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Lo scontro tra Antigone e Creonte: il valore della legge

“È d’altronde impossibile conoscere a fondo l’animo, i pensieri, i principi di ogni uomo, prima che appaia sperimentato nel governo e nelle leggi” Vv. 175- 177 da L’Antigone di Sofocle

È l’ alba di un nuovo giorno che sorge sulla città, dopo una notte di sangue che ha visto la morte dei due fratelli, Eteocle e Polinice, che si sono uccisi a vicenda. Creonte, in qualità di nuovo sovrano, è venuto a bandire il suo programma di governo: suo primo provvedimento è la condanna del cadavere di Polinice, uomo sbandito che, per contrastare il fratello Eteocle, ha raccolto un esercito con il sostegno del quale è disposto anche a devastare la città.

Il discorso di Creonte potrebbe essere definito l’esposizione di un programma politico dal quale emergono con chiarezza i criteri del suo prossimo governo.

Dalle parole sopra citate, la contrapposizione tra la posizione assunta dal sovrano e quella che assumerà Antigone è chiara: Creonte non è disposto a derogare alle leggi che la città impone, in nome d’un rapporto d’affinità (consanguineità o philìa che sia). La sua figura è assai diversa da quella dell’eroe plutarcheo che per esemplare fedeltà alle leggi della patria non esita a condannare a morte il proprio figlio. E non perché in Creonte non sia presente alcuna riserva mentale o s’indovini in lui l’incapacità di tener fede al proposito enunciato: si avverte come egli non è e non può essere il vero difensore della polis. Creonte è l’uomo che si erge solitario nella potenza del proprio intelletto, è emblema della pretesa superiorità umana sull’insondabile disegno divino. Anche il più alto ingegno umano può rivolgersi al male e rovinare la propria patria! Sorge emblematica la domanda: quali leggi, quale giustizia deve onorare chi onora la città? Leggi e giustizia create dall’ingegno umano o quelle fissate da sempre per ordine divino?
La tragedia sofoclea si costruisce sull’opposizione tra legge divina e legge dello Stato: la prima è sostenuta da Antigone e la seconda da Creonte.
In Antigone, sorella di Polinice, risuona quella sublime grandezza che nasce dal voto di morte di chi venera sopra ogni altra cosa la fede dell’antica ed eterna moralità, la grandezza di chi si riconosce inserito in un ordine divino che supera le umane trame, la disperata grandezza che accetta di annullarsi nella coscienza della propria inanità.
Qualità che è possibile apprezzare nelle parole che Antigone rivolge a Creonte.
“Ma per me non fu Zeus a proclamare quel divieto, né Dike, che dimora con gli dèi inferi, tali leggi fissò per gli uomini. E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi.” vv. 450-455, Antigone

Da queste parole notiamo come Sofocle abbia accostato Zeus e Dike: emerge qui l’ideale del mondo arcaico secondo cui la legge degli uomini non è distinta dalla legge divina, piuttosto è legata ad essa.
Contrariamente ad Antigone, Creonte è simbolo dell’uomo nuovo, vitale, fiero del proprio ingegno e della potenza a lui derivata dall’abilità politica, l’uomo concreto sprezzante delle tradizioni e della religione.
Creonte rivolgendosi ad Antigone dice :
“Costei sapeva bene allora di commettere una colpa, violando le leggi stabilite; e dopo averlo fatto, la seconda colpa è di vantarsi e deridere tali leggi. Davvero io non sono un uomo, ma l’uomo è costei, se quest’audacia le rimarrà impunita. Ma sia pure figlia di mia sorella, o a me ancora più consanguinea fra quanti della famiglia hanno Zeus protettore, essa e sua sorella non sfuggiranno a miserrima morte, poiché anche quella accuso del pari di aver deciso tale sepoltura.” vv.480-490, Antigone

Lo scontro tra Antigone e Creonte si scatena violento: la fanciulla, fiera e sdegnosa, si appella alle autorità delle leggi divine che hanno determinato il suo agire: ella non credeva certo che il bando di Creonte avesse tanto valore da consentire di violare in suo nome le norme morali non scritte, ma eterne nel cuore dell’uomo. E se alla morte non è possibile sfuggire, bello è incontrarla prima del tempo per chi, come lei, tante sventure ha sopportato: e davanti agli dèi essa potrà esibire il vanto d’aver onorato le leggi della pietà. La risposta di Creonte non esibisce di rimando le razionali motivazioni alla propria condotta; in lui ora tutto è soltanto violenza e ottusità: e il suo animo basso si rivela nell’intrigata affermazione di banali luoghi comuni contro la fermezza della fanciulla, nella crudeltà immotivata con cui inferisce nei confronti della stessa Ismene, nel tradizionale rifiuto di sottostare lui uomo, alle ragioni di una donna.
Se volessimo leggere la contrapposizione di queste due leggi (famiglia-Stato), secondo un’ ottica Aristotelica, parleremmo di “nomos idios” e “nomos koinos”: la prima è la legge fissata da ogni popolo per se stesso, ha un valore limitato ed è stabilita per un preciso territorio; la seconda è la legge comune o universale, la legge uguale per tutti indipendentemente dal popolo cui si appartiene, quella legge morale che lo stesso Creonte travalica.

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