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Sintesi
INDICE
Introduzione
1. Una “social catena” per il progresso • Giacomo Leopardi
• La ginestra
2. Il lato oscuro del progresso • Giovanni Verga
• Il ciclo dei Vinti
3. Un progresso provocatorio • Il Dadaismo
• Marcel Duchamp
• La Gioconda con i baffi
4. Un progresso nella tradizione
• Bialetti e l’invenzione della Moka
5. Un progresso comunista • Karl Marx
• Il Materialismo storico
• L’alienazione dell’operaio
6. Un progresso sostenibile • La globalizzazione
• La politica di Jose Mujica
Sitografia Bibliografia

INTRODUZIONE
L’idea di sviluppare una tesina sul progresso è nata durante una riflessione circa il mondo che ci cir- conda; oggi, infatti, siamo immersi in un vortice molto potente, in una forma di progresso che si identifica con la globalizzazione.
Per capire meglio cosa fosse tale fenomeno mi è sembrato opportuno approfondire il rapporto tra il pensiero di personaggi importanti e l’idea di progresso.
Durante le prime ricerche ho notato che la maggior parte dei pensatori che mi sarebbe piaciuto analizzare avevano avuto i baffi, così ho scelto di assumere i baffi come traccia simbolica per sviluppare il tema della mia tesina.
Man mano che la ricerca procedeva mi sono accorta che non c’è mai un baffo uguale all’altro come non c’è mai un’idea di progresso uguale all’altra ed è diventato così molto interessante cercare di cogliere le varie sfumature che ognuno degli autori ha saputo dare.
Per analogia o per contrapposizione ho raggruppato i sei personaggi presi in analisi entro tre macro- temi: le emozioni dell’uomo, il rapporto con la tradizione ed infine una visione politico-economica. Di Giacomo Leopardi e Giovanni Verga, di cui ho approfondito rispettivamente nel primo e nel secondo capitolo, ho riportato la visione che essi avevano circa la posizione dell’uomo nel progres- so.
Nei successivi due capitoli, ho contrapposto il Dadaismo, che prendeva in giro la tradizione attra- verso atteggiamenti provocatori, con le Bialetti Industrie che hanno fatto della tradizione il loro punto di forza. Infine, ponendo l’attenzione su aspetti politico-economici, ho dapprima approfondito il pensiero di Marx circa la sua concezione della storia e la condizione dell’operaio nella società capitalistica per poi passare all’analisi dell’odierno fenomeno della globalizzazione. Nella parte fi- nale dell’ultimo capitolo ho, inoltre, riportato delle informazioni sull’ex presidente dell’Uruguay, Jose Mujica, che attraverso la sua politica ha cercato di dar vita al sistema economico ideato da Karl Marx un secolo prima.
La ricostruzione delle varie accezioni dell’idea di progresso mi ha permesso di comprendere meglio il suo significato, giungendo a formulare una mia idea: il progresso è un fenomeno polimorfo in continuo divenire e nel quale, baffuti e non, siamo immersi quindi è bene conoscerne gli aspetti e la storia.

UNA SOCIAL CATENA PER IL PROGRESSO
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 da una famiglia nobile, reazionaria, autori- taria e priva di affetto. Riceve inizialmente una formazione classica da precettori ecclesiastici, a 10 anni continua gli studi da solo nella biblioteca paterna e compone opere erudite. Si ap- passiona a poeti classici come Omero, Virgilio e Dante, in più si avvicina agli autori moderni, in particolare di cultura romantica. In questi anni inizia a comporre lo Zibaldone, ovvero un diario
intellettuale in cui annota riflessioni letterarie e personali.
Nel 1819 Leopardi tenta invano di fuggire dalla casa paterna e l’unico conforto alla solitudine e alla malinconia lo trova nello studio della filosofia.
Tra il 1818 e il 1823 scrive le Canzoni e gli Idilli, cioè delle raccolte di poesie in cui emerge il pes- simismo storico; nel 1822 si reca a Roma ma pochi mesi dopo, deluso dall’esperienza, torna a Recanati. Negli anni che seguono (1824-1832) compone dei testi in prosa nei quali tratta il pes- simismo cosmico: le Operette Morali.
Inizia a girare l’Italia e a scrivere i Grandi Idilli, endecasillabi e settenari in cui utilizza la poetica del vago e dell’indefinito e propone riflessioni sul pessimismo cosmico; è il 1828 quando torna a Recanati per la precaria condizione di salute.
Due anni dopo, Leopardi, ispirato dalla delusione amorosa per Fanny Targoni Tozzetti, scrive un nuovo ciclo di canti, il Ciclo di Aspasia.
Nel 1833, si trasferisce dall’amico Antonio Ranieri a Napoli ma qui entra in contrasto con l’ambien- te culturale e, in risposta alla polemica, compone La ginestra, il suo ultimo grande canto.
Si spegne il 14 giugno del 1837 nel capoluogo campano.
Tutta la sua produzione poetica è raccolta ne I Canti e divisa per fasi di produzione; nei suoi com- ponimenti è possibile notare un forte pessimismo nei confronti della condizione umana. La rifles- sione riguardo all’infelicità dell’uomo si suddivide in due fasi: il pessimismo storico e il pessimis- mo cosmico.
Durante la fase del pessimismo storico, trattato nelle Canzoni e negli Idilli, Leopardi è convinto che l’uomo sia infelice ma che la natura è benigna e gli offre l’immaginazione e le illusioni come rimedi. L’uomo quindi deve adottare un atteggiamento titanico, ovvero compiere azioni eroiche contro il fato, entità maligna che si contrappone alla natura benigna e non permette di raggiungere il piacere.
È diversa la concezione della natura durante la fase del pessimismo cosmico; infatti essa da benigna diventa maligna, ovvero una divinità malvagia, un meccanismo cieco e indifferente alla sorte delle sue creature. L’uomo è vittima innocente e la sua infelicità è dettata da mali esterni; le proteste sono vane e l’unico atteggiamento adottabile è quello dell’atarassia, cioè un atteggiamento di rasseg- nazione e contemplazione. Nel suo ultimo componi-
mento, La ginestra (1836), propone un ritorno al ti- tanismo da concretizzarsi nella “social catena”, ovvero nell’alleanza di tutti gli uomini contro la natura matrigna.
È proprio ne La ginestra che è possibile delineare l’idea
leopardiana di progresso; il componimento ripropone la
dura polemica antireligiosa e antiottimistica ma
Leopardi non esclude più la possibilità di un progresso civile, cerca infatti di costruire un’idea di progresso proprio sul suo pessimismo. Tale possibilità si realizza nella presa consapevolezza della condizione umana per indurre gli uomini a stringere un patto di solidarietà contro le inevitabili offese della natura.
La ginestra è un ampio poemetto di 317 versi divisi in sette strofe di diversa lunghezza, composta da endecasillabi e settenari.
Il poeta delinea la sua idea di progresso civile che si concretizza nella “social catena”, ovvero in un legame di solidarietà tra gli uomini contro la nemica comune, la natura matrigna.
Leopardi sceglie la ginestra perché è un fiore molto profumato che cresce ai piedi del Vesuvio e per questo assume una funzione consolatrice, proprio come la poesia; inoltre rappresenta un modello di comportamento nobile ed eroico in quanto assume un atteggiamento titanico ma non superbo. Ed infine diviene simbolo di pietà verso l’infelice condizione umana.
(POESIA + ANALISI)

IL LATO OSCURO DEL PROGRESSO
Giovanni Verga nasce il 2 settembre 1840 a Catania da una famiglia di agiati proprietari terrieri; dopo i primi studi pres- so maestri privati si inscrive alla Facoltà di Legge ma non termina i corsi e lascia incompiuti gli studi.
Privo di una ampia cultura umanistica, inizia a dedicarsi al
lavoro letterario e al giornalismo politico. Egli si appassiona
alla letteratura moderna francese, in particolare legge opere
di autori di vasta popolarità in quegli anni come Dumas, Sue
e Feuillet. Nel 1865 Verga lascia la provincia per recarsi a
Firenze con l’intento di affinare le sue doti e conoscenze let-
terarie; intorno agli anni 70 dell’Ottocento si trasferisce a Milano dove entra in contatto con gli am- bienti della Scapigliatura e compone tre romanzi: Eva, Eros e Tigre reale.
Il 1878 è l’anno della svolta, ovvero l’autore siciliano pubblica Rosso Malpelo, un racconto di im- pronta verista; Giovanni Verga diviene così il principale esponente del Verismo. Seguono le novelle di Vita dei campi, Novelle rusticane e il primo romanzo del Ciclo dei vinti, I Malavoglia. Nel 1889 pubblica Mastro-don Gesualdo, il secondo romanzo del ciclo, e inizia con la composizione del terzo che non riesce a portare a temine.
Dal 1893 torna a Catania e si ritira a vita privata, occupandosi nella cura delle sue proprietà agri- cole; muore nel gennaio del 1922.
In tutte le sue opere, di qualunque tematica esse trattino, è possibile notare un atteggiamento polemico e critico nei confronti della società del suo tempo: dalla denuncia della caduta degli ideali nella moderna società borghese a quella contro l’accanimento ai beni materiali. Per Verga, quindi, il compito dell’arte si realizza nell’essere vera e nel ritrarre la società in tutte le sue sfumature.
È coinvolto nel dibattito sul Naturalismo letterario francese, che avrà grande influenza sulla sua po- etica. Verga condivide i fondamenti materialistici della cultura positivista, basata sull’analisi del reale condotta con rigore scientifico e quindi la letteratura diviene uno strumento di conoscenza critica della realtà.
Nell’ambiente positivista dell’800, dominato della fiducia nella scienza e nel progresso, l’autore siciliano intende proporre una visione lucida e consapevole della realtà che lo circonda; egli con- cepisce il progresso come un fenomeno positivo ma vuole mostrare l’altra faccia della medaglia, il lato oscuro.
Inizialmente, rifacendosi alla narrativa campagnola di stampo rinascimentale, che esaltava i valori della campagna contro quelli cittadini, Verga compone, prima, le novelle di Vita dei campi e poi le Novelle rusticane in cui presenta episodi di vita rurale ambientati nel contesto contadino siciliano. Riprendendo il modello dai Rougon-Macquart di Zola, Verga intende compiere un analisi completa della società italiana a lui contemporanea passando in rassegna tutte le classi, dai ceti popolari alla borghesia di provincia all’aristocrazia. Così compone il Ciclo dei Vinti, ovvero cinque romanzi legati tra loro dal principio della lotta per la sopravvivenza, che l’autore riprende dalla teoria di Darwin sull’evoluzione delle specie animali ed applica alla società umana. Infatti, secondo Verga, tutta la società è dominata da conflitti di interesse e in essa il più forte trionfa schiacciando i più de- boli; è proprio sui più deboli, sui “vinti”, che l’autore intende soffermarsi. E se per Verga il progres- so è paragonabile ad un fiume, più precisamente a una “fiumana”, i vinti sono coloro che vengono lasciati ai margini, sconfitti dalla loro stessa voglia di cambiare, soprattutto economicamente.
Il ciclo si apre con una premessa in cui l’autore intende chiarire gli intenti generali dell’opera, pre- sentando già una chiara idea della sua concezione di progresso. Infatti scrive: “Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progres- so è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompa- gna dileguansi le inquietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità.”
È evidente che Verga non partecipa a quella mitologia del progresso che era dominante nell’opin- ione comune della sua epoca, bensì esprime ammirazione per la grandiosità del processo di trasfor- mazione in atto. L’autore, affermando che “il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti”, riprende uno dei precetti della dottrina economica liberista di Adam Smith (1723-1790) secondo cui l’individuo, cercando il suo interesse personale, coopera senza saperlo al benessere di tutti.
Non è intento di Verga elogiare il progresso ma evidenziarne gli aspetti negativi; per questo i pro- tagonisti dei cinque romanzi del ciclo sono dei “vinti” nella “lotta per la vita”, coloro che rimanen- do ai margini vengono schiacciati dai più forti.
La prospettiva pessimista proposta è ampliata a tutte le società umane, al mondo animale e vegetale; il meccanismo della lotta per la vita è quindi inteso come una legge naturale e immodificabile. Verga ritiene che non vi siano possibili alternative alla realtà esistente; è, perciò, inutile e privo di senso un intervento giudicante (“Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo”). Invece è bene riprodurre la realtà così com’è e far sì che la letteratura assuma la funzione di studiare ciò che è dato e riprodurlo fedelmente anche attraverso determinati aspetti formali.
Lo scrittore, infatti, deve eclissarsi, ovvero non deve comparire nel narrato con reazioni soggettive, riflessioni, spiegazioni; l’opera deve sembrare “essersi fatta da sé”. Il lettore, “a faccia a faccia col fatto nudo e schietto”, può essere inizialmente confuso non essendoci un narratore che spieghi ante- fatti o tracci un profilo della vicenda.
La voce narrante si colloca all’interno del mondo rappresentato e regredisce allo stesso livello dei personaggi; essa esprime la visione elementare e rozza della collettività popolare, si può quindi par- lare di narratore corale.
Verga utilizza un linguaggio popolare, un lessico colloquiale e molti proverbi, ovvero riproduce il modo di parlare dei personaggi che presenta; egli è convinto che la forma sia un fattore indispen- sabile perché l’osservazione sia esatta e raggiunga la verità. In altre parole, la forma deve essere inerente al soggetto.
Infine, l’autore impiega la tecnica dello straniamento, cioè valori positivi, quindi normali, sono pre- sentati come strani; la negazione dei valori occorre a Verga per dimostrare la loro impraticabilità in un mondo dominato dalla “legge del più forte” e il narratore corale diviene perciò inattendibile.
Il Ciclo dei Vinti, inizialmente il progetto comprendeva cinque romanzi (I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa de Leyra, L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso) ma ne sono stati effetti- vamente scritti e pubblicati solo due: I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo.

UN PROGRESSO PROVOCATORIO
Il Dadaismo è un movimento culturale nato a Zurigo nel 1916.
È proprio nella neutrale Svizzera che un gruppo di intellettuali europei si rifugia per sfuggire alla fiamme del primo conflitto mondiale. Il 5 febbraio del 1916 alcuni eccentrici artisti di varia prove- nienza aprono nella città svizzera il Carbet Voltaire di cui, già il nome, allude scherzosamente all’esaltazione della ragione contro l’irrazionalità della guerra.
Il promotore dell’iniziativa è il poeta e letterato tedesco Hugo Ball a cui si uniscono altri esuli come il saggista rumeno Tristan Tzara e il pittore e scultore alsaziano Hans Arp. Il gruppo è contraddistin-
to dalla voglia di ridicolizzare qualsiasi valore del passato operando un “grande lavoro distruttivo, negativo [...]. Spaz- zare, ripulire”; essi rifiutano la società borghese e l’impegno politico, sottolineano il senso di lontananza tra l’artista e il mondo circostante con l’obiettivo di smascherare gli splen- dori delle conquiste scientifiche e tecniche. Vogliono denun- ciare quindi un falso progresso sociale alla luce delle atrocità che gli uomini stavano compiendo in quegli anni.
Ha origine così il movimento provocatorio Dada. Il nome stesso è di interpretazione incerta, probabilmente non vi è significato del termine; Arp ironicamente afferma: “dichiaro che Tristan Tzara trovò la parola (dada) l’otto febbraio 1916 alle sei di sera. Ero presente con i miei dodici figli quando Tzara pronunciò per la prima volta questa parola, che destò in noi un legittimo entusiasmo. Ciò accadeva al Café de la Terrasse di Zurigo, mentre portavo
una brioche alla narice sinistra.”
L’ambiziosa scommessa di Dada è di riscattare l’umanità dalla follia che l’ha portata alla guerra e ciò sarebbe possibile azzerando tutte le ideologie e i valori.
Per certi aspetti, tale movimento culturale non si discosta molto dal Futurismo; li accomunano le medesime manifestazioni inusuali, provocatorie con intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi per fare un’arte nuova e originale. Ma la notevole differenza è da ricercarsi nella posizione che as- sumono nei confronti della guerra: i futuristi sono interventisti, quindi favorevoli alla guerra mentre i dadaisti ne sono profondamente contrari.
Nel 1918 Tzara scrive il Manifesto Dada nel quale delinea le direttrici ideologiche ed estetiche di riferimento ed esplicita i nuovi meccanismi per fare arte come la poetica del caso, ovvero un modo di far poesia dettato dalla casualità. Emblematico è il passo dall’opera in cui Tzara spiega come fare un poema:
“Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema.
Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano.
Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco.
Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà.
Ed eccovi "uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompre- sa dall’uomo della strada”.
Dada diviene, quindi, un vero e proprio modo di essere e di sentire per dire no al passato, allo Stato e ai suoi interessi economici attraverso il rifugio nella follia innocua del nonsenso e dell’ironia.
Il movimento si diffonde poi a livello internazionale e si radica maggiormente a Berlino, Colonia, Parigi e New York dove emergono nuove figure artistiche tra cui troviamo il francese Marcel Duchamp e l’americano Man Ray.
Sebbene si sia ampiamente diffuso, il movimento ha vita breve a causa delle crescenti tensioni e disaccordi ideologici fra gli stessi animatori del gruppo. Nel 1922-1923 ha fine così il Dadaismo che esercita comunque una grande influenza sulle arte figurative e sulla letteratura successive; molti componenti del movimenti passano poi all’esperienza surrealista.
MARCEL DUCHAMP - LA GIOCONDA COI BAFFI
L’artista francese Marcel Duchamp nasce a Blainville il 28 luglio 1887. Il suo percorso artistico inizia nell’ambiente cubista e poi in quello futurista dei quali rimane affascinato per il loro spirito innovativo e rivoluzionario. Si discosta ben presto da tali avanguardie e nel 1915 si reca a NewYork dove possiede già molta notorietà per una sua opera, che aveva suscitato molto scalpore, esposta al museo Armony Show.
Sebbene non si sia mai dichiarato un membro del gruppo Dada, Duchamp, un personaggio complesso e irrequieto, contribuisce allo sviluppo del Dadaismo nella capitale parigina e in quella statunitense, città in cui lavora.
Nel 1913 aveva, infatti, iniziato a realizzare i primi “ready-made”, che letteralmente significa prefrabbricato, ovvero impiega in campo artistico oggetti di vita quotidiana. Tale pratica viene adottata da Duchamp con l’intento provocatorio rispetto ai
concetti tradizionali di arte. L’opera artistica, quindi, può essere qualsiasi cosa; inoltre Duchamp utilizzando i ready-made evidenzia il
fatto che l’arte non debba essere considerata separata dal-
la vita reale e propone una nuova concezione di artista,
cioè colui che sa dare nuovi significati alle cose.
Tra i ready-made più famosi ricordiamo Ruota di bicicletta, realizzata nel
1913, e Fontana del 1916.
L’artista trascorre alcuni mesi a Buenos Aires dove si dedica al gioco degli scacchi; nell’estate del 1919 torna in Francia e si avvicina al gruppo Dada parigino. Nello stesso anno realizza il ready-made L.H.O.O.Q., meglio conosciuto come La Gioconda con i baffi. L’opera diviene
l’emblema del pensiero di Duchamp secondo cui ciò che determina il valore estetico non è più un procedimento tecnico, un lavoro, ma la scelta dell'artista, quindi un atto mentale, una diversa attitudine nei confronti della realtà. L’artista francese prende una riproduzione della Monna Lisa di Leonardo e, con un intervento minimo, la rettifica facendole spuntare baffi e pizzetto. Con tale gesto l’auto- re non intende sfregiare un capolavoro, bensì semplice- mente contestare la venerazione che gli è attribuita passi- vamente dall’opinione comune.
Il titolo stesso L.H.O.O.Q. è provocatorio; esso infatti è l’acronimo della frase francese “Elle a chaud au cul”, ovvero “ella ha caldo al sedere”, ed è apparentemente slegato dal contesto ma rimane costante l’intento di demistificazione. Dopo la realizzazione di tale opera, l’artista sembra abbandonare l’arte per dedi- carsi al gioco degli scacchi anche se in realtà non cessa mai i suoi esperimenti artistici; a metà degli anni ’30 collabora con i surrealisti e partecipa alle loro mostre.
Nel 1942 si stabilisce a New York e diventa cittadino statunitense; dal 1946 per i successivi ven- t’anni si dedica segretamente alla composizione della sua ultima opera: Etant donnes.
Muore a Neuilly-sur-Seine il 2 ottobre 1968.

UN PROGRESSO NELLA TRADIZIONE
Correva l’anno 1933 quando Alfonso Bialetti, proprietario di un’officina per semilavorati in allu- minio, ebbe un’intuizione che portò all’invenzione di uno strumento oggi presente in ogni casa: la Moka.
La grande invenzione deriva dall’osservazione casuale della moglie
mentre faceva il bucato. A quei tempi, per lavare i panni, si usava la “lisciveuse”, una grossa pentola munita di un tubo cavo con la parte superiore forata; l’acqua, messa nel recipiente insieme alla biancheria ed al sapone, bollendo saliva per il tubo e ridiscendeva sul bucato sfruttando al meglio la lisciva, il detersivo di allora.
Fu proprio adattando il principio della lisciveuse all’estrazione del caffè con l’aiuto della sua competenza nella forgiatura dell’allu- minio che Alfonso Bialetti creò il prototipo della Moka Express, dotato della forma ottagonale e pronto a portare a un cambiamento radicale nelle abitudini di consumo di caffè tra le mura domestiche. Alfonso Bialetti amava definirsi un artista che lavorava per la glo- ria, non per il guadagno; per questo all’inizio non ebbe molto suc- cesso, fino al secondo dopoguerra la Moka rimase un prodotto arti- gianale, di cui si fabbricavano pochi pezzi e la distribuzione ri- maneva limitata all’ambito locale.
Sarà il figlio Renato Bialetti, che mosso da grande spirito im- prenditoriale, nel 1946 investì sulla produzione massiccia di caffetterie, passando da una logica artigianale dell’azienda a una produzione industriale. Iniziò così la diffusione commer- ciale del prodotto e del marchio supportata dalla pubblicità dell’Omino coi baffi, icona nata dalla matita del modenese Paul Campani, che divenne un vero tormentone in quegli anni. L’artista Campani ideò una figura che rappresentasse Renato Bialetti nella sua fisionomia: il nasone ovale, i baffi neri, il collo e le lunghe braccia; le vignette cominciarono ad essere trasmesse al Carosello ed ad avere molto successo tanto che la frase finale “Eh sì sì sì... sembra facile (fare un buon caffè)!” divenne lo slogan mediatico dell’azienda, ancora oggi applicato sui prodotti del brand Bialetti.
Il successo fu inarrestabile: mentre la Moka Express sbarcò sui mercati esteri, l’azienda iniziò a produrre elettrodomestici, utensili e accessori per la casa. Nel 2002 nasce la Bialetti Industrie S.p.A. in cui sono comprese più aziende leader nella produzione di caffettiere in acciaio e di accessori per la casa; è il 27 luglio 2007 quando la Bialetti Industrie diventa una società quotata sulla Borsa Ital- iana.
Oggi, a più di ottant’anni dall’invenzione della Moka, la Bialetti Industrie è una società in continua innovazione che però preserva la tradizione, onorando sempre i veri protagonisti della loro storia: l’Omino coi baffi e la Moka Express.

UN PROGRESSO COMUNISTA
Karl Marx nasce a Treviri (Prussia) nel 1818 da una famiglia di origine ebraica convertita al protestantesimo; riceve un’educazione di impronta libertaria e nel 1835 si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Bonn che frequenta solo per un anno.
Nel 1836, a Berlino, si appassiona alla filosofia ed entra
in contatto con i giovani hegeliani di sinistra; nell’estate di quell’anno si fidanza con Jenny von Westphalen, un aristocratica con la quale condivide una vita di stenti e peregrinazioni dovuti alla sua lotta politica.
Nel 1841 si laurea in filosofia e già nella sua tesi è evi- dente un orientamento materialistico e naturalistico, sebbene la sua formazione filosofica sia stata impronta- ta all’idealismo.
Negli anni successivi inizia ad interessarsi ai problemi economici e politici e, in conflitto con il governo reazionario di Colonia, si trasferisce a Parigi dove instaura una duratura amicizia con Friedrich Engels.
In questi anni, Marx scrive molti saggi di economia e di filosofia in collaborazione di Engels; inoltre, prende le distanze dall’idealismo Hegeliano, da Feuerbach e dalle posizioni dei socialisti francesi.
È il 1845, quando espulso dalla Francia su richiesta del governo prussiano, si trasferisce a Bruxelles dove partecipa alle attività della “Lega dei comunisti” e su commissione della quale elabora con Engels il “Manifesto del partito comunista” (1847) in cui esplicita l’obiettivo di abbattere il do- minio della borghesia per affermare una società senza classi.
Nel 1849, Marx si stabilisce a Londra dove rimane fino alla morte; qui si dedica allo studio dell’economia politica, ovvero la dottrina che studia il processo di sviluppo economico della soci- età, e compone la sua opera principale: Il capitale.
Karl Marx muore a 65 anni; è il 1883.
IL MATERIALISMO STORICO
Dopo essersi allontanato dalle posizioni di Feuerbach e Hegel verso i quali si sente comunque debitore, Marx ritiene che l’uomo sia un essere che diviene ciò che è in base alle condizioni materiali in cui si trova a vivere; egli analizza quindi ciò che sta dietro lo sviluppo della società umana e delinea il materialismo storico.
La prospettiva metodologica propone una nuova concezione della storia secondo la quale quest’ul- tima è da intendere come un processo dialettico a carattere materiale che si evolve sotto la spinta di dinamiche socio-economiche e si fonda sulla dialettica bisogno-soddisfacimento (“La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni”). In altre parole “il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo della vita sociale, politica e spirituale. Non è già la coscienza dell'uomo a determinare il suo essere, ma, al contrario, il suo essere sociale a de- terminare la sua coscienza” (Per la critica dell’economia politica, 1859).
La cosiddetta “base materiale”, che costituisce il motore della storia, coincide quindi con i “modi di produzione” che caratterizzano i vari periodi storici.
Le forze produttive e i rapporti di produzione costituiscono il modo di produzione di una determina- ta società; l’insieme di tali elementi forma la struttura, ovvero le fondamenta economiche su cui tale società poggia. Per sovrastruttura si intende, invece, l’insieme delle varie produzioni culturali che derivano dalla struttura e ne sono espressione diretta o indiretta.
Ogni epoca storica è caratterizzata da determinate forze produttive alle quali corrispondono a loro volta precisi rapporti di produzione adeguati a favorire lo sviluppo e il funzionamento di tale pro- duzione. Può capitare, però, che la forze produttive progrediscano con maggiore rapidità rispetto ai complementari rapporti di produzione; così avviene che le forze di produzione, espressione della classe in ascesa, entrino in contrasto con i rapporti di produzione, espressione della classe domi- nante, e si crei un conflitto che Marx chiama “lotta di classe”.
La rivoluzione, ovvero un capovolgimento in chiave materialistica delle forze in campo nella società, rappresenta l’unica via per le forze produttive di realizzarsi e diventare la nuova classe dominante spodestando la precedente.
Nello specifico, nella società capitalistica il conflitto di classe è presente tra proletariato, che rappresenta la classe in ascesa, e capitalisti, ovvero la classe dominante. Tale disputa si amplifica nel momento in cui si è immersi in una società regolata dalla logica del profitto che porta all’intro- duzione di macchine e strumenti per incrementare al massimo la produttività delle industrie.
Alla meccanizzazione della produzione segue un peggioramento della condizione del lavoratore che diventa un mero ingranaggio. Il lavoro, che dovrebbe rappresentare la libertà umana, diventa alienante e mortificante.
L'ALIENAZIONE
Un grande dibattito su cui Marx pone la sua attenzione verte intorno al concetto di alienazione; a dif- ferenza di Feuerbach secondo cui per alienazione si intendeva un fenomeno spirituale per cui gli uomini tendono a creare Dio,proiettando in un essere trascendente le loro qualità fondamentali, Marx va oltre la chiave di lettura religiosa e si sofferma sull’alienazione dell’operaio. Delinea così quattro aspetti fondamentali di tale forma di “disumanizzazione” che caratterizza i rapporti lavorativi nella società capitalistica.
1. L’operaio è alienato nei confronti del prodotto della sua attività, infatti egli produce prodotti che
non gli appartengono;
2. l’operaio è alienato rispetto alla sua attività perché la sua stessa capacità produttiva è proprietà
del capitalista che ne dispone come vuole in base a propri interessi egoistici;
3. l’operaio è alienato riguardo alla sua stessa essenza; l’uomo dovrebbe realizzare la propria es- senza nel lavoro ma nella società capitalistica ciò non accade poiché il lavoro coincide con una
modalità di sfruttamento in cui l’operaio è ridotto a schiavo di un altro uomo.
4. L’operaio è alienato nei confronti dei suoi simili, ovvero è escluso da ogni forma di vita sociale
ma si relaziona esclusivamente con il capitalista a cui “appartiene”.
Nei Manoscritti filosofici-economici, Karl Marx propone un superamento dell’alienazione dell’operaio attraverso una modifica della base materiale della società, ovvero un rovesciamento dialettico da concretizzarsi nell’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Per far sì che tutto ciò si realizzi occorre promuovere una “rivoluzione sociale” in cui la classe dei lavoratori distrugga lo Stato borghese e realizzi la società comunista.
Il passaggio a una società comunista deve essere graduale; deve esserci infatti un periodo di tran- sizione in cui il proletariato (classe dominante) eserciti una dittatura funzionale alla realizzazione del progetto comunista.
Una dittatura del proletariato con l’obiettivo di decostruire tutte quelle istituzioni, burocrazie, politiche e ideologie alla base della società capitalistica e abolire la proprietà privata tramite la col- lettivizzazione dei mezzi di produzione.
Una volta venute meno la disuguaglianze reali tra gli uomini si può parlare di società comunista, ovvero una società in cui lo stato non è più strumento di dominio di una classe sull’altra.

UN PROGRESSO SOSTENIBILE

Nel ‘900 aumenta notevolmente il gap tra il progresso della conoscenza e il progresso reale dell’umanità; le prove di tale discrepanza sono da ricercarsi negli orrori delle Guerre Mondiali e in confutazioni teoriche. Nascono, ad esempio, le filosofie esistenzialiste che insistono sull’insen- satezza, il vuoto, l’assurdo che caratterizzano la condizione dell’uomo moderno e, quindi, la sua esistenza.
Inoltre Karl Popper critica il pensiero di verificazione del neopositivismo introducendo il principio di falsificazione, ovvero afferma che la forza della scienza sta nella sua debolezza poiché una teoria scientifica è vera, secondo Popper, quando è falsificabile, non quando è verificabile.
I dibattiti epistemologici sorti nel XIX secolo hanno contribuito a porre in crisi l’idea di progresso ma con la fine della Guerra Fredda (caduta del muro di Berlino, 1989), l’evoluzione dei trasporti e delle comunicazioni, le innovazioni tecnologiche e organizzative è nato un nuovo fenomeno: la globalizzazione. Si avvia così una nuova era in cui progresso e innovazione assumono un ruolo centrale e una concezione differente dal passato.
Per globalizzazione si intende un processo attraverso il quale tutti gli individui presenti sulla terra ven- gono integrati in una grande, unica, rete globale di relazioni economiche; la globalizzazione, però, non è soltanto un fenomeno economico bensì è anche strettamente collegato ad aspetti etnici per i grandi flussi di persone, tecnologici per i flussi di macchi- nari o di fabbriche, finanziari per i flussi di denaro dei mercati monetari e della borsa, culturali per le immagini e le informazioni distribuiti dai mass me- dia ed ideologici.
È presente inoltre una globalizzazione politica, infatti si è creato il cosiddetto spazio transnazionale, ovvero uno spazio in cui vengono affrontate questioni di interesse collettivo, e il fenomeno della democrazia esportata che si realizza nella tendenza endogena ed esogena a portare il mito della democrazia dei paesi occidentali negli altri stati.
Per quanto riguarda l’aspetto culturale della globalizzazione, ci si riferisce alla condivisione di conoscenze, consuetudini, norme, modelli di comportamenti, usi e costumi; l’estrema conseguenza di tale condivisione trova espressione nel testo “Il mondo alla McDonald’s” (1940) in cui George Ritzer fornisce una lettura critica sulla standardizzazione e sulla ripetitività dalla globalizzazione. Un’altra opera emblematica è “Glocalizzazione” (1960), scritta da Roland Robertson, nella quale vengono analizzate l’ibridazione tra locale e globale, la mutata percezione del tempo e dello spazio e la formulazione di nuovi paradigmi culturali.
Un ampio dibattito si è sviluppato intorno al processo di globalizzazione, infatti vi sono molti sostenitori quanti oppositori. Altri assumono una posizione neutrale concependo la globalizzazione come un fenomeno fuori dal nostro controllo; il sociologo londinese Anthony Diggens afferma che "nel bene e nel male, siamo catapultati in un ordine globale che nessuno comprende del tutto, ma che sta estendendo i suoi effetti su tutti noi”.
Si possono, infatti, delineare effetti positivi come la mondializzazione culturale, cioè la maggiore possibilità di accesso alla cultura, la sprovincializzazione e il controllo dei prezzi in seguito alla competizione globale; vi sono anche aspetti negativi come la concentrazione del potere in mano a pochi con conseguente aumento degli squilibri socio-economici, la tendenza all’omologazione cul- turale, la perdita di un’identità individuale.
Tra gli stessi oppositori c’è un fronte amplissimo di posizioni, dalle più ingenue e superficiali a quelle che sottilmente cercano di analizzare questo processo valutandolo in modo critico e cercando di fornire delle alternative. Il movimento No Global o New Global, ad esem- pio, nasce a Seattle nel 1999, esso condivide della globalizzazione le tecnolo- gie e le infrastrutture ma contesta le strutture economiche e politiche pro- muovendo come alternativa un’economia equo e solidale, ovvero un consumo
critico e sostenibile.
Completamente contrario alla globalizzazione è l’eco-
nomista Serge Latouche; egli e altri studiosi formulano la teoria della Decrescita Felice secondo la quale ci troviamo in una situazione di crisi, in un mondo in cui il 20% degli abi- tanti consuma l’80% delle risorse; se tutti gli abitanti dovessero consumare come quel 20% allora occorrerebbero 6 mondi per rispondere alle richieste di tutti.
La continua crescita, insita nel processo di globalizzazione, è insostenibile da un punto di vista economico, energetico, ambientale, sociale e culturale. A sostegno di Latouche, lo scrittore Ivan Illich afferma che la cresci- ta non è auspicabile e che spesso ciò che riteniamo indispensabile non solo non lo è, ma talvolta è addirittura dannoso; nel caso della crescita infinita i danni si manifesterebbero in enormi disug- uaglianze ed ingiustizie, in un benessere ampiamente illusorio e nell’antisocietà, ovvero una società finanziaria malata della sua stessa ricchezza. (esempio)
La teoria della Decrescita Felice propone un allontanamento dalla fiducia nella crescita, nel pro- gresso e nello sviluppo continui e si pone invece l’obiettivo di una società in cui si vivrà meglio la- vorando e consumando meno. Per far sì che ciò avvenga bisogna agire su tre livelli: tecnologie, po- litica e stili di vita, ovvero consumare e sprecare meno, ritornare alla logica del dono, porre atten- zione ai bisogni umani e alla cura di sé, ridimensionare il ruolo del mercato valorizzando i beni al posto delle merci. Non è proposto un ritorno al Medioevo, al contrario la teoria della Decrescita Felice si concretizza nel riprendere consapevolezza del proprio tempo e delle proprie azioni; il sag- gista Maurizio Pallante scrive: “Lavorare di meno per dedicare più tempo alle esigenze spirituali, alle relazioni umane, familiari, sociali, erotiche, culturali, religiose. A guardare le nuvole... A dedi- carsi allo studio disinteressato, per il solo gusto di sapere. A dipingere, ascoltare musica e suonare, contemplare, leggere e scrivere poesie, pregare. A fare esperienza di vita insieme ai propri figli invece di compensare con l’acquisto di cose i sensi di colpa che si provano quando si affidano tutto il giorno a estranei perché si passa tutto il giorno a lavorare per guadagnare i soldi necessari per comprare le cose che acquietano i sensi di colpa.”
La globalizzazione, quindi, può essere vista come un’opportunità di progresso? Per far si che si pos- so intendere la globalizzazione come un esempio di progresso è innanzitutto implicito che i benefici debbano essere estesi a tutti gli individui coinvolti e non un privilegio per pochi; affinché ciò avvenga il 1° gennaio del 1966 è nato UNDP (United
Nations Development Programme), ossia un’organizzazione internazionale che si occupa di garantire i diritti umani e l’uguaglianza nello sviluppo. Infatti “lo sviluppo non può andare contro la felicità: dev’essere a favore della felicità umana, dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, della cura dei figli, dell’avere amici, del non privarsi dell’indis- pensabile”, così parlò l’ex presidente dell’Uruguay, Jose Mujica, durante la conferenza mondiale “Rio+20” sullo sviluppo sostenibile nel 2012.
Nei cinque anni del suo mandato presidenziale (2010-2015) ha saputo portare il Paese a una svolta sociale, politica ed economica; oggi l’Uruguay è entrato a far parte dei “Green Energy Leader” ed il 95% del suo fabbisogno di elettricità lo ricava dalle energie rinnovabili.


“Vivere meglio non significa avere tanto, ma sere più felici”
Jose Mujica
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