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La tesina prende in considerazione i processi ai quali furono sottoposti Socrate, Gesù e Dreyfus. Al di là della distanza cronologica che li separa, questi processi pongono questioni comuni e sempre attuali: il rapporto tra un ideale di giustizia assoluto.
Materie trattate: Letteratura Greca, Letteratura Latina, Filosofia, Storia
poter parlare nel modo a lui abituale fatto di domande e risposte - e non pronunciando il normale
discorso - e ne conclude la prima parte affermando di non volere ricorrere ai consueti mezzi per
commuovere i giudici.
Il processo a Socrate, come ogni altro processo davanti all’Eliea, giunse a conclusione il giorno
stesso in cui era cominciato. L’imputato fu dichiarato colpevole con una maggioranza di 281 voti
contro 220; fu condannato a morte da 300 voti contro 201, segno evidente del risentimento del
tribunale contro la sua orgogliosa linea di condotta. Secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,
gli Ateniesi, pentitisi per la morte di Socrate, avrebbero condannato Anito all’esilio e Meleto alla
pena capitale; per Diodoro Siculo, Anito fu messo a morte al pari di Meleto e, se si considera la
testimonianza di Plutarco, morì suicida.
Al di là delle generiche e convenzionali accuse addotte da Meleto, Anito e Licone contro Socrate,
nella sua condanna trovava sfogo il malessere della restaurata democrazia ateniese, sospettosa
dell’uomo che aveva avuto tra i suoi discepoli Alcibiade e l’odiato Crizia. Amico dei Trenta
Tiranni, si era, tuttavia, rifiutato di eseguire un ordine del feroce governo; ma altrettanto aveva
criticato illegalità ed errori del regime democratico. Ma le cause profonde del malanimo risalivano
più lontano: esse vanno ricercate nell’invidiosa ostilità dell’opinione pubblica contro chi ne mette in
crisi le convinzioni e le convenzioni, siano queste politiche oppure religiose o anche economico-
sociali, dato che l’esempio e l’insegnamento di Socrate distoglievano i giovani dalle attività a cui i
loro padri intendevano indirizzarli. La città non riusciva a riemergere da un nevrotico terrore contro
chi sembrasse mettere in crisi le larve delle sue antiche strutture. Socrate era un uomo libero,
refrattario agli schieramenti e ciò suonava come un’incomprensibile eversione per la fanatica
partigianeria dei suoi concittadini. A decretare la morte di Socrate fu il prorompere di un fanatismo
irrazionale, sebbene intendesse attribuirsi la patina della legalità, e di un impulso reazionario che
gli imputava quel mutamento dei costumi aviti, in cui si voleva riconoscere la causa della rovina di
Atene, reduce dalla sconfitta contro Sparta e dalla tirannia dei Trenta Tiranni.
L’esecuzione della sentenza dovette essere rinviata di quasi un mese per ragioni sacrali; Socrate
sarebbe potuto fuggire, grazie all’aiuto del fedele amico Critone, ma non volle violare le leggi di cui
per tutta la vita aveva propugnato il supremo valore. Alla fine venne il momento di bere la pozione
di cicuta; nel Platone ha lasciato il racconto grandioso della nobile pace interiore con cui
Fedone
Socrate si accomiatò dalla vita, la stessa pacata tranquillità con cui sapeva guardare all’esistenza,
comprenderne il valore e, soprattutto, la misura. Egli aveva insegnato e praticato la virtù, ossia il
giusto modo di essere uomini, con modestia ma anche con la consapevolezza di compiere il proprio
destino; e aveva indicato che questo è il massimo premio che ci si può attendere dall’esistenza
terrena. Ciò gli consentiva di rivolgersi con disdegno alla miseria umana dei suoi nemici e di
contrapporre la propria morte alla loro vita.
Quanti avevano condiviso il privilegio della sua grazia intellettuale rimasero con il senso di essere
stati testimoni e vittime di un’ingiustizia infame.Vollero che il maestro, di filosofia e vita insieme,
rivivesse nei loro scritti, riprodussero non tanto le sue parole, quanto l’incanto della sua persona.
La fiorente letteratura seguita alla morte di Socrate comprese, tuttavia, non esclusivamente discorsi
di difesa – le Apologie scritte da Senofonte e da Platone sono gli unici superstiti – ma anche
discorsi d’accusa contro il filosofo, quale quello – oggi perduto – del sofista Policrate, in cui
Socrate era presentato come nemico della democrazia e al quale Senofonte rispose nei Memorabili.
Altri discorsi di difesa per Socrate furono composti da Lisia e Demetrio Falereo.
Soffermandosi sulle testimonianze primarie di Platone e di Senofonte, entrambi hanno composto un
discorso che simuli di essere la difesa di Socrate davanti al tribunale. Non sono di certo le parole
pronunciate da lui nell’occasione, né gli autori lo pretendono.
Si ricordi che Senofonte non assistette nemmeno di persona al processo di Socrate, poiché era
lontano da Atene fin dal 401 (anno in cui era partito per arruolarsi nell’esercito di Ciro) e su di lui
gravava una condanna a morte per contumacia, forse per un reato di sangue; si è servito, perciò,
della testimonianza indiretta di Ermogene. Tuttavia, è verosimile che nel discorso di Senofonte e
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soprattutto in quello platonico riecheggino il senso e il tono dell’arringa socratica: Socrate non fece
nulla per conquistarsi il favore dei giudici a prezzo della sua integrità e dichiarò la propria assoluta
innocenza, dimostrandola con l’esempio della sua intera esistenza, a tutti nota.
Le ragioni degli accusatori
Le accuse formali di corruzione dei giovani e di empietà rivolte contro Socrate da Meleto, Anito e
Licone erano state sinistramente anticipate da un’opera di Aristofane, rappresentata
Nuvole,
venticinque anni prima della celebrazione del processo al filosofo. La testimonianza di Aristofane
costituisce dunque un punto di partenza importante per avvicinarsi ai veri moventi che ispirarono gli
accusatori di Socrate e motivarono il giudizio di condanna della maggioranza dei giurati.
Le Nuvole furono rappresentate nel 423 durante le Grandi Dionisie ed ottennero il terzo posto; il
tragediografo, deluso dal risultato, scrisse una seconda versione dell’opera (quella che noi oggi
leggiamo), mai messa in scena.
Nelle Nuvole si realizza un processo di tipizzazione comica di Socrate, rappresentato nell’azione
del cullarsi in una cesta dondolante nell’aria, in svanite e dannose chiacchiere, simile ad Orfeo o ad
Anassagora, il cui processo per empietà si era celebrato solo otto anni prima. Durante la sua difesa,
Socrate cercherà di prendere le distanze da quella calunnia, ma certo gli Ateniesi dovettero
riscoprire nella sua figura alcuni tratti di quel tale dall’aspetto trasandato e che passava il suo
tempo in conversazione con questo o con quello.
Nel corso della vicenda scenica, Socrate appare come un che evoca divinità straniere e
γοησ
pratica cerimonie iniziatiche, vale a dire un sacerdote cialtronesco dedito a manifestazioni marginali
di religiosità; un pitagorico ascetico che dirige una comunità segreta di adepti dediti ad attività
sospette; un pensatore ateo e materialista, studioso di astronomia e dedito ad altre paradossali forme
d’indagine scientifica; un sofista, maestro di retorica e grammatica e studioso di musica.
In particolare, fino alla parabasi Socrate appare come un dedica a forme di meditazione
γοησ (si
estatica per cui la sua anima vaga in aria e a rituali privati, come testimonia la scena dell’iniziazione
di Strepsiade; evoca divinità straniere quali le Nuvole davanti agli iniziati e venera lingua, etere ed
intelletto; adotta uno stile di vita ascetico) e nel resto della commedia è sofista e insegnante di
oratoria e musica. Si tratta di personaggi familiari all’esperienza comune dell’uditorio: nell’ultima
parte del V secolo, Atene dava ricetto a purificatori, stregoni, o ad altre corporazioni di sacerdoti
girovaghi, nonché adepti di rituali estatici importati dall’oriente e che nell’epoca della guerra del
Peloponneso videro una clamorosa diffusione in ambiente ateniese.
L’opera citata è significativa poiché, attraverso i suoi contenuti, Aristofane dava voce ad una
opinione pubblica tendenzialmente ostile ad ogni innovazione sul piano intellettuale e dalla quale
germinarono, attraverso un lungo arco di tempo, le accuse formali contro Socrate.
La caricatura del filosofo fatta da Aristofane non mirava tanto a colpire l’individuo reale quanto
quel genere di vita esemplare condotta dal filosofo, dedita da un lato all’esercizio della pura
conoscenza finalizzato al raggiungimento di un’autentica sapienza e, dall’altro, al culto della virtù.
Agli strenui difensori della tradizione, impegnati a proteggere un sistema di valori in crisi, poco
importava che il filosofo mirasse, attraverso la constatazione di questa crisi, a ricercare solide basi
di riorientamento sociale. Egli doveva apparire ai loro occhi soprattutto come un pericolo per la
tenuta della compagine sociale.
Da questi avversari, per lo più anonimi, Socrate sarebbe stato accusato di coltivare interessi
cosmologici che si accompagnavano ad una negazione dell’esistenza di entità divine e di
capovolgere con artifici sofistici il valore reale dei ragionamenti; avrebbe, inoltre, propagato queste
pericolose nozioni tramite l’insegnamento ai giovani.
Sembra, dunque, esservi una reale continuità fra la calunnia di cui Socrate è stato fatto segno (i cui
contorni essenziali sono riconoscibili in battute e intreccio della commedia di Aristofane) e il
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processo intentatogli da Meleto, Anito e da Licone sotto le accuse di corrompere i giovani e di non
riconoscere gli dèi ai quali Atene offriva il suo culto.
E’, tuttavia, fondamentale considerare i punti di contatto uniti alle altrettanto rilevanti differenze
che intercorrono tra le accuse formali e il pensiero di Aristofane.
Sostanzialmente immutata appare l’accusa di diffondere fra i giovani insegnamenti corruttori. Ciò si
spiega, in prima analisi, come una reazione al successo costantemente incontrato dal filosofo presso
la gioventù ateniese. Ma se andiamo a vedere quali sono i pericolosi contenuti di
quell’insegnamento, constatiamo fra Aristofane e l’accusa formale una certa divaricazione: certo in
entrambi viene denunciato un forte elemento di irreligiosità, ma solo per il commediografo essa si
manifesta in una professione di ateismo, connessa con l’interpretazione naturalistica di entità, come
i corpi celesti, tradizionalmente ritenute divine. Il racconto del Fedone sembrerebbe invece attestare
che il naturalismo era stato un peccato giovanile di Socrate, in cui non aveva poi troppo indugiato.
Nell’Apologia, Socrate ritiene opportuno prendere esplicitamente le distanze da Anassagora, a cui
viene abbinato soltanto in Aristofane, autore poco propenso a cogliere le distinzioni interne al
mondo dei filosofi.
E’ significativo che l’imputazione formale preferisca addebitargli un’introduzione di nuove divinità
ovvero diverse da quelle ospitate entro l’orizzonte della religiosità civica: un distacco dalle
consuetudini del culto, dunque, più che da teorie sulla natura degli dèi. Si può ipotizzare che a tale
accusa Socrate prestasse più il fianco, a causa di quel o segno divino che egli stesso
daimonion
evoca nel corso del processo, descrivendolo come una sorta di monito interiore, una personalissima
forza spirituale che ha orientato l’intera sua esistenza.
Può aver contribuito ad alimentare il pregiudizio negativo nei confronti di Socrate la conoscenza dei
suoi stretti rapporti con Alcibiade, coinvolto negli scandalosi ed empi episodi della mutilazione
delle erme e della concomitante parodia dei misteri eleusini.
E’ probabile, tuttavia, che non sia stato solo lo scrupolo religioso a muovere gli accusatori di
Socrate, come dimostra la veemenza della condanna.
Il riferimento al non sembra rappresentare l’aspetto più destabilizzante
daimonion
dell’insegnamento di Socrate. La cultura greca, infatti, conosceva una lunga tradizione di
scetticismo, normalmente tollerato, nei confronti della religione olimpica: non esisteva una classe
sacerdotale deputata al mantenimento dell’ortodossia e neppure una nozione di dogma, che
trovasse base e autorità in una rivelazione. Sul piano sociale, nell’Atene del periodo classico, il
senso del divino si esprimeva nel contesto del rituale e dei sacrifici, senza erigersi a fondamento
intimo dell’ordine istituzionale.