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Sintesi
Greco - Eroda e il mimo.
Latino - Seneca dei "Dialogi" e delle "Epistulae ad Lucilium".
Italiano - D'Annunzio e Svevo, i miti collettivi.
Storia - Totalitarismo con riferimento al saggio di Reich.
Filosofia - Freud.
Estratto del documento

tradizionalismo del commediografo. Solo con l'arrivo dell'età ellenistica le espressioni dei modelli valoriali di una

prima società di massa emergono, in quanto è proprio in quest'epoca che il raggio di influenza del letterato e

dell'autore si amplia: si crea una vera società di massa, una psicologia comune e collettiva in una realtà di

κοσμοπολιται, di nuovi ruoli socio-culturali (ormai in mano anche alle donne) e di una realtà umana dove le masse

impongono la loro vivida immagine, forse un po' crudele e stereotipata, che è quella dell'opinione comune, della

reputazione e della spietata maldicenza. Tuttavia il quadro è quello di una descrizione molto distaccata, fredda e

impersonale che si volge anche alla conquista di quello stesso pubblico delineato in modo così aspro e pungente

dall'autore. Piena manifestazione di questo dicotomico dualismo sono i mimi di Eroda, letterato originario di Cos a

lungo considerato il precursore delle correnti naturalistico-veristiche della seconda metà dell'Ottocento. Tuttavia,

nonostante il loro peso sia stato oggi sottovalutato sotto la definizione di puro formalismo, bisogna rivalutare il

mimiambo erodiano come prima fonte del collettivo pensiero della società di massa. La fonte culturale che Eroda

ci offre si colloca a pieno nel contesto socio-culturale ellenistico: gli orizzonti dell'uomo si sono ormai aperti a una

dimensione globale, che l'individuo non riesce ad accettare e verso la quale ci si chiude in un completo

individualismo, che rifugge le masse e il suo pensiero condizionante. Anche se sembra una soluzione alquanto

semplicistica, la società di massa e la collettività assumono già il primo connotato dell'opinione comune, del

chiacchiericcio che schiaccia e bolla in schematismi l'individuo alla ricerca di una propria autoaffermazione. Nei

mimi di Eroda, inoltre, non ci sono solo le masse che bollano l'individuo come figura traviata, dalla dubbia

moralità, ma c'è anche profondo simbolismo e la presenza dell'uomo sociale, ossia di quell'individuo che incarna i

valori collettivi. Le trame del mondo ideale comune si trovano in numerosi mimiambi, come nel Προκυλις η

μαστροπος, dove la mezzana diviene un bozzetto, quasi un canovaccio dell'atellana che rappresenta il pensiero

sociale:

“Si è dimenticato di te e ha bevuto a una coppa nuova”

“...fatti gaia e guarda verso un altro”.

Gillide, l'anziana mezzana che consiglia alla giovane Metriche di incominciare una nuova vita, è il puro simulacro

dell' “individuo sociale”, di una massa storica che entra nella vita del πολιτης e dell'ιδιωτης per renderlo κοσμος,

pubblico, esposto a un mondo al quale, tuttavia, l'uomo individuale cerca cerca di reagire con la propria

autonomistica e ferma opposizione, che si ritrova anche nel Πορνοβοσκος, storia di un lenone che cita in giudizio

il cliente Talete per violenza fatta a una prostituta e all'edificio stesso del bordello:

“Qua anche tu, Mirtala, mostrati a tutti, non avere vergogna di nessuno. Considera gli sguardi di costoro, che vedi

qua a giudicare, sguardi di padri, di fratelli tuoi. Vedete, signori, gli strappi che essa ha subito dal basso e

dall'alto, come a forza di strappare ha reso spellate queste parti, questo scellerato, quando la trascinava e le

faceva violenza”.

Da queste parole si evince a prima vista lo sguardo dell'uomo sociale, Talete, che disprezza e depreca un

mestiere che ormai si vuole privare della sua accezione amorale e spudorata che la massa ha voluto attribuire

con la violenza. E non è solo Battaro, il tenutario del bordello, ad alzare la voce di fronte alla crudeltà della

collettività, ma anche Mirtala, quasi un' “Antigone del silenzio” ellenistica, fa vedere delle ferite che sono il simbolo

delle torture infertele dall'opinione comune. Per questa ragione la descrizione della società di massa che emerge

dai mimi di Eroda non cerca proprio di denunciare la crudeltà e il carattere violento e spietato della collettività (sia

per l'impersonalità assoluta dell'autore sia perché il mimo è uno dei primi veri e propri generi della “cultura di

massa”, diffusosi per l'intrattenimento e scritto secondo il gusto popolare), quanto più mostra i costi che la nuova

società cosmopolita ha imposto ad un individuo che rivendica la sua posizione in un mondo di conformismo e di

“uniformazione globalizzata”, ma che continua a rimanere sotto l'egida delle masse, ormai sempre più

schiacciante e senza più risoluzioni. La società di massa erodiana, in conclusione, non è altro che lo specchio

della storia contemporanea.

3.Denuncia delle masse e “visione d'élite” nel Seneca dei “Dialogi” e delle “Epistulae ad

Lucilium”

Come affronta la litteraria latinitas il problema della società di massa? Anche se nella tradizione letteraria

successiva sarà Marziale l'interprete di un gusto massificato, realistico e descrittore del costume collettivo (da non

dimenticare la sententia “hominem pagina nostra sapit” ), nell'età giulio-claudia Seneca sarà invece il modello

umano individuale che descriverà abiezioni, storture e corruzioni di quella collettività che diviene simbolo della

storia dei tempi, irrazionale e ispirata dall'apparenza e dal potere. Seneca, infatti, riesce a descrivere in modo

dettagliato la società di massa in quanto dalla sua parte ha l'intento di denunciare le brutture della

contemporaneità, Marziale, invece, crea il quadro eterno, non circoscritto storicamente, degli istinti umani e sociali

per ricercare il gusto e dar vita ad una prima forma di “cultura di massa”.

Seneca fa della propria scrittura una “satira invettiva”, una denuncia aspra contro la turba, la folla sconsiderata,

irrazionale, in cui vi è il germe della malattia storica della corruzione. Se in Eroda abbiamo visto come la società

di massa sia forse solo malata di pregiudizio, in Seneca questa diventa fortemente sconsiderata, al di là di

qualsiasi modus vivendi e attirata da un mondo che essa costruisce secondo le sue fattezze ma che addirittura si

fa ad immagine e somiglianza di essa, per venire incontro alle esigenze delle folle. Non c'è mai nell'autore latino

una qualsiasi forma di nostalgia, di un'aurea aetas perduta, di un repubblicanesimo passatistico che celebra dei

valori ormai desueti, c'è piuttosto una pungente critica all'uomo sociale, a quell'essere che viene spinto

dall'attrazione dell'opulenza a evitare la virtus stoica, il rifiuto della brama di potere. In realtà , il risvolto filosofico

della denuncia delle masse si ritrova di più nelle “Epistulae ad Lucilium”, trattazione-finzione letteraria sulla realtà

umana e sulle caratteristiche individuali e sociali dei tipi descritti. Partendo però dalla “Consolatio ad Helviam

matrem” (una sorta di lettera di conforto alla madre per l'esilio in Corsica voluto dall'imperatore Claudio), la

società di massa diviene la protagonista di un'accesa invettiva storica alla corruzione dei tempi. Della turba

profana, spiccatamente vicina al profanum vulgus verso cui si rivolgono l'odio e la ripulsa di Orazio, Seneca

sembra parlare in modo sbrigativo, tipizzato e piatto, in realtà delinea nella società di massa un conglomerato di

specifici caratteri che creano la totalità collettiva:

“alios adduxit ambitio, alios necessitas officii publici, alios inposita legatio, alios luxuria opportunum et opulentum

vitiis locum quaerens, alios liberalium studiorum cupiditas, alios spectacula; quosdam traxit amicitia, quosdam

industria laxam ostendendae virtuti nancta materiam; quidam venalem formam attulerunt, quidam venalem

eloquentiam”. (Consolatio ad Helviam matrem 6,2)

In questo passo ben si nota come la società di massa non sia solo quella che cerca l'appagamento dei propri

impulsi in quella che è divenuta la patria di quei vizi, o meglio di quelle antivirtù, ma come la stessa Roma si

costruisca proprio sulla base di nuove corruzioni dettate dalla massificazione del παθος, tanto amoroso quanto

politico; quelle che Seneca vuole denunciare sono colpe sociali, colpe storiche. Quali sono tuttavia queste colpe?

La brama di successo, di potere, i desideri, la malata persuasione, il desiderio di mettersi in mostra e di vendere

quella che si vuole spacciare per arte: ecco perché il quadro della turba senecana non si riduce ad un circoscritto

pregiudizio, alla convinzione pur sempre malvagia e condizionante che invade l'individuo ma d'altronde anche la

storia, è una denuncia sociale dei mali della quale l'uomo singolo tenta di rifugiarsi con la ragione, con la

riflessione, con la moderazione e con la virtù. Nonostante l'aspro contemptus della collettività, Seneca comunque

non nega alle masse la fondamentale prerogativa dell'essere umani, di avere anche una sensibilità individuale:

“Nec huic publico [...] malo (la brevità della vita) turba tantum et imprudens volgus ingemuit”. (De brevitate vitae 1,1)

Alle masse, però, non è affidato solamente il ruolo dell'elemento corruttore della società, ma diventa spesso

quello iudicium plurium che cerca di scardinare le certezze e quasi di dissacrare il modello valoriale che l'individuo

costituisce per sé:

“Remoto ergo iudicio plurium, quos prima rerum species, utcumque credita est, aufert”

(Consolatio ad Helviam matrem 6,1)

“quis ex istis qui philosophiam conlatrant quod colent dixerint” (De vita beata 17,1)

A prima vista tuttavia sembra seriamente che nella ripugnanza e nell'odio del profanum vulgus in Seneca si ritrovi

una visione d'élite emergente, spiccata, quella che in effetti porterà anche Manzoni nell'Ottocento ad affermare le

riprovevoli amoralità della folla ne “I Promessi Sposi”. Se nella visione piuttosto sociologico-storica dei “Dialogi” si

avverte una forte vena classista, già nelle“Epistulae ad Lucilium” la divulgazione filosofica consente di spiegare

un motivo che sarà poi storico, l'annientamento individuale nel segno di una compatta e spesso negativa

conformazione al pensiero comune e, talvolta, anche al vizio comune:

“Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. [...] aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis

quae fugavi redit”. (Epistulae ad Lucilium 7,1)

L'aegritudo della folla turpe e irrazionale coinvolge tutti e si insinua anche in quel mondo sano individuale che

soffre però di un'intrinseca infimitas, la fallibilità umana, che è ciò che non fa pensare a Seneca come modello

incorrotto e perfetto di vita tanto singola quanto comunitaria. Tuttavia, c'è molta differenza tra gli individui e la

massa indistinta: l'individuo può solamente soffrire di debolezza e di facilità alla persuasione, ma la massa, la

conversatio multorum, viene influenzata in modo continuo da immagini, da modelli valoriali che traviano

psicologie purtroppo non colte, purtroppo non educate a evitare la crudele insipienza e costretti a venir

bombardate da ideali fasulli, da valori che spingono fuori la bestialità. Seneca, perciò, più che criticare in sé le

masse, critica la “cultura di massa”, quella violenza crudele contro l'ignoranza popolare, educata solo dai panem

et circenses, a vivere secondo i dettami di un potere in cui si manifesta quel carattere spietato, virulento e

sanguinario che si vuole impartire a chi non può affatto capire cosa sia la crudeltà. Le masse, per Seneca, non

sono altro che lo sviluppo della sua perentoria accusa, ancora una volta contro i suoi tempi corrotti da figure di

potere che costringono l'uomo a piegarsi alle volontà dell'alto, del superiore, del capo supremo imperiale e perfino

ad annullarsi ottenendo, alla fine, i risultati desiderati dallo spietato governo. I vizi delle masse senecani dei

“Dialogi” si possono perciò accostare al panegirico di Claudio della “Consolatio ad Polybium” : in entrambi c'è il

tema del consenso sociale, ma se negli uni può essere facilmente imposto dall'alto, nell'altro esso va ricercato

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