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Sintesi

Tesina - Premio maturità  2009

Titolo: Alètheia - Verità  non oblio

Autore: Saracini Alice

Scuola: Liceo classico

Descrizione: nell' opuscolo si cerca di fornire una personale interpretazione del perchè nell'antichità  la popolazione greca abbia voluto affiancare al concetto di vero il "non oblio".

Che cos'è la Verità , in verità ? Sin dai tempi più antichi l'uomo ha associato il vero ad un qualche concetto attinente: la verità  come giustizia, come fede, come memoria. Di fatto però non è mai stata percepita nel suo valore intrinseco ed unico che deriva da una semplice equazione: verità  è compagna di realtà . Anzi, la verità  è la componente orale della realtà , il racconto degli aspetti autentici di quest' ultima. In questo breve opuscolo è mia volontà  ricercare il significato del termine "verità " tentando di giustificarne la valenza in correlazione con il suo corrispondente greco "alètheia". Mi sono chiesta: perché gli antichi greci vollero denominare il vero come "ciò che non dimentica, ciò che non è oblio"? Ho deciso di spiegare questa scelta concependo la verità  come denuncia della realtà , giudicando che se un uomo sceglie di intraprendere la strada della verità , egli non permette che la realtà  del mondo, di se cada nell'oblio, nella dimenticanza: si fa perciò compagno di essa nel raccontarla. Il significato che io ho attribuito ad "aletheia" è frutto di una mia personale interpretazione; ma mi trovo assolutamente d'accordo con l'illustre Scienziato, che ritiene molto più efficaci ed importanti i tentativi che l'uomo compie per arrivare alla Verità , piuttosto che il possesso della stessa attraverso l'accezione di aride ed impersonali certezze.

Area: umanistica

Materie trattate: Italiano, Giovanni Pascoli, "Nebbia", la volontà  di allontanarsi dal proprio passato. Italiano, Giacomo Leopardi, "Ginestra o fiore del deserto", l'accettazione coraggiosa dell'arido Vero. Latino, Marco Giunio Giovenale, "Satire", la volontà  di denunciare i costumi corrotti della società  sua contemporanea. Filosofia, Hannah Arendt, "Le origini del totalitarismo", volontà  di deplorare le cause e il funzionamento del regime totalitario.

Sommario: • Premessa • Storia del termine e analisi dell'ambiguità  della parola • Giovanni Pascoli e la scelta dell'oblio: Nebbia • La scelta di Leopardi: la "Ginestra o Fiore del Deserto" • La verità  - denuncia - Decimo Giunio Giovenale, poeta dell'indignazione - Hannah Arendt: "Le origini del totalitarismo" • Conclusione

• Bibliografia.

Bibliografia: • MARCEL DETIENNE, I maestri di verità  nella Grecia arcaica, Bari, 2008 • N. ABBAGNANO, G. FORNERO, Protagonisti e Testi della Filosofia, Milano, 2000 • E. MALASPINA, P. PAGLIANI, R. ALOSI, A. BUONOPANE, R. AMPIO, A. BALBO, Antico Presente. Storia e testi della letteratura latina, Milano, 2006 • R. LUPERINI, P. CATALDI, L. MARCHIANI, F. MARCHESE, Manuale di letteratura. I saperi di base: autori e opere, temi e immagini, Firenze, 2006 • H. ARENDT, Verità  e politica, seguito da: La conquista dello spazio e la statura dell'uomo, Torino, 2004 • H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Milano, 1966 • U. PANOZZO, Cultura e vita, Firenze, 1969

Estratto del documento

INDICE

Premessa pag. 1

• Storia del termine e analisi dell’ambiguità della parola pag. 2

• Giovanni Pascoli e la scelta dell’oblio: Nebbia pag. 4

• La scelta di Leopardi: la “Ginestra o Fiore del Deserto” pag. 7

• La verità – denuncia

- Decimo Giunio Giovenale, poeta dell’indignazione pag. 9

- Hannah Arendt: “Le origini del totalitarismo” pag. 11

Conclusione pag. 13

• Bibliografia pag. 14

• PREMESSA “La ricerca

della Verità

è più preziosa

del suo possesso.”

Albert Einstein

Che cos’è la Verità, in verità?

Sin dai tempi più antichi l’uomo ha associato il vero ad un qualche concetto attinente: la verità

come giustizia, come fede, come memoria.

Di fatto però non è mai stata percepita nel suo valore intrinseco ed unico che deriva da una semplice

equazione: verità è compagna di realtà. Anzi, la verità è la componente orale della realtà, il racconto

degli aspetti autentici di quest’ ultima.

In questo breve opuscolo è mia volontà ricercare il significato del termine “verità” tentando di

giustificarne la valenza in correlazione con il suo corrispondente greco “alètheia”.

Mi sono chiesta: perché gli antichi greci vollero denominare il vero come “ciò che non dimentica,

ciò che non è oblio”?

Ho deciso di spiegare questa scelta concependo la verità come denuncia della realtà, giudicando che

se un uomo sceglie di intraprendere la strada della verità, egli non permette che la realtà del mondo,

di se cada nell’oblio, nella dimenticanza: si fa perciò compagno di essa nel raccontarla.

Il significato che io ho attribuito ad “aletheia” è frutto di una mia personale interpretazione; ma mi

trovo assolutamente d’accordo con l’illustre Scienziato, che ritiene molto più efficaci ed importanti

i tentativi che l’uomo compie per arrivare alla Verità, piuttosto che il possesso della stessa

attraverso l’accezione di aride ed impersonali certezze.

STORIA DEL TERMINE E ANALISI DELL’AMBIGUITA’ DELLA PAROLA

In una civiltà scientifica, l’idea di Verità richiama subito quelle di obiettività, di comunicabilità, di

unità. Per noi la verità si definisce a due livelli: da una parte come conformità a determinati principi

logici, dall’altra come conformità al reale; in questo senso, è inseparabile dalle idee di

dimostrazione, di verifica, di esperimento. Tra le nozioni elaborate dal senso comune, senza dubbio

la verità è una di quelle che sembrano essere sempre esistite; non aver mai subito alcun

cambiamento; che appaiono insomma relativamente semplici. Basti pensare, però che

l’esperimento, su cui si basa la nostra immagine del vero, è divenuto un’esigenza solo in una

società dove esso era una tecnica tradizionale, in una società dove la chimica e la fisica hanno

conquistato un ruolo di primaria importanza. Dunque, ci si può chiedere se la verità, in quanto

categoria mentale, non sia solidale a tutto un sistema di pensiero; se non sia solidale anche, alla vita

materiale e alla vita sociale.

Tra il nostro sistema di pensiero ( la ragione occidentale) e la Grecia esistono rapporti stretti: infatti

la concezione di una verità obiettiva e razionale, caratteristica dell’Occidente, è nata storicamente

dal pensiero greco. Ne è prova il fatto che personaggi come Parmenide, Platone, Aristotele, sono di

continuo invocati, confrontati e discussi nella riflessione sul Vero dei filosofi contemporanei.

Inoltre, nel tipo di ragione elaborato dalla Grecia a partire dal VI secolo, una certa immagine della

Verità occupa un posto fondamentale. Quando scopre l’oggetto proprio della sua ricerca, quando si

libera dal terreno del pensiero mitico che ancora dominava la cosmologia degli Ioni, quando

affronta deliberatamente problemi destinati a interessarla per sempre, la riflessione filosofica

organizza il suo campo concettuale intorno ad una nozione centrale: o la “Verità”.

Aletheia

Nell’antichità le figure che portano sulla propria bocca sono principalmente tre: l’indovino,

Aletheia

che pone un significato in ambito mantico al termine; il poeta, che scorge la rivelazione del Vero

nella parola poetica; il re di giustizia.

Ognuno di questi personaggi associa la parola ad una o più potenze contigue, ma non

Aletheia

similari.

Il re di giustizia sottintende la coincidenza tra Verità e ossia la giustizia: per lui ciò che è vero

Dike,

è giusto, ciò che è giusto è vero. In effetti, l’Aletheia è la “più giusta” di tutte le cose (Mimnermo).

La sua potenza è fondamentalmente la stessa di a “ che conosce in silenzio ciò che

Dike: Dike

avverrà e ciò che è avvenuto, risponde l’Aletheia, che sa tutte le cose divine, il presente e

l’avvenire” (Euripide, Hel, 13 sgg.).

L’indovino vede associate ad le potenze di e Esse corrispondono l’una alla

Aletheia Pistis Peitho.

confidenza dell’uomo in un dio, oppure, in questo caso, la confidenza di un uomo nella parola di un

dio; l’altra è la potenza della parola quale si esercita sugli altri, “ la sua magia, la sua seduzione

quale gli altri la subiscono” (M. Detienne). Mentre il dono di è topico e proprio della figura

Peitho

dell’indovino, si presenta, oltre che alla stregua di fede nell’oracolo, come confidenza nelle

Pistis

Muse: dote caratteristica del poeta. Quets’ultimo sfrutta per ottenere l’ispirazione dalle Muse

Pistis

affinché lo inducano a rivelare attraverso parole giuste e sagge.

Aletheia

Per il poeta però copre lo stesso valore di la Memoria: è in nome di quest’

Aletheia Mnemosyne,

ultima, infatti che dichiara la Verità, affinché essa con cada nell’ Oblio, Lethe.

Proprio in riferimento a questo, e mostrano un’equivalenza di significato:

Aletheia Mnemosyne

entrambe sono complementari a giacchè come la Memoria, è “un’onniscienza che

Lethe Aletheia

ingloba presente, passato e futuro” ( Iliade, I, 70; Teogonia, Esiodo, 32 e 38).

L’accostamento tra i due termini Verità e Memoria diviene ancor più evidente se si studia

l’etimologia del corrispettivo greco del primo termine.

La parola greca “ ’Alhqeia” è composta dall’elemento “a” (alpha) privativo, particella proclitica

che ha valore di negazione pura e semplice, affiancato al sostantivo “lhqe” (lethe) che significa

“oblio”. Di qui “aletheia” come equivalente di “non – oblio” e, in questo caso, memoria.

Anche se tutti i significati e le sfumature attribuitile dimostrano, come già visto, una certa contiguità

con il termine, attraverso le medesime associazioni si nota come “aletheia” non venga colta nel suo

significato intrinseco e puro.

in se si pone come selezione dell’uomo: essa è la scelta coraggiosa, da lui operata, del

Aletheia

rifiuto dell’ oblio, di un sonno “ tranquillo e dolce per gli uomini”(Esiodo, Teog., 758-766).

Essa rappresenta l’impegno assunto dall’uomo a non dimenticare la vicenda propria e del mondo

che lo circonda : egli sceglie di ergersi titanicamente dalla Nebbia dell’ oblio ( la medesima

invocata da Pascoli affinché lo separi dal suo tristo passato) e di affrontare la realtà o “l’arido

Vero”, come indica Leopardi ne “la Ginestra”, pur essendo consapevole dei propri limiti e delle

proprie debolezze.

L’uomo- titano non si limita però all’accettazione della Verità, ma decide di farsene araldo,

divenendo veicolo della sua denuncia attraverso l’analisi e la deplorazione degli atti della società di

appartenenza, come è messo in essere da Giovenale ( nell’antichità) e Hannah Arendt ( nell’ epoca a

noi più vicina).

GIOVANNI PASCOLI E LA SCELTA DELL’OBLIO: NEBBIA

La preferenza alla “Verità” non viene accordata da tutti gli uomini: alcuni preferiscono cullarsi nella

condizione di torpore psichico fornito dall’oblio che “lene de la faticosa vita” (Carducci, “La Chiesa

di Polenta”). Anzi taluni supplicano affinché una fitta nebbia venga e si frapponga tra loro e le

“cose lontane”, appartenenti al passato.

Un chiaro esempio di questo atteggiamento è evidente in Pascoli, in particolare nella poesia

“Nebbia”.

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e scialba,

tu fumo che ancora rampolli,

su l'alba,

da' lampi notturni e da' crolli

d'aeree frane!

Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch'è morto!

Ch'io veda soltanto la siepe

dell'orto,

la mura ch'ha piene le crepe

di valeriane.

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

Ch'io veda i due peschi, i due meli,

soltanto,

che dànno i soavi lor mieli

pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane

che vogliono ch'ami e che vada!

Ch'io veda là solo quel bianco

di strada,

che un giorno ho da fare tra stanco

don don di campane...

Nascondi le cose lontane,

nascondile, involale al volo

del cuore! Ch'io veda il cipresso

là, solo,

qui, solo quest'orto, cui presso

sonnecchia il mio cane.

Composta nel 1899, la lirica è forse il capolavoro della raccolta “I Canti di Castelvecchio” (1903),

definiti anche “Myricae” autunnali, poiché in raffronto alla raccolta “Myricae” del 1891,

dimostrano la stessa attenzione del poeta verso le “piccole e semplici cose” dell’ambito naturale e

famigliare e rappresentano gli stessi temi funebri. Il “di più” di questa raccolta si trova

nell’andamento più disteso e piano delle poesie, come si nota infatti in “Nebbia” e nell’esasperato

fonosimbolismo che perde qui la propria capacità evocativa, di alludere ad una realtà “altra”.

La lirica è costituita di 5 strofe di 6 versi ciascuna di cui 4 sono novenari; 1 è ternario; 1 è senario. Il

componimento è caratterizzato da rimandi fonici che conferiscono al testo un ritmo cantilenante: il

primo verso di ogni strofa è infatti sempre lo stesso; i versi 2 e 3 formano una lieve anafora con la

ripetizione del pronome “tu” seguito da due sostantivi quasi sinonimi; la formula “ch’io veda

soltanto” è ripetuta più volte, con leggere varianti, ai vv. 9-15-16-21-27; infine al verso 26 vi è

l’esempio di figura etimologica e insieme di allitterazione (“involale al volo del cuore”).

Sul piano lessicale sono presenti nel testo esempi di linguaggio pre-grammaticale ( l’onomatopea

“don don di campane” al v.24) e post-grammaticale (le “valeriane” al v.12 e tutti i nomi degli

alberi) che denotano il plurilinguismo del poeta.

Le tematiche principali del componimento sono: la lontananza; la vicinanza; il nido.

La lontananza è piena di cose che vanno tenute nascoste (vv. 1,7,13,19 e 25), di cose morte (v.8),

che fanno piangere (v.14), che vogliono che il poeta “ami e che vada” (v.20). Per il poeta quello che

è lontano è dunque negativo, è qualcosa che deve essere represso, dimenticato, perché fa soffrire e

perché costringe ad amare e ad “andare”, ossia ad uscire dal nido e affrontare la vita vera. Come un

bambino infatti, il poeta sente la necessità di rinchiudersi in un nido, un protettivo alvo costituito

dalla propria famiglia di origine, dalle “piccole e semplici cose” vicine come una siepe (v.9); un

muro (v.11); due peschi e due meli (v.15); una strada bianca (vv.21-22); un cipresso (v.27); un orto

(v.29) e un cane (v.30). In questo frangente Pascoli assume chiaramente i tratti del poeta – fanciullo

descritto nella sua prosa intitolata “Il fanciullino” (1897): quest’opera, oltre a contenere un esplicito

discorso programmatico di Pascoli sul poeta e sulla poesia, dunque la sua personale poetica,

introduce una nuova figura di poeta.

Il poeta coincide con il “fanciullino”, ovvero con quella parte infantile dell’uomo che negli adulti

tende ad essere soffocata e che invece nei poeti trova libera espressione. Esso è, per metafora, la

capacità dell’uomo di emozionarsi: infatti, il poeta fanciullo esprime delle paure ataviche ma è

anche capace di accenti di tripudio, come è espresso nei primi 20 versi del tratto di prosa “il

fanciullino e il poeta” appartenente all’opera. Egli rappresenta inoltre la capacità umana di stupirsi,

poiché è in grado di cogliere il “nuovo” dal consueto, percependo le connessioni profonde (il

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