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Sintesi

Introduzione Cinema e illusione tesina



Questa tesina di maturità descrive il cinema. Il cinema è un'arte performativa dello spettacolo, può essere definita la "settima arte" secondo la definizione coniata dal critico Ricciotto Canudo quando pubblicò "Il manifesto della nascita della settima arte" nel 1921. In questo manifesto ipotizzò che il cinema potesse sintetizzare la dimensione dello spazio e del tempo delle arti plastiche con la musica e la danza configurandosi come un nuovo mezzo di espressione.
La nascita del cinema risale al 1895, data della storica serata al “Gran cafè Boulevard des Capucines” dei fratelli Lumiere. Il cinema è stato considerato la più importante invenzione dopo la stampa. Qualsiasi altra forma di rappresentazione non può avere la stessa capacità diretta ed immediata di rendere la realtà. Le sensazioni che riescono a darci certe immagini del cinema non potrebbero essere provocate da nessun'altra forma d'espressione artistica. La comunicazione che esso riesce a stabilire tra autore e spettatore è profonda e completa. La tecnica in questo campo ha continuato a progredire dal giorno della nascita ed è, ad oggi, difficile predire una possibile evoluzione. I mezzi di comunicazione nel mondo moderno sì sono moltiplicati, ma uno dei più efficaci sì conferma ancora il cinema. Questo riesce, meglio di qualsiasi altra espressione umana, a stabilire un contatto diretto con lo spettatore e, riuscendo nello stesso tempo ad astrarlo dal suo mondo interiore, può portarlo ad uno stato di partecipazione e di rapimento meglio di qualsiasi altra arte. A questo punto potremmo rispondere alla domanda: il cinema è arte? Come descritto da Walter Benjamin l'arte richiede l'espressione di particolari contenuti (l 'aura) che possono andare oltre la rappresentazione sfruttando la qualità del mezzo tecnico ai fini di valorizzare i contenuti del lavoro filmografico.
Se il cinema riesce ad esprimere con i suoi mezzi e con il suo linguaggio dei sentimenti è senz'altro arte, l'arte della modernità. Il cinema è la “nuova arte”, l'arte moderna per eccellenza, frutto della tecnologia, figlia della macchina, intrinsecamente legata alla civiltà industriale e adatta, per le sue specifiche caratteristiche, a rappresentarne aspetti fondamentali, quali il movimento, la velocità, il dinamismo e la frenesia. Non è un caso che fra i primi oggetti rappresentanti dal cinema ci sia il treno, macchina emblema della modernità, incarnazione della velocità e della possibilità di vincere le barriere del tempo e dello spazio. Il cinema è l'arte figlia della macchina e, quindi, in quanto tale riproducibile all'infinito. La tesina permette di sviluppare anche altri argomenti in connessione alle varie discipline scolastiche.

Collegamenti


Cinema e illusione tesina


Italiano - L'espressione del cinema nella letteratura: "Quaderni di Serafino Gubbio operatore cinematografico" di Pirandello.
Inglese - Rapporto tra il flusso di coscienza di Virginia Woolf e la tecnica del Flashback cinematografica.
Italiano - La letteratura ha fornito spunti per i film, rapporto tra il Satyricon di Petronio e il Satyricon di Fellini.
Filosofia - Il cinema è capace di andare oltre una visione delle cose reali: l'inconscio, Sigmund Freud.
Storia dell'arte - L'inconscio riprodotto nel cinema: Luis Bunuel, Salvador Dalì e i surrealisti.
Storia - Il cinema come mezzo di comunicazione nei regimi totalitari.
Scienze - Nuove tecniche hanno dato possibilità di riproduzione di realtà storiche: rapporto tra il film Pompeii e il Vulcanesimo.
Fisica - Passaggio dalle pellicole alle memorie digitali: Magnetismo.
Matematica - Rapporto del cinema con i super computer e con le leggi che regolano i costi di questi ultimi: le funzioni delle leggi.
Estratto del documento

Riproduzione di realtà storiche nel cinema

Nel cinema la ricerca della verità storica è stata ostacolata dalle

difficoltà di riprodurre una realtà che non esiste più.

Il progresso delle tecniche ha consentito di ricreare situazione storiche

come si ritiene fossero nel momento in cui accaddero. Negli ultimi

decenni grazie alle nuove conoscenze si è intensificata l’interazione

tra cinema e informatica e sono nati nuovi strumenti, come la

computer-grafica, che rendono possibile riprodurre avvenimenti storici

come l'eruzione vulcanica del Vesuvio del 79 d.C..

Il progresso tecnologico e il cinema

Dalla fine degli anni ottanta, inoltre, si è vista la progressiva

affermazione del supporto digitale rispetto a quello analogico: questa

innovazione ha investito tutti i campi, da strumenti della vita

quotidiana, alla musica, alla fotografia fino ad influenzare anche il

cinema. Nello specifico particolarmente importante è stato il passaggio

dalla pellicola alle memorie digitali magnetiche.

Con lo sviluppo delle nuove tecnologie si è giunti, negli anni, ad un

utilizzo avanzatissimo della computer-grafica, potendo così creare

paesaggi, edifici e addirittura fisionomie e dettagli dei personaggi dei

film grazie "solo" a dei super-computer e a pochi ingegneri informatici

e designer.

L'utilizzo dei super-computer era, però, inizialmente limitato a

pochissime case produttrici a causa del loro costo spropositato, poiché

l'utilizzo di questi computer era di numerosi milioni di dollari. Con gli

anni il costo di utilizzo di questi computer è diminuito tantissimo e ha

garantito l'utilizzo delle nuove tecnologie anche a case di produzione

minori, aumentando notevolmente la qualità dei film. Questa

diminuzione di costo dell'utilizzo dei computer fu prevista da un

informatico, Herber Grosch, che afferma che:

"La stessa operazione su un sistema informatico sarà effettuata a costi

~Grosch

dimezzati se sarà eseguita a velocità quadruplicata."

Invece un altro teorico informatico, Gordon Moore, stabilì un'altra

legge, sulla velocità dei microprocessori, dicendo che:

"Le ~Moore

prestazioni dei microprocessori raddoppiano ogni 18 mesi."

Combinando la legge di Grosch con la legge di Moore si può quindi

affermare che in tre anni il costo di un processo computerizzato di

elaborazione delle informazioni si riduce della metà.

Queste leggi possono essere rappresentate graficamente come due

funzioni. Legge di Grosch Legge di Grosch

12

10

8

6

4

2

0 0 5 10 15 20

Figura 1, rappresentazione della legge di Grosch: sulle ordinate le unità di costo, sulle ascisse le unità di velocità dei

processori Legge di Moore Legge di Moore

18

16

14

12

10

8

6

4

2

0 0 1 2 3 4 5 6 7

Figura 2, rappresentazione della legge di Moore: sulle ascisse gli anni, sulle ordinate le unità di velocità dei

processori DOCUMENTI

Pirandello

Luigi Pirandello nacque nel 1867 ad Agrigento, il padre dirigeva miniere

di zolfo, per cui la sua condizione era quella di un agiato borghese. Si

iscrisse all’Università di Palermo, poi alla facoltà di Lettere a Roma, ma

si laureò all’Università di Bonn in Filologia romanza nel 1891. L’anno

dopo si trasferì a Roma e si dedicò interamente alla letteratura, nel

1893 scrisse il suo primo romanzo, “L’esclusa”. Dal 1903 un

allagamento della miniera di zolfo in cui il padre aveva investito tutto il

patrimonio familiare provocò il dissesto economico della famiglia e la

pazzia della moglie di Pirandello. Proprio la convivenza con la donna

costituì per lui un tormento continuo tant’è che quest’evento può

essere visto come il “germe” della sua concezione dell’istituto

familiare come “trappola che soffoca l’uomo”. La perdita delle

rendite costrinse Pirandello a integrare lo stipendio di docente con

un’intensificazione della sua produzione di novelle e romanzi, inoltre

lavorò anche per l’industria cinematografica scrivendo soggetti per

film. La vita di Pirandello venne profondamente segnata

dall’esperienza di declassazione da una vita di agio borghese ad una

condizione “minore”, questo gli fornì spunto per la rappresentazione

del grigiore della vita piccolo borghese. Nel 1910 Pirandello

ebbe il primo contatto con il mondo teatrale e dal 1915 la sua

produzione in questo campo si intensificò tanto da scrivere quasi solo

per il teatro. Egli scrisse una serie di drammi che modificavano

profondamente il linguaggio della scena del tempo, come “Il berretto

a sonagli”, “Il giuoco delle parti” e “Sei personaggi in cerca

d’autore”. Questi furono conosciuti e rappresentati in tutto il mondo,

tanto che dal 1922 Pirandello si dedicò interamente al teatro, lasciando

la cattedra universitaria e assumendo la direzione del Teatro d’Arte a

Roma. Quest’esperienza fu resa possibile anche grazie anche al

finanziamento dello Stato. Nel 1934 gli venne assegnato il Premio

Nobel per la Letteratura. Negli stessi anni seguiva da vicino gli

adattamenti cinematografici delle sue opere, essendo consapevole che

il cinema rappresentava un pericolo per il teatro. Proprio mentre

assisteva alle riprese della rappresentazione del “Il fu Mattia Pascal”,

si ammalò di polmonite e morì nel dicembre 1936.

I testi narrativi e drammatici di Pirandello insistono su alcuni nodi

concettuali. Alla base della visione pirandelliana vi è una concezione

vitalistica: la realtà tutta è “vita”, intesa come eterno divenire, come

un «flusso continuo, incandescente, indistinto». Tutto ciò che si stacca

da questo flusso comincia a morire.

Così avviene dell’identità personale dell’uomo: per Pirandello noi

non siamo che parte indistinta nell’«universale ed eterno fluire della

vita», ma tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, in una

personalità che è un’illusione e scaturisce dal sentimento soggettivo

che noi abbiamo del mondo. Inoltre non solo noi stessi ci fissiamo in

questa “forma”, bensì anche gli altri, vedendoci ciascuno secondo la

sua prospettiva particolare, ci danno determinate “forme”. Noi

crediamo di essere «uno» per noi stessi e per gli altri, mentre siamo

tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. Ciascuna

di queste “forme” è una «maschera» che noi stessi ci imponiamo e

che ci impone il contesto sociale. Sotto questa maschera non c’è

«nessuno», o meglio vi è solo un fluire incoerente di stati in perenne

trasformazione, per cui un istante più tardi non siamo più quelli che

eravamo prima.

Questa teoria di frantumazione dell’io rappresenta la crisi dell’idea

di identità e di persona nella realtà contemporanea dovute sia

all’espandersi della grande industria (e all’utilizzo delle macchine),

che meccanizzano l’esistenza dell’uomo e riducono il singolo a

semplice “rotella di un meccanismo”; sia al formarsi delle grandi

metropoli moderne, in cui l’uomo smarrisce il legame personale cogli

altri.

Pirandello è uno degli interpreti più acuti di questi fenomeni, e li riflette

nelle sue teorie e nelle sue costruzioni letterarie.

La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io suscita nei

personaggi pirandelliano smarrimento e dolore. L’avvertire di non

essere «nessuno» genera un senso di solitudine tremenda, inoltre

l’individuo soffre anche ad essere fissato dagli altri in «forme» in cui

non può riconoscersi. Queste «forme» sono sentite come una

«trappola» in cui l’individuo si dibatte, lottando invano per liberarsi.

Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti

sociali. Egli, infatti, definisce la società “un’enorme pupazzata” che

isola l’uomo dalla vita.

Alla base di tutta l’opera pirandelliana si può scorgere un bisogno

disperato di autenticità. Anche se la sua vita si svolge sui binari del

perbenismo esteriore, Pirandello è nel suo fondo un anarchico: per lui

le finzioni su cui la vita sociale si fonda, le maschere e le «parti» fittizie

che la società impone, vengono nelle sue opere irrise e disgregate,

tant’è che egli definisce la famiglia come l’istituto in cui meglio si

manifesta la “trappola” che imprigiona l’uomo, cogliendo il

carattere opprimente dell’ambiente familiare.

L’unica via di salvezza che Pirandello da ai suoi eroi è la fuga

nell’irrazionale: nell’immaginazione o nella follia.

Il rifiuto della vita sociale dà luogo al “forestiere della vita”, colui che

“ha capito il giuoco”, ha preso coscienza del carattere fittizio del

meccanismo sociale e si esclude guardando vincere gli altri

dall’esterno della vita, rifiutando di assumere la sua di “parte”,

osservando gli uomini con atteggiamento umoristico, di irrisione e

pietà. Questa è quella che Pirandello definisce anche «filosofia del

lontano», secondo cui l’eroe estraniato dalla realtà, nel suo

pessimismo radicale, si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida

coscienza critica del reale. La realtà però è multiforme, non esiste una

prospettiva privilegiata da cui osservarla, ognuno ha una propria

visione soggettiva, ognuno ha la sua verità riguardo al “reale”. Da

questo deriva un’inevitabile incomunicabilità fra gli uomini che mette

ulteriormente in crisi la possibilità di rapporti sociali e contribuisce a

svelarne il carattere convenzionale e fittizio.

Il romanzo pirandelliano “Si gira…” o “I quaderni di Serafino Gubbio

operatore”, rappresenta uno dei punti di contatto tra la letteratura e il

cinema, cogliendo allo stesso tempo la concezione della vita di

Pirandello: Serafino è un operatore cinematografico che,

come si evince dal romanzo, è il tipico “eroe pirandelliano”, un

estraniato dalla vita, che contempla l’affannarsi degli uomini per

inseguire illusioni che essi credono realtà oggettive. La sua professione

diviene la metafora di questo distacco contemplativo: nell’era delle

macchine e dell’industria dello svago, non è più possibile

l’autenticità dei sentimenti e delle azioni. Di fatti l’estraneazione di

Serafino lo porta a diventare un tutt’uno con la cinepresa, a diventare

“cosa”. Pirandello, inoltre, esprime nel romanzo la sua repulsione per

la macchina e la realtà industriale, che contribuiscono a rendere

meccanico il vivere degli uomini e a trasformare tutto in merce.

Probabilmente è anche per questo motivo, oltre che per lui con il

cinema si perde “l’azione viva” degli attori di teatro, che egli

preferisce il teatro.

Pirandello fu un grande innovatore del teatro del ‘900. Il suo è un

teatro che gioca sulla deformazione e sull’assurdo, che si può inserire

in un contesto borghese e che sostanzialmente si incentrava sui

problemi della famiglia e del denaro, fondandosi sulla verosimiglianza

alla vita quotidiana. L’autore porta la logica delle convenzioni

borghesi alle estreme conseguenze: i ruoli della società vengono

assunti con estremo rigore, sino a giungere al paradosso e all’assurdo,

e così vengono smascherati nella loro inconsistenza. Nei suoi

drammi Pirandello sconvolge due capisaldi del teatro borghese

naturalistico, la verosimiglianza e la psicologia. Gli spettatori vedono un

mondo stravolto, ridotto alla parodia e all’assurdo che li lascia

sconcertati e spaesati. I personaggi sono scissi, sdoppiati e

contraddittori nelle loro forme astratte e assurde. A questo processo

di riduzione all’assurdo concorre anche il particolare linguaggio

adottato da Pirandello: un linguaggio concitato, convulso che da

l’idea dell’agitarsi delle passioni come nel vuoto e impediscono

l’identificazione emotiva degli spettatori, inducendoli a vedere la

scena in una prospettiva straniata, a leggerla criticamente.

Pirandello inoltre si avvicinò in particolare al teatro «grottesco»

dandone anche una definizione chiara e pregnante: «Una farsa che

includa nella medesima rappresentazione della tragedia la parodia e la

caricatura di essa, ma non come elementi soprammessi, bensì come

proiezione dell’ombra del suo stesso corpo, goffe ombre d’ogni

gesto tragico.» Il «grottesco”, quindi, non è altro che la forma che

l’arte «umoristica» assume sulla scena. Il tragico è sempre straniato

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