto come Circolo linguistico (o Scuola) di Praga, a cui si aggregarono poi altri linguisti del

circolo moscovita.

Iniziò poi la sua carriera di docente universitario: dopo le cattedre di Praga e Brno, non essendo ariano, fu

costretto a rifugiarsi in Scandinavia prima, dove insegnò nelle università di Oslo, Copenaghen e Uppsala, e

in America poi, ruotando in questo periodo tra l’Università di Harvard, la Columbia University e il MIT.

A quest’ultimo periodo della vita dell’autore risale anche la sua più nota raccolta di saggi: i Saggi di

linguistica generale, comparsi su diverse riviste, che includono anche Linguistica e poetica (1960), nella

prima parte del quale è contenuta la celeberrima teoria della comunicazione dell’autore.

All’interno del saggio sopra citato, il punto di partenza dell’argomentazione di Jakobson è una richiesta

esterna e cioè quella di “tracciare delle note riassuntive sulle relazioni fra poetica e linguistica”: egli è

peraltro convinto che la poetica, occupandosi di “problemi di struttura verbale” si possa ritenere parte

integrante della linguistica nella misura in cui quest’ultima è definita come la “scienza che investe

globalmente le strutture linguistiche”, verbali e non. 5

L. S. Moretti _ Medaglia Ilario _ A. S. 2010/2011

Questa convinzione diviene, col procedere del saggio, la tesi dell’argomentare del linguista russo che, dopo

aver prevenuto le eventuali critiche alla sua affermazione, tenta di dimostrarla muovendo da dati letterari

empirici.

Secondo Jakobson, il linguaggio, o più in generale un qualsiasi sistema di segni, è concepito come uno

strumento di comunicazione ed ecco dunque perché esso deve essere analizzato alla luce delle diverse

funzioni comunicative, che si manifestano e nelle forme e nei contenuti del linguaggio, associate

biunivocamente ai diversi elementi del processo comunicativo, altresì detti fattori costitutivi, a formare il

celeberrimo modello comunicativo sotto riportato.

3

C (1960)

ONSTITUTIVE FACTOR MODEL

Il modello Jakobsoniano ha avuto e continua ad avere grande successo e sostegno dal mondo degli studiosi di

linguistica, ma a cosa è dovuto questo forte consenso al modello del formalista russo?

Di certo non è collegato alla dimensione della scoperta, visto che il modello Jakobsoniano non si propone

come una novità ma come rielaborazione di teorie linguistiche precedenti: è molto stretto in particolare il

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