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Convegno Nazionale “L’insegnamento della matematica nel quadro delle riforme” 7
Santa Cesarea (LE) 28 set. 2 ott. 2003
Matematica e società Domenico LENZI
Orbene, il fatto che il postulato in discussione non sia un teorema rispetto al sistema assiomatico
costituito dagli altri assiomi euclidei assicura semplicemente che è coerente il sistema costituito da
quelli e dalla negazione del postulato delle parallele. Ma ciò è soltanto un fatto di carattere formale,
legato ad aspetti elementari del calcolo proposizionale, che non ha niente a che vedere col nostro
modo di percepire il mondo che ci circonda. E in proposito ci sembra che valga la pena riportare le
parole tratte da [B], nota (22): […] parafrasando Hegel, il divenire della matematica può essere
neces-
interpretato come un passaggio dall’unico reale (razionale) ad ogni possibile razionale (non
sariamente reale); […].
A ulteriore conforto del nostro punto di vista ci sembra significativo quanto il filosofo tedesco Georg
Simmel ebbe a dire nel 1904 nei riguardi degli assiomi di Euclide (si veda [B] alla nota (11) e [Mt] a
p. 47): […] essi sono incondizionatamente necessari per la nostra esperienza, perché essi soli la co-
stituiscono. […] l’apriorità Kantiana significa solo universalità e necessità per il mondo della nostra
esperienza, una validità non logica, assoluta, ma ristretta alla cerchia del mondo sensibile. Le geo-
metrie antieuclidee verrebbero a confutare l’apriorità dei nostri assiomi solo quando qualcuno fosse
riuscito a raccogliere le sue esperienze in uno spazio pseudosferico, o a riunire le sue sensazioni in
una forma di spazio nel quale non valesse l’assioma delle parallele.
E a conferma delle parole del Simmel ci sembra doveroso aggiungere che, pur se la teoria
einsteiniana della relatività in seguito ci ha prospettato la possibilità di una visione del mondo in cui
siamo immersi diversa da quella galileiana-euclidea, ciò non di meno quella non può che essere
una visione “adulta”. Infatti essa non può prescindere dal passaggio onto(filo)genetico attraverso la
fondamentale tappa galileiana-euclidea. Diversamente sarebbe come se costringessimo un bambi-
no di pochi mesi ad assumere la postura eretta, sottraendolo alle pratiche dello strisciare prima e
del gattonare poi, che caratterizzano due tappe fondamentali per la sua crescita, anche al fine di ac-
quisire non solo quelle funzioni encefaliche che governano la posizione eretta, ma anche quelle che
favoriscono una corretta lettura e una corretta scrittura, comprese quelle relative ai numeri (si veda
[L]).
Dalle sue crisi eclatanti, alcune fondate (come quella pitagorica), altre meno (come quella, a nostro
avviso, delle geometrie non euclidee) la matematica ha saputo sempre riprendersi. Si pensi anche
alla comparsa dell’Antinomia di Russell, o ai comprensibili dubbi di Zermelo – che portarono all’e-
nunciazione del suo famoso Assioma, noto anche come Assioma della scelta – o ai teoremi limitativi
di Gödel. Però per questa scienza le crisi più pericolose sono state quelle tacite, striscianti, in cui
essa ha perso forza e vigore per non essersi saputa raccordare in modo adeguato con la società ci-
vile.
Abbiamo parlato della perdita per tanti secoli dell’uso dello zero. Però, purtroppo, durante la
seconda metà del secolo scorso si è assistito a un’altra crisi legata alla nascita e alla repentina mor-
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te – in termini di didattica elementare, e quindi con risvolti sociali di peso inestimabile – della teoria
degli insiemi.
A proposito della divulgazione di questa teoria – imposta alla scuola pre-universitaria in maniera
avventata, senza che ci fosse (a parte alcune significative eccezioni) un’adeguata preparazione
degli insegnanti che avrebbero dovuto diffonderla, nonostante l’entusiasmo e la buona volontà della
maggior parte di essi – giova ricordare quanto Giovanni Melzi ebbe a scrivere (Periodico di mate-
matiche, n.1-2, 1978): [...] la teoria degli insiemi, nata con tanto travaglio dalla matematica dell'inizio
del secolo, è diventata nella scuola un inqualificabile sgorbio intriso di simbolismo fasullo che passa
sotto il nome fumogeno di insiemistica [...].
E sembra che anche in questo caso si sia verificata – rubiamo le parole che Umberto Bartocci usa
in un contesto più generale (si veda [B] p. 1) – una per lo più inconsapevole adesione ad una mo-
da culturale.
Ebbene, contro ogni moda culturale che sia deleteria il Bartocci invita a battersi. E noi ci sentiamo
in sintonia con lui. Perciò, anche se la battaglia assomiglia – come egli dice – alla lotta di Davide
contro Golia, questa invece va fatta, allo scopo di restituire alla matematica la sua collocazione più
appropriata, e più vera, nell’ambito generale della teoria della conoscenza.
E a proposito di mode culturali ci fa rabbia dover ricordare l’imperversare di quella relativa alle
strutture formali, che ha imposto di considerare la geometria come un capitolo (incomprensibile
per la maggior parte degli studenti) dell’algebra, tradendone le origini e il nome.
Per quel che riguarda le strutture formali crediamo che sia opportuno riflettere sulle parole con cui
il Bartocci si avvia alla conclusione di [B]: […] sotto il profilo di una didattica a misura d’uomo, il
di un corretto itinerario matematico che
concetto di struttura formale è piuttosto il punto di arrivo
non il punto di partenza.
Affermazione che ci sentiamo di condividere; pur nella consapevolezza che alcune semplici
strutture formali, somministrate in piccole dosi e al momento opportuno (certo, non nella forma
massiccia a cui spesso nell’università si è fatto ricorso) forse potrebbero svolgere una benefica
azione illuminante e catalizzatrice nell’ambito di quel corretto itinerario matematico a cui Bartocci
si riferisce.
La crisi della teoria degli insiemi è andata di pari passo – anche se a un livello diverso – con quella
del bourbakismo, che aveva saputo offrirci un linguaggio essenziale per una più corretta descri-
zione della matematica, per un’acquisizione più precisa del suo significato e per una presa di co-
scienza più profonda delle sue potenzialità e dei suoi limiti. Bourbakismo, però, che fu anche ca-
usa inconsapevole di quel simbolismo fasullo di cui parlava Giovanni Melzi, che andò a inquinare
tanta parte della matematica, nascondendone naturalezza e semplicità. Il che spesso ha portato,
tra l'altro, a un uso errato dei quantificatori, per il semplice fatto che non ne erano stati perfet-
tamente compresi il significato e l’origine. Cosicché, ad esempio, locuzioni quali (in termini
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∃
parzialmente discorsivi) “∀ (per ogni) epsilon (esiste) delta tale che …” spesso sono diventate “∃
∀
delta tale che epsilon …”; alterando completamente la nozione di limite in un punto, che pure
presenta alcuni aspetti che la possono fare apparire abbastanza naturale.
La stessa cosa ci è capitato di notarla nell’ovvia proprietà secondo cui per ogni scelta di due
e p esiste (proprio per il fatto che quelli sono dispari) un numero naturale n
numeri primi dispari p 1 2
+ p . Ebbene, con un improvvido e ingiustificato scambio di quantificatori, quel-
tale che 2n = p
1 2
l’affermazione a volte viene direttamente trasformata – quasi per incanto, ma in modo del tutto
arbitrario – nella proprietà secondo cui per ogni numero pari 2n esistono due numeri primi dispari
p e p tali che 2n = p + p (che esprime la famosa congettura di Goldbach, ancora indimostrata).
1 2 1 2
Vogliamo sottolineare che nel linguaggio comune quel tipo di inversione dei quantificatori non è
infrequente; tuttavia in questo caso il contesto di riferimento scongiura ogni possibilità di errore
interpretativo, per il fatto che spesso quella quantificazione è inserita in frasi che hanno un
significato univoco, nonostante la licenza linguistica. Ad esempio, si pensi alla frase c’è una madre
per ogni uomo. E’ chiaro che presa alla lettera essa dice che c’è una donna che è la madre di ogni
1
. In realtà l’affermazione andrebbe correttamente
essere umano, il che è chiaramente falso
enunciata dicendo che per ogni uomo c’è una madre. Ma tutti capiscono ugualmente il vero signi-
ficato di quella frase.
Certo, a proposito del linguaggio bourbakista è da ricordare quanto Francesco Speranza – una
delle più importanti figure della seconda metà del secolo scorso per l’epistemologia e la didattica
della matematica – ebbe a dire, ma forse con un’eccessiva dose di ottimismo: […] esso è diven-
tato completamente trasparente per i matematici di oggi, così come l’acqua per un pesce, che alla
fine non si accorge più di essa.
Purtroppo, però, si avverte un certo disappunto nel pensare che a volte quel linguaggio è stato usa-
to in modo talmente improprio da attenuare – soprattutto in chiave didattica – i risultati positivi che ci
aveva regalato; tra cui la possibilità di metter un freno a certi atteggiamenti della comunicazione u-
mana, spesso caratterizzata dal “così è se vi pare”, dal “qui lo dico e qui lo nego”.
In fondo il voler dare un significato inequivocabile ai segni e alle parole – pur con tutte le varianti, le
eccezioni e le licenze che abbiano un senso e una giustificazione accettabili – dovrebbe rappresen-
tare un atteggiamento tipico di ogni essere umano. E lo stesso S. Tommaso d’Aquino, nella sua
Summa Theologica, affermava che l’“explicatio terminorum” precede ogni “quaestio”. Ebbene, se
quell’esigenza fosse maggiormente sentita da tutti – magari grazie a un’opportuna educazione
matematica – forse i rapporti tra gli uomini diverrebbero meno problematici.
E allora l’homo sapiens sapiens potrebbe avviarsi verso lo stadio evolutivo di sua pertinenza, quello
dell’homo mathematicus, anche se c’è ben poco da essere ottimisti. Forse in realtà, come paventa-
va qualche tempo fa Giovanni Sartori sulle pagine del Corriere della sera, lo stadio verso cui ci
stiamo dirigendo è quello dell’homo stupidus stupidus.
C