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Sintesi
Filosofia: Karl Marx (l'alienazione operaia); dibattito tra Camus e Taylor

Storia: il Taylorismo; il Fordismo; il sistema concentrazionistico dei lager

Italiano: Primo Levi (L’ordine a buon mercato; Alcune applicazioni del mimete)

Arte: il Decorativismo (Morris); Walter Benjamin (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica)

Scienze: la clonazione

Inglese: Brave New World
Estratto del documento

Taylorismo

“Nel nostro progetto, noi non cerchiamo l'iniziativa dei nostri uomini. Non

vogliamo alcuna iniziativa. Tutto ciò che vogliamo è che eseguano gli

ordini che impartiamo, che facciano ciò che gli diciamo, e che lo facciano

in fretta”. (Frederick Taylor)

Il nucleo essenziale del taylorismo era l'idea che l'attività umana potesse

essere misurata, analizzata e controllata: Taylor estendeva quei rigidi

concetti ingegneristici, che erano una prerogativa delle macchine, anche

all’analisi delle attività umane che così venivano minuziosamente

pianificate.

Si proponeva dunque di organizzare il modello lavorativo secondo tre fasi:

I. analizzare le caratteristiche della mansione da svolgere

II. creare il prototipo del lavoratore adatto a quel tipo di mansione

III. selezionare il lavoratore ideale, al fine di formarlo e introdurlo

nell'azienda.

Lo scopo di tale teoria era quello di aumentare in qualsiasi modo

l’efficenza dell’operaio (considerato il “punto debole della catena

produttiva”), quindi sfruttarne a pieno la capacità produttiva.

8

Si richiedeva in particolare ai lavoratori di ottenere il “giusto ritmo di

lavoro”: per questo Taylor sviluppò un sistema in cui ogni aspetto

dell’operaio e della sua mansione (la frequenza e la durata dei movimenti che

andavano a costituire una perdita di tempo, il numero e la lunghezza delle pause e

ovviamente il fattore psicologico) venisse precisamente analizzata e misurata

in modo scientifico.

Si andava così ad osservare concretamente quali erano la azioni superflue

da eliminare (poco importa se queste fossero necessarie agli operai per

rilassarsi), in modo tale da prestabilire ogni singola attività che l’operaio

in seguito avrebbe dovuto eseguire per massimizzare la produzione.

In questo modo l'uomo diveniva una semplice appendice della

macchina, una sorta di servo che non poteva avere nemmeno il tempo

per pensare, il cui unico scopo era eseguire quei pochi movimenti

affidatigli e di farlo con la maggiore efficienza possibile.

Lo stesso Taylor prepotentemente afferma in nome dell’aumento di

produzione che :

“Bisogna sviluppare in lui dei comportamenti che siano il più vicino possibile ad una

macchina e interrompere quella connessione psico-fisica che è caratteristica

dell'uomo pensante”

Come testimoniato da Hugo Luaders, un meccanico nell'arsenale di

Watertown, infatti:

“non ho nulla in contrario che loro verifichino in quanto tempo io svolgo il

mio lavoro, ma respingo nel modo più assoluto che mi si segua in

continuazione con un cronometro come se fossi un cavallo o

un'automobile”.

9

L'operaio si sentiva quindi spersonalizzato nel lavoro che era chiamato a

svolgere, sentendosi ridotto ad essere parte di un processo e venendo

privato di quella dignità che dovrebbe caratterizzare tutte le persone,

sentendo anche che il sistema scientifico era qualcosa di falso e imposto

loro in modo autoritario.

Quello che orgogliosamente Taylor chiamava “one best way”, il metodo

migliore, l'unico possibile, portò i lavoratori ad una condizione di stress

ancora superiore rispetto al passato non avendo più nessun controllo sul

proprio corpo e sui propri pensieri, uccisi dalla monotonia ripetitiva del

lavoro che erano chiamati a svolgere.

L’illusione di una utopia tecnocratica (in cui anche gli operai accettano

queste condizioni disumane in nome della produzione) sarebbe però

probabilmente rimasta tale se solo negli stabilimenti della Ford Motor

Company non fosse stato introdotto un metodo produttivo che fissava il

ritmo, perciò meccanizzzava necessariamente gli uomini, poco importa

se loro lo accettavano o meno: la catena di montaggio.

Henry Ford

10

Fordismo

La catena di montaggio venne introdotta dall’industriale americano come

metodo produttivo che permettesse di arrivare alla standardizzazione dei

componenti di un automobile, la quale richiedeva una velocità e una

precisione che i lavoratori nolmalmente non potevano offrire.

L’obbiettivo dunque di Ford era quello di irrompere con tutta la sua

intraprendenza nel mercato di massa e “mettere a disposizione

un’automobile ad ogni americano” attraverso la standardizzazione, ossia

la divisione in fasi della fabbricazione di un’auto, i cui componenti

dovevano essere prodotti indipendentemente dal risultato finale, quindi

attraverso l’assemblaggio seriale di migliaia di “modello T”.

Tramite la catena di montaggio, le teorie di Taylor vengono applicate in

modo preciso e sistematico a tutto il processo produttivo. Tuttavia quello

di Taylor è principalmente uno studio sull'organizzazione del lavoro,

invece Ford mette in atto una “completa parcellizzazione dei movimenti

degli operai”.

Non solo il prodotto doveva essere standardizzato ma pure l'operaio, il

quale doveva essere controllato sotto tutti i punti di vista.

Grazie all'applicazione pratica della teoria tayloristica i lavoratori

diventano dei robot, progettati da altri, e, come tali, non si discostano dal

compito che gli è stato assegnato. 11

Il primo cambiamento che la catena di montaggio portò fu che da quel

preciso momento era il lavoro ad andare dal lavoratore, e non viceversa.

“Il primo passo verso la catena di montaggio venne quando cominciammo

a portare il lavoro agli uomini, invece che gli uomini al lavoro. Adesso in

tutte le operazione seguiamo due principi generali: un operaio non deve

mai fare più di un passo, se proprio non lo può evitare del tutto, e nessun

operaio deve mai piegarsi” Henry Ford

Infatti le parti, che assemblate formavano l’automobile, scorrevano sopra

un nastro trasportatore il quale le portava direttamente all’operaio: invece

che lavorare intorno ad un unico prodotto che si doveva pian piano costruire come

fosse un'opera d'arte, l’operaio lavorava ad un unico pezzo per tutto il tempo,

senza sapere a quale livello della produzione fosse posizionato.

In questo modo si negava l'umanità e si annullava il processo creativo che in

precedenza fu la base della produzione di un bene: l’operaio diventa totalmente

indifferente al lavoro e di conseguenza apatico. La concezione di un lavoro

antropogeno, che esprima l’essenza dell’uomo, perciò viene definitivamente

sacrificata ad una produzione seriale che porta benefici ai consumatori, ma che

aliena in modo terribile l'operaio e la sua dignità.

La fordizzazione dell’operaio sembra così essere la realizzazione tragica di ciò che

Marx intuì osservando i primi sviluppi della industrializzazione europea, la

condanna di Sisifo messa in atto. 12

Con l’avvento di tecniche come la catena di montaggio capaci di produrre

serialmente un oggetto, non solo possiamo assistere al deterioramento psicologico

dell’uomo dietro la macchina, ma anche ad una perdita di valore, di originalità e di

unicità dello stesso prodotto serializzato.

L’omologazione priva il manufatto della sua più elevata qualità; la specificità è

sostituita con l’obiquità tanto che esso diventa un prodotto di massa.

Contro questa produzione massificata, scadente, che andava a sostituire

l’artigianato, si mosse l’intero ambiente artistico inglese di fine ottocento e William

Morris. William Morris

13

Il decorativismo di Morris come soluzione

alla perdita di valore del prodotto di serie

La grande industrializzazione tardo ottocentesca negò al manufatto qualunque

valenza estetica in nome della utilità e del basso costo che poteva dare la

produzione seriale.

Morris criticava sia la perdita di valore dell’oggetto che diventava così scadente, ma

anche la mancanza di creatività del lavoro di fabbrica (una volta affidato

all’artigiano).

Morris quindi si propose, prima a capo della ditta “Morris,Marshall,Faulckner&co”

(i quali si definivano “operai d’arte”) e poi fondando la “Arts and Crafts Exhibition

society”di realizzare oggetti utili, d’uso comune, rendendoli anche belli, per

conciliare il piacere creativo dell’artigiano con il lavoro industriale.

L’obbiettivo fu quello di rendere lo scabro oggetto, pur essendo di serie e di basso

costo, una piccola opera unica nella sua estetica, attraverso la decorazione.

Così facendo, riabilitando il nome delle arti minori quali il decorativismo, Morris

riesce a recuperare il valore del manufatto e a sottrarlo alla stretta omologazione

della serialità. 14

L’esito tuttavia diventa drammatico se al processo seriale viene sottoposto non

tanto un manufatto (artigianale, banalizzato e reso oggetto di massa, quotidiano)

bensì un’opera d’arte, copiata, riprodotta, la quale non solo perde la sua unicità

spazio-temporale ma anche il suo valore artistico che viene oggettivato e

spersonificato. Si assiste così alla perdita di carisma insito nell’opera d’arte, unica

eppure riprodotta.

Di questa problematica prospettiva si occupò Benjamin Walter ne

“ l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” Benjamin Walter

15

L’opera d’arte nell’epoca della sua

riproducibilità tecnica

L’opera d’arte come dice Benjamin è sempre stata riproducibile (veniva copiata in

bottega dall’allievo per esercitarsi) ma la “riproducibilità tecnica” è differente. Con

la litografia del XIX secolo l’opera d’arte entrò per la prima volta nel mondo della

quotidianità in forma di illustrazione. Poi la riproduzione figurativa raggiunse

sostanzialmente il più alto grado con la fotografia.

Benjamin condanna questo tipo di riproduzione il quale manca di un elemento:

l’hic et nunc dell’opera d’arte, la sua esistenza unica e irripetibile nel luogo in cui si

trova, il concetto stesso della sua autenticità, che viene svalutato nel momento

della riproduzione.

Essa infatti si sottrae totalmente all’ambito della testimonianza storica, della durata

materiale, dell’autorità dell’opera. Anzi rappresenta la liquidazione del valore

tradizionale dell’eredità culturale.

Nel mirino di Benjamin cade anche la tecnica cinematografica, infatti riprendendo

le parole di Abel Gance afferma:

“Shakespeare, Beethoven faranno dei film...tutti i miti e le leggende, tutti i fondatori

di religioni, anzi tutte le religioni aspettano la loro risurrezione nel film, e gli eroi si

accalcano alle porte. Senza rendersene conto aspettano una liquidazione generale.”

Ciò che viene meno, dice il critico letterario, è sostanzialmente riducibile nel

concetto di “aura”.

Tuttavia Il “declino”, il “venir meno” dell’aura (Verfall der Aura) deriva da un

condizionamento sociale (la sempre più viva presenza delle masse in ambito

culturale) fondato sull’esigenza delle masse di voler rendere le cose spazialmente e

umanamente più vicine; da cui deriva la tendenza al superamento dell’unicità

finalizzata alla ricezione collettiva simultanea.

16

L’unicità dell’opera d’arte si identifica con la sua integrazione nel contesto della

tradizione, del culto, la quale è qualcosa di straordinariamente mutevole e vivo.

Un’antica statua di Venere presso i greci poteva essere oggetto di culto invece nel

Medioevo poteva essere un idolo maledetto. Sta di fatto che in entrambi i contesti

veniva risaltata la sua unicità, la sua aura.

Il “valore unico” dell’opera autentica trova la sua fondazione appunto nel rituale

(sia esso magico, religioso o culto profano della bellezza) nell’ambito del quale ha

avuto il suo primo e originaro valore d’uso.

Benjamin perciò parla di un fondamentale valore cultuale (Kultwert) dell’opera,

che induce a mantenere l’opera nascosta: essa è il sacro simulacro di una divinità

accessibile solamente al sacerdote.

Tuttavia vi è un secondo rilevante valore: quello espositivo (Ausstellungswert) : si

pensi alla nascita dell’antica industria del Bello, al valore che i greci davano alle

proporzioni.

E’ solo nella complementarietà armoniosa di questi due aspetti che l’opera

mantiene il suo valore artistico.

Con i vari metodi di riproduzione tecnica che producono copie in serie

dell’originale, l’esponibilità dell’opera d’arte cresce poderosamente creando uno

scompenso grandissimo, addirittura emancipandola pienamente dal suo valore

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