Nel 166 Luciano pubblicò ad Atene un trattatello polemico sul giusto modo di scrivere la storia. La prima parte è dedicata a ciò che si deve evitare, con esempi tratti proprio dalle varie storie contemporanee della guerra romano-partica: Luciano cita narrazioni di episodi mai accaduti, errori di collocazione geografica, esagerazioni e tratti di cattivo gusto. L’esordio è particolarmente ironico: da quando è scoppiata la guerra tutti si sono messi a comporre storie e si credono altrettanti Erodoti, Tucididi, Senofonti, tanto che ha trovato la conferma il proverbio per il quale “la guerra è madre di tutte le cose”, infatti in un’unica occasione ha generato tantissimi storici. Nella seconda parte, di tono teorico, sono enumerati i giusti precetti che deve seguire lo storico. L’opera deve dire la verità e risultare utile, la lingua e lo stile devono essere chiari e moderati, i fatti devono essere noti per autopsia oppure per racconto di testimoni imparziali e attendibili, è utile una fase di abbozzo prima dell’elaborazione definitiva dell’opera, bisogna evitare la noia e la sazietà interrompendo il racconto e poi riprendendolo, variando anche il teatro d’azione.
La parodia è però lo strumento retorico-letterario al quale Luciano più spesso e più brillantemente fa ricorso in gran parte delle sue opere. L’uso raffinatissimo della parodia si riscontra nel romanzo “La Storia Vera”. Nel prologo trapela l’intento parodico di Luciano, infatti spera che il pubblico non solo apprezzi l’opera per l’impianto narrativo o per l’argomento ma anche per le “frecciate” destinate a coprire di ridicolo “συγγραφε” e “φιλοσoφ” che si sono occupati di scrivere favole fantastiche. Maestro per eccellenza in tale campo è “ο του Оμηρου Оδυσες”. Luciano infatti non può fare a meno di biasimare quegli autori che hanno spacciato per vere cose totalmente inventate e fantastiche. Luciano ha il desiderio di lasciare qualche messaggio ai posteri. Ma “επει μηδν αληθς ιστορειν ειχον- ουδν γάρ επεπονθειν αξιολογον- επί τό ψευδος ετραπόμην πολύ των αλλων ευγνωμονεστερον καν εν γαρ δή τουτο αληθεύσω λεγων οτι ψεύδομαι.” Luciano dunque chiarisce i contenuti dello scritto dichiarando che in esso una cosa sola era vera: che nulla di quanto raccontato era vero e che “διό δει τούς εντυγχάνοντας μηδαμως πιστεύειν αυτοις.”. In questo modo spera di poter scampare “των αλλων κατηγοριαν”.
Nonostante questa premessa la “Storia vera” è strutturata secondo i criteri storiografici esposti nel trattato citato precedentemente, perciò la fantastica avventura è narrata nello stile di un resoconto di viaggio realmente compiuto. È il trionfo della fantasia mascherata da verità storica, una parodia a doppia faccia, che da una parte insiste
"Se i filosofi si misurassero in base alla barba, il primo posto spetterebbe alle capre". (Luciano di Samosata)
sull’inverosimiglianza delle vicende narrate nei romanzi, dall’altra sulla possibilità di legittimare le più spudorate fandonie applicando a esse i criteri della storiografia.
Il “Satyricon” rappresenta un unicum della letteratura narrativa latina. Dal punto di vista strutturale sfugge a precise classificazioni e rappresenta un felice incontro di generi diversi. La storia in Encolpio e Gitone ricalca innanzitutto le trame dei romanzi erotici greci, che rappresentano le peripezie a lieto fine di una coppia di giovani amanti, ma ne stravolge la tipologia, poiché il testo petroniano configura una vicenda “non regolare” di due amanti omosessuali e manca di qualsiasi intento educativo. Al modello basilare del romanzo Petronio associa suggestioni del mimo e della satira menippea, anch’essa impostata sull’alternanza di prosa e versi e propensa ad accogliere contenuti volgari e scabrosi; in alcuni punti si fa esplicito il richiamo alle favole “milesie”, cioè a quel tipo di novella di contenuto licenzioso e piccante.
Il lettore del “Satyricon” è interessato solo parzialmente allo svolgersi delle vicende. Ciò che più conta è invece il gioco parodistico, il riconoscimento di come un illustre modello sia deformato nel contesto comico-realistico.
Il gioco parodistico si fa ancora più esplicito nella “cena di Trimalchione”, nel cui episodio è riconosciuto uno tra i grandi testi del realismo antico: Petronio vi descrive con minuzia di particolari il banchetto tenuto a casa del ricchissimo liberto Trimalchione, tipica figura di arricchito, cafonesco e ridicolo. Tutto è preparato col solo scopo di impressionare gli invitati, dalle portate (abbondanti e bizzarramente "scenografiche") ai "numeri di varietà" ("mimi", musica…), dagli argomenti pseudo eruditi, talvolta proposti dallo stesso padrone di casa per la discussione, come la messinscena del proprio funerale: qui emerge con prepotenza il pensiero dominante, la vera e propria ossessione di Trimalchione: la morte, l’inevitabilità della fine, che gli fa sentire tanto più fortemente il desiderio di lasciare una traccia di sé. ( Nel cap. 26 possiamo constatare questa ossessione, infatti leggiamo che Trimalchione ha un orologio nel triclino e che paga un trombettiere per sapere quanto ha perso della propria vita). Dopo aver dichiarato di affrancare tutti i suoi schiavi ed essersi preoccupato di lasciare qualcosa in eredità a sua moglie e ai suoi amici, Trimalchione si rivolge ad Abinna, l’architetto incaricato di costruire il monumento funebre di
“Egli trascorreva le giornate dormendo, le notti invece dedicava alle opere ed ai piaceri[...] era ritenuto uomo di vita raffinata, gaudente.” (Tacito, “Annales” XVI)
Trimalchione. "Quid dicis, inquit, amice carissime? Aedificas monumentum meum quemadmodum te iussi?”, chiede il liberto ad Abinna. Dopo di che Trimalchione descrive ogni minimo dettaglio del suo monumento:
“Valde te rogo, ut secundum pedes statuae meae catellam pingas et coronas et unguenta et Petraitis omnes pugnas, ut mihi contingat tuo beneficio post mortem vivere; praeterea ut sint in fronte pedes centum, in agrum pedes ducenti. Omne genus enim poma volo sint circa cineres meos, et vinearum largiter.”
E ancora:
“Te rogo, ut naves etiam <in fronte> monumenti mei facias plenis velis euntes, et me in tribunali sedentem praetextatum cum anulis aureis quinque et nummos in publico de sacculo effundentem; scis enim, quod epulum dedi binos denarios. Faciatur, si tibi videtur, et triclinia. Facies et totum populum sibi suaviter facientem. Ad dexteram meam pones statuam Fortunatae meae columbam tenentem, et catellam cingulo alligatam ducat, et cicaronem meum, et amphoras copiosas gypsatas, ne effluant vinum. Et urnam licet fractam sculpas, et super eam puerum plorantem.”
E torna il “tema” dell’orologio:
“Horologium in medio, ut quisquis horas inspiciet, velit nolit, nomen meum legat.”
Trimalchione poi passa a leggere il suo epitaffio:
“C. POMPEIVS TRIMALCHIO MAECENATIANVS HIC REQVIESCIT HVIC SEVIRATVS ABSENTI DECRETVS EST CVM POSSET IN OMNIBVS DECVRIIS ROMAE ESSE TAMEN NOLVIT PIVS FORTIS FIDELIS EX PARVO CREVIT SESTERTIVM RELIQVIT TRECENTIES NEC VNQVAM PHILOSOPHVM AVDIVIT VALE ET TV "
La narrazione viene filtrata attraverso gli occhi di Encolpio, il quale percepisce lo sfoggio di erudizione e raffinatezza come prova inequivocabile di cattivo gusto. Nel presentare Trimalchione e i suoi commensali si ripetono i termini di “rozzi”, “cafoni” e “arricchiti”. Nel I sec. d.C. i liberti, ovvero gli ex-schiavi liberati, avevano acquisito notorietà all’interno della società romana e si erano “guadagnati” l’invidia dell’aristocrazia, che trovava facili ragioni di ridicolo nelle pretese culturali di quel ceto emergente. Nella “Cena” l’intento di Petronio è quello di arrivare attraverso il gioco parodico e l’ironia a ritrarre e descrivere il linguaggio dei liberti nel loro continuo tentativo di imitazione dei contenuti e delle forme della cultura tradizionale, la quale però ne esce completamente stravolta. Il linguaggio dei liberti è attentamente studiato in tutte le sue articolazioni e le sue particolarità risaltano ancor più chiaramente nel confronto con il linguaggio della cultura tradizionale. Ai liberti Petronio concede di esprimersi con costrutti tipici della lingua volgare e anche una semplificazione rispetto alla complessità del latino classico. Petronio non interviene con alcun giudizio morale: la chiave di lettura fornita da Encolpio è di natura puramente estetica e non coinvolge affatto la sostanza dei fatti e delle realtà descritte.
“La realtà è la musa di Pirandello. Ma quale realtà? Lo scrittore non si accontenta di “riferire” quel che vede accadere, ma cerca di andar sempre oltre le apparenze, di dimostrare che la verità è diversa da quella che ci si vorrebbe lasciar credere” (G.B. Angioletti.) L’analisi di Pirandello parte proprio dalla realtà, nella quale scorge un’opposizione tra la Vita e la Forma: è ovvero il contrasto tra la potenza fecondatrice del caotico flusso della vita e della sua immobilizzazione nella rigidità di una forma. Lo scrittore stesso afferma « Io son figlio del Caos[…] ». La vita coincide dunque con il movimento e la trasformazione, mentre l’immobilità della forma produce la morte. Poiché le cose cambiano nel tempo, la realtà non è mai definitiva ma mutevole e relativa; lo stesso vale per le nostre opinioni e conoscenze le quali non possono essere determinate una volta per tutte ma sono soggette a continui mutamenti. Quindi anche la nostra personalità non può essere concepita come entità psichica unica, ma come l’incessante ricerca di una condizione di equilibrio tra più personalità in continua trasformazione. La conseguenza del relativismo conoscitivo è l’incomunicabilità tra gli individui derivante dal fatto che il modo soggettivo e provvisorio con cui ognuno conosce se stesso e il reale non coincide con quello degli altri. Dall’impossibilità di stabilire una comunicazione con gli altri uomini scaturisce la solitudine e l’alienazione. Secondo Pirandello ognuno di noi nella vita sociale ha la sua “maschera”, la quale è una “trappola” e fonte di infelicità poiché nel momento in cui siamo giudicati secondo quello che abbiamo fatto siamo costretti a recitare sempre la stessa parte, mentre il nostro io, perennemente mutevole, è proteso verso altre forme. Le principali trappole sono il lavoro, il matrimonio, la famiglia. L’uomo, non riconoscendosi nella parte che la società gli ha
« Per il suo coraggio e l'ingegnosa ripresentazione dell'arte drammatica e teatrale »
(Motivazione del Premio Nobel)
assegnato, “si vede vivere”, diventa un “forestiere della vita” che esamina dall’esterno il comportamento impostogli dalla sua maschera. Quando però l’individuo tenta di liberarsi della sua maschera, va inesorabilmente incontro all’emarginazione e alla follia, perché dietro la forma non c’è una vera identità. Al centro dell’opera pirandelliana si collocano dunque interrogativi inquietanti sull’assurdità della vita, sul rapporto alienante tra l’essere e il sembrare, sul valore e sui limiti della conoscenza umana. Nel saggio “L’umorismo” Pirandello costruisce il ritratto dello scrittore umorista, che è colui che sa cogliere le contraddizioni, i paradossi e le ambiguità celati dietro la superficie della realtà e che riesce a svolgere una funzione demistificatoria. Solo l’umorismo permette un’indagine approfondita degli aspetti impliciti della vita umana, svelandone il lato nascosto. Pirandello fa un’importante distinzione tra il comico e l'umorismo. Il primo, definito come "avvertimento del contrario", nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Nel saggio citato Pirandello ce ne fornisce un esempio: «Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un "avvertimento del contrario"». L'umorismo invece nasce da una meno superficiale considerazione della situazione: «Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico».
La riflessione è l’elemento che distingue l’umorismo dalla comicità, che si limita all’“avvertimento del contrario”, ossia di ciò che rompe la normalità e suscita un riso liberatorio. L’umorismo invece nasce dalla sofferenza, e il “sentimento del contrario” di Pirandello, rivelandoci che dietro qualcosa può esserci il suo opposto, conferma l’ipocrisia e la doppiezza che regolano la società. L’arte umoristica, proprio perché sua prerogativa è quella di vedere il contrario di tutte le cose, demolisce le certezze razionali e mette in discussione l’idea stessa di verità. L’umorismo non è solo una teoria poetica, ma è la traduzione letteraria del relativismo filosofico pirandelliano.
« non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt'al più sorridere. »
(L. Pirandello)
L’umorista è “un uomo fuori di chiave”, “un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito dopo non gliene nasca un altro opposto, contrario”. La scrittura umorista quindi utilizza un’estrema libertà d’espressione che le consente di accostare elementi opposti e stridenti e non può seguire convenzioni retoriche né canoni stilistici prefissati. Per questo lo stile umoristico non ha come fine l’armonia, ma anzi vuole riprodurre il disordine dell’esistenza puntando sulla dissonanza e la disarmonia. Pirandello rifiuta il “guardaroba dell’eloquenza”, il suo è un antidannunzianesimo, ricorre anche al dialetto siciliano se lo ritiene più calzante alle “forme della vita”. L’umorismo Pirandelliano ha un forte carattere espressionistico: come gli espressionisti anche Pirandello tende a rappresentare in modi straniati e antinaturalistici gli oggetti, comunicando una realtà vissuta dall’interno ed espressa in forme esasperate fino alla deformazione, adottando procedimenti stilistici disarmonici, fermando l’attenzione sui particolari e costruendo le fisionomie dei suoi personaggi in modo grottesco e caricaturale. Nell’ultima fase dell’opera pirandelliana si accentuano le componenti irrazionalistiche e si scorge un avvicinamento alle atmosfere e alle modalità espressive dell’avanguardia surrealista europea. Il passaggio dalla poetica umoristica a quella surrealista ci presenta un Pirandello diverso, più attento al mistero della realtà. Pirandello peraltro non accantonò mai una concezione dell’arte regolata dai procedimenti razionali e rimase sostanzialmente estraneo agli esiti più rivoluzionari del Surrealismo che utilizzava la scrittura automatica per riprodurre la vita dell’inconscio eludendo il controllo della ragione.
Nella seconda metà degli anni ’20 in Italia lo stato totalitario era già una realtà consolidata nelle sue strutture giuridiche e ben riconoscibile nelle sue manifestazioni esteriori. Il tentativo messo in atto dal fascismo era quello di compiere una “fascistizzazione” della società, di riplasmarla dalle fondamenta. Per raggiungere tale obiettivo vennero istituite delle organizzazioni collaterali come l’Opera nazionale del dopolavoro o il Comitato olimpico nazionale. Il Regime si preoccupò anche di fascistizzare l’istruzione attraverso una più stretta sorveglianza sugli insegnanti (molti di loro si piegarono all’imposizione Venti milioni di italiani sono in questo momento raccolti nelle piazze di tutta Italia. È la più gigantesca dimostrazione che la storia del genere umano ricordi. (dall'annuncio radiofonico della dichiarazione di guerra all'Etiopia, 2 ottobre 1935)
fascista solo per poter continuare la loro attività) e controllo dei libri scolastici (adozione di un unico libro di testo). Un ruolo molto importante ebbe nell’opera di fascistizzazione la propaganda. Tramite la propaganda che effettuò un controllo politico su tutti i mezzi di comunicazione, avvenne il processo di fascistizzazione del paese, con lo scopo di orientare l’opinione pubblica, di caricarla, comunicando l'esaltazione della missione nazionale. I messaggi furono rivolti a tutte le categorie della società italiana. Più di ogni altro mezzo assunse un ruolo di primo piano la radio. I programmi trasmessi, in cui erano presenti svago ed informazioni allo stesso tempo per aumentare il numero degli ascoltatori, erano costituiti per lo più da discorsi del Duce o del Fuhrer, marce ufficiali o conversazioni sul razzismo. La radio diventava, così, la voce ufficiale dello stato. E’ importante anche sottolineare il controllo attuato dai regimi sulla stampa. Con le "Leggi Fascistissime" Mussolini dispose che ogni giornale avesse un direttore responsabile inserito nel partito fascista e che il giornale stesso, prima di essere pubblicato, fosse sottoposto ad un controllo. I quotidiani, dunque, presentavano, attuando una censura su cronache nere e di fallimenti economici, il periodo fascista come un modello storico di pace e moralità. Queste leggi inoltre istituirono "L’Ordine dei Giornalisti" i cui membri dovevano far parte del partito fascista. Mussolini creò inoltre l’Ufficio Stampa, che nel 1937 venne trasformato in Ministero Della Cultura Popolare (Min.Cul.Pop.). Tale Ministero aveva l’incarico di controllare ogni pubblicazione sequestrando tutti quei documenti ritenuti pericolosi o contrari al regime e diffondendo i cosiddetti "ordini di stampa" (o "veline") con i quali s’impartivano precise disposizioni circa il contenuto degli articoli, l’importanza dei titoli e la loro grandezza. Nel 1925 avvenne la costituzione dell’istituto nazionale L.U.C.E. L’ istituto, i cui cinegiornali venivano proiettati obbligatoriamente in tutte le sale cinematografiche a partire dal 1926, rappresenta il più efficace mezzo del regime nel campo dello spettacolo. La tematica più ricorrente diventa il mito bellico con il conseguente elogio del patriottismo. L’Unione Cinematografica Educativa divenne il fulcro del cinema e venne posto alle dirette dipendenze del Capo del governo con l’obbligo della supervisione diretta di Mussolini sui materiali realizzati.
L’immagine propagandistica rispecchiava la reale situazione italiana? Il Paese era davvero cambiato rispetto al periodo precedente? Nonostante i segni di sviluppo, quali l’aumento dei lavoratori nell’industria, nel commercio, nei servizi e nella pubblica amministrazione, l’Italia era ancora fortemente arretrata e grande era il distacco dalle grandi potenze europee. Il divario era non solo per quanto riguardava i beni di prima necessità ma anche quelli durevoli: pochissimi erano gli italiani che potevano permettersi un’automobile, un telefono o una radio.
Il principale compito dei mass media nell’epoca fascista fu dunque quello di nascondere la vera situazione politica e sociale del Paese.
Negli anni ’50 e ’60 l’economia dei paesi industrializzati attraversò una fase di intenso sviluppo, che ebbe tra le sue cause: crescita della popolazione, innovazione tecnologica e razionalizzazione produttiva, espansione del commercio mondiale, politiche statali in sostegno della crescita. Le conseguenze dello sviluppo tecnologico si fecero sentire nel campo dei trasporti, contribuendo a modificare radicalmente le abitudini di vita. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa ha rappresentato tra i prodotti dello sviluppo tecnologico, quello che più di ogni altro ha condizionato la vita quotidiana e i modelli di comportamento delle società industrializzate. La rivoluzione in questo campo era già cominciata nel periodo fra le due guerre con l’affermazione della radio e del cinema. Mentre da un lato le trasformazioni della società e del costume favorirono l’affermazione delle scienze umane, da un altro lato si assistette a una sorta di rifiuto ideologico nei confronti di una società accusata di sostituire allo sfruttamento economico di tipo tradizionale una forma più subdola, esercitata soprattutto attraverso la pubblicità e i mass media, di sottoporre gli individui a una nuova tirannia tecnologica, di sopire i conflitti sociali con la diffusione di un benessere che si giudicava illusorio. Questa reazione si espresse in primo luogo in una ripresa delle ideologie rivoluzionarie marxiste. La scuola di Francoforte fondata nel 1923 si occupò dell’analisi e della critica della società di massa. Herbert Marcuse seguace di questa scuola dedicò studi su tale fenomeno ed espresse vari motivi di critica della società tecnologica avanzata nel saggio “L’uomo a una dimensione”.
L'uomo a una sola dimensione è l'individuo alienato della società attuale, è colui per il quale la ragione è identificata con la realtà. Per lui non c'è più distacco tra ciò che è e ciò che deve essere, per cui al di fuori del sistema in cui vive non ci sono altri possibili modi di essere. Il sistema tecnologico ha, infatti, la capacità di far apparire razionale ciò che è irrazionale e di stordire l'individuo in un frenetico universo cosmico in cui possa mimetizzarsi. Il sistema si ammanta di forme pluralistiche e democratiche che però sono puramente illusorie perché le decisioni in realtà sono sempre nelle mani di pochi. "Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà – egli afferma - prevale nella civiltà industriale avanzata segno di progresso tecnico"; la stessa tolleranza di cui si vanta tale società è repressiva perché è valida soltanto riguardo a ciò che non mette in
“È mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e di indottrinamento?”
(da L'uomo a una dimensione.)
discussione il sistema stesso. Tuttavia la società tecnologica non riesce ad imbavagliare tutti i problemi e soprattutto la contraddizione di fondo che la costituisce, quella tra il potenziale possesso dei mezzi atti a soddisfare i bisogni umani e l'indirizzo conservatore di una politica che nega a taluni gruppi l'appagamento dei bisogni primari e stordisce il resto della popolazione con l'appagamento dei bisogni fittizi. Tale situazione fa sì che il soggetto rivoluzionario non sia più quello individuato dal marxismo classico, cioè la classe operaia, in quanto questa si è completamente integrata nel sistema, bensì quello rappresentato dai gruppi esclusi dalla benestante società, quello che Marcuse in un passo chiave del suo libro descrive come: "Il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori, dei disoccupati e degli inabili. Essi permangono al di fuori del processo democratico, la loro presenza prova quanto sia immediato e reale il bisogno di porre fine a condizioni e istituzioni intollerabili. Perciò la loro opposizione è rivoluzionaria anche se non lo è la loro coscienza. Perciò la loro opposizione colpisce il sistema dal di fuori e quindi non è sviata dal sistema; è una forza elementare che viola la regola del gioco e così facendo mostra che è un gioco truccato. Questi gruppi possono incarnare il Grande Rifiuto, l'opposizione totale al sistema e porre le basi per la traduzione dell'utopia in realtà, anche se le capacità economiche e tecniche degli Stati sono abbastanza ampie da permettere aggiustamenti e concessioni a favore dei sottoproletari e le loro forze armate sono abbastanza addestrate ed equipaggiate per far fronte alle situazioni di emergenza.”
Marx pubblicò nel 1848 il “Manifesto del partito comunista” nel quale il concetto di storia è inteso come “lotta di classi”, soggetto autentico della storia.
« La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta » (da “Il Manifesto del Partito Comunista).
Il motore della storia è sempre stato costituito dalle lotte tra le classi. L’antagonismo tra oppressori e oppressi in linea di massima ha determinato il progresso di tutta la società,
« ... egli unisce in sé lo spirito più mordace con la più profonda serietà filosofica: immaginati Rousseau, Voltaire, d'Holbach, Lessing, Heine e Hegel fusi in una sola persona... ecco il dottor Marx ».
(Moses Hess a Berthold Auerbach, 1841)
ma a volte anche il logoramento e la rovina di entrambe le classi. Nel suo momento storico Marx individua la lotta tra borghesia e proletariato. Alla borghesia viene riconosciuto il merito di aver saputo demistificare la natura dei rapporti umani, rapporto che per Marx è di natura economica, e di aver creato un’economia globale. Ma ha creato “il germe della propria dissoluzione” poiché la sua dominazione si basa sul proletariato e in questo modo si è determinata una nuova lotta di classi. Dopo la rivoluzione e la dittatura del proletariato, avranno fine le divisioni della società in classi e le relative lotte.
La lotta contro l’ideologia costituisce uno degli scopi primari del marxismo. Le ideologie per Marx assolvono un’importante funzione, in quanto servono ad occultare i reali processi della società e a mascherare l’asservimento dell’uomo. Ne “L’ideologia tedesca” Marx compie il tentativo di cogliere il “movimento reale” della storia, al di là delle rappresentazioni ideologiche che ne hanno sempre velato la struttura effettiva e concreta delle forze motrici. Per Marx l’ideologia appare come una “falsa rappresentazione” della realtà e dà un’immagine deformata dei rapporti reali che si instaurano fra gli uomini. L’intento di Marx è quello di svelare al di là delle ideologie, la verità sulla storia, mediante il raggiungimento di un punto di vista obiettivo della società, che permetta di descrivere non ciò che gli uomini “possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente” (da “L’ideologia tedesca”). In questo modo Marx inaugura la distruzione delle vecchie ideologie e inaugura una nuova “scienza”. Ai socialismi da lui definiti “falsi” poiché cercano una sorta di compromesso con il capitalismo, Marx oppone il proprio socialismo “scientifico”, basato su un’analisi critico-scientifica dei meccanismi sociali del capitalismo e sull’individuazione del proletariato come forza rivoluzionaria destinata ad abbattere il sistema borghese.
Marx critica i rappresentanti della Sinistra hegeliana e ritiene tali filosofi “ideologi” poiché vivono nella “falsa coscienza” e non si rendono conto che le idee non hanno un’esistenza autonoma ma rispecchiano le relazioni materiali degli uomini. Gli ideologi in questo modo finiscono per sopravvalutare la funzione delle idee presentandole come universalmente valide, per credere che tutto il negativo del mondo sia nelle “idee sbagliate” che l’emancipazione umana consista nel sostituire a idee false idee “vere” tramite una battaglia puramente filosofica e nel fornire un quadro deformante e “mistificante” del reale. A questi traviamenti dell’ideologia Marx oppone che le vere forze motrici della storia non sono le idee ma le strutture economico-sociali e che il sapere effettivo può essere soltanto un sapere aderente al reale, e quindi una conoscenza non-ideologica, anzi anti-ideologica per programma. Quindi alla base di tutto il discorso c’è il convincimento secondo cui le vere forze motrici della storia sono di natura socio-economica. Il suo è un materialismo storico che si contrappone polemicamente all’idealismo storico.