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Teocrito non creò un nuovo genere, anche se nelle Talisie si presenta come ma recuperò
spunti e motivi presenti nella letteratura precedente. Già l’epica omerica testimonia l’interesse per
l’ambientazione pastorale: basti pensare alla descrizione delle scene di vita agreste raffigurate sullo
scudo di Achille (XVIII libro dell’Iliade, vv. 525 ss.), oppure agli ampi spunti di poesia bucolica -
dalla descrizione della terra dei Ciclopi a quella dell’antro di Polifemo - attestati nel IX
dell’Odissea.
Rimanendo nella poesia di età arcaica, spunti di carattere bucolico si trovano poi ancora nella lirica
corale, se è vero che il mito di Dafni compariva già nell’opera di Stesicoro. Soprattutto, l’ambiente
naturale era protagonista della letteratura popolare, in particolare nelle tradizioni rustiche della
Sicilia.
Venendo all’età classica, sappiamo che il dramma satiresco, uno dei tre generi del teatro greco,
conteneva anch’esso ricchi spunti di poesia bucolica, come rivelano l’ambientazione nei boschi e la
presenza di pastori e satiri tra i personaggi e addirittura nel coro.
Passando poi all’età ellenistica, quadretti bucolici sono presenti in Anite di Tegea, Mnesalca di
Sicione e Leonida di Taranto, epigrammisti di ambito dorico contemporanei o lievemente precedenti
a Teocrito.
I manoscritti medioevali di Teocrito contengono, prima dei componimenti, un breve trattato sulla
poesia bucolica attribuito al grammatico Teone, vissuto in età augustea, il quale presenta tre diverse
versioni delle origini della poesia pastorale, in cui l’elemento comune sono i culti popolari ed
agresti della dea Artemide in Laconia e in Sicilia. Tuttavia l’elemento cultuale è assente in Teocrito,
ma si può ipotizzare l’influenza delle origini cultuali della poesia drammatica sostenute da
Aristotele nella Poetica. Non è un caso che Teone scriva poco prima che a Roma Virgilio riprenda il
genere di Teocrito nelle Bucoliche.
La rappresentazione idealizzata della natura e dei suoi abitanti è un dato costante del genere
bucolico, nel quale i pastori ed i contadini sono in primo luogo cantori e poeti. A questo proposito, è
opportuno ricordare che già nella Teogonia di Esiodo la vocazione poetica dell’autore avviene
mentre egli è al pascolo sull’Elicona: questo vale ad istituire un binomio inscindibile tra pastore e
poeta. Anche la tradizione relativa alla vocazione poetica di Archiloco ci presenta un’apparizione
delle Muse al poeta giambico mentre si stava recando al mercato per vendere una vacca del padre.
Egli ottiene dalle dee la cetra proprio in cambio della vacca.
Teocrito, nella sua opera, dimostra di aver ben presente questi precedenti letterari, in particolare il
modello esiodeo, coerentemente con quella predilezione per Esiodo che caratterizza tanta della
poesia ellenistica. Nell’Idillio VII, Le Talisie, in cui è simboleggiata l’investitura poetica di Teocrito
a poeta bucolico, il dono del bastone da parte di Licida, presentato come personaggio semidivino, a
Simichida, controfigura di Teocrito stesso, echeggia chiaramente il Proemio della Teogonia. in cui
le Muse donano ad Esiodo lo scettro poetico, rappresentato da un ramo di alloro.
Altra peculiarità di Teocrito all’interno della poesia ellenistica consiste nell’aver individuato un
mondo sociale umile come spazio di espressione di una sensibilità poetica raffinata ed elitaria: il
mondo agreste è rappresentato con un notevole sforzo di realismo, cui contribuiscono non poco le
conoscenze specialistiche della società pastorale, delle piante e delle tecniche di allevamento, di
nuovo coerentemente col gusto tipicamente ellenistico per l’erudizione (vedi Idillio VII, Le Talisie,
vv. 64-68) e l’uso di un linguaggio che tende a riprodurre l’espressione colloquiale. Allo stesso
modo ha fondamento realistico il recupero, certamente erudito, dell’antico uso popolare degli agoni
bucolici. Sotto questo aspetto, il componimento che più da vicino sembra riprodurre un uso
popolare sembra essere l’Idillio V, caratterizzato dall’agone a botta e risposta, articolato in due versi
per ciascuno dei contendenti, alla presenza di un giudice, che sancisce e premia il vincitore.
Tuttavia, non vi è realismo nel senso di rispecchiamento della realtà concreta: il mondo bucolico è
idealizzato, i contenuti presi dalla natura e dal lavoro agreste sono trasformati letterariamente, in un
fine artistico: la stessa lingua è altamente artificiale.
Sia in Teocrito sia in Virgilio i pastori pensano più all’amore e alla poesia che alle esigenze delle
loro greggi; in entrambi i poeti essi divengono spirituali e sentimentali, ma in modo diverso: in
Teocrito i pastori sono cittadini colti travestiti; in Virgilio essi divengono uomini raffinati, cioè
pastori arcadici. La semplicità della vita agreste è sognata da Teocrito: i suoi pastori sono lontani
dalla realtà, poiché un vero ritorno alla natura segnerebbe, come accadrà secoli dopo, il tramonto
della poesia pastorale. Inoltre, il tono della poesia teocritea non è mai tragico, ma tende sempre
verso l’ironico, per volgere addirittura al comico, quando i pastori litigano. Il mondo pastorale è
visto col distacco di chi sa di appartenere ad un mondo più raffinato, e questo vale a creare
un’atmosfera aulica e cortese che rimarrà una caratteristica del genere bucolico, che lo stesso
Virgilio manterrà.
Ciononostante, esistono tra i due poeti differenze relative sia al paesaggio bucolico da loro
descritto, sia ai personaggi che ci vivono. Se il paesaggio teocriteo ha i contorni netti e solari di
quello siciliano e mediterraneo, quello virgiliano ha i tratti sfumati e umbratili, nebbiosi, della
campagna mantovana. Inoltre il paesaggio teocriteo ha connotazioni realistiche sia nella
presentazione della Sicilia, sia nella presentazione dell’isola di Cos, sottolineate da numerosi
riferimenti eruditi. In Virgilio compare una sintesi tra l’ambiente della terra mantovana, in cui è nato
e ha trascorso i primi anni della sua vita, quello siciliano o più genericamente mediterraneo, che
costituisce un omaggio letterario al suo modello Teocrito, ed infine la sua creatura, la terra
d’Arcadia, che egli trasforma in un luogo della poesia, lontano dalla realtà spazio-temporale.
Per quanto, attiene, poi, ai personaggi, Virgilio mantiene l’aulicità teocritea, ma non guarda più al
mondo pastorale con lo stesso distacco che caratterizza Teocrito: i suoi pastori hanno garbo e
delicatezza di sentimenti, ma sono sempre più seri. Contemporaneamente essi non conoscono la
forte passione d’amore: l’amore, descritto realisticamente in Teocrito, è per Virgilio furor, dementia,
sconvolgimento dell’atarassia cui egli aspira. Se in Teocrito c’è attenzione per il particolare
realistico della vita dei pastori, Virgilio invece tende piuttosto alla rivisitazione interiore del mondo
pastorale alla luce della filosofia epicurea, per cui l’uomo deve trovare un rapporto razionale con la
natura se vuole raggiungere l’atarassia, cioè l’imperturbabilità di fronte al dolore. Un rapporto
razionale con la natura è, infatti, fonte di voluptas, intesa come non dolere e ciò sospende la
sofferenza dell’uomo. I pastori virgiliani sono anche incarnazioni dell’atarassia, e perciò modelli di
comportamento.
Queste differenze non sono puramente esteriori: Virgilio ha una visione inquieta e pessimistica
della vita e della storia: nelle sue Bucoliche, i ritmi sereni e pacati dell’universo agreste sono
continuamente minacciati da forze perturbatrici, per cui la situazione dei pastori diventa la
situazione esemplare degli uomini, la cui esistenza è costantemente insidiata dalla Fors, ovvero da
una sorte capricciosa che sconvolge ogni loro disegno (Verg., Buc. IX, 5). A questo proposito,
bisogna ricordare che non poco incide sul tono della poesia virgiliana l’ancora recente esperienza
delle guerre civili, che avevano sconvolto il mondo romano, nonché l’esperienza personale di
piccolo proprietario terriero espropriato delle sue terre a favore dei veterani di Ottaviano. Quello di
Teocrito, invece, è il mondo dell’, che non conosce i fragori della guerra e la violenza delle
lotte civili, e in cui anche il tormento d’amore e la morte perdono i loro connotati più altamente
drammatici, dissolvendosi nel fascino del canto consolatore. Questo è evidente nel canto di addio
della natura per Dafni (I, Tirsi, 114-118). L’infelicità che immagina un sovvertimento dell’ordine
naturale si chiude nell’ (I, 131-136), cioè in un espediente letterario, mentre la natura
torna ad essere uguale a se stessa, perfettamente imperturbabile ed estranea alla storia.
Il canto dell’amore infelice intonato dai pastori ed il paesaggio sono strettamente uniti nella
selezione operata da Teocrito, il quale li sa tenere ancorati alla realtà. Il suo realismo di poeta
alessandrino ha limiti precisi: il mondo pastorale è rappresentato con simpatia ed interesse, ma
Teocrito mantiene la distanza ironica del cittadino raffinato, capace di produrre scenari inediti per
un pubblico colto allo scopo di catturarne l’attenzione.
Il mondo pastorale è percepito come alternativa a quello urbano, come modello di esistenza
presociale, vagheggiata, ma mai pensata come realtà di vita da praticare. Esso è il mondo
extracittadino, ma lontano non solo nello spazio, ma anche nel tempo: è quindi precittadino, e per
ciò stesso lontano nel tempo, estraneo al fluire della civiltà, isolato e fermo nella storia,
cristallizzato senza oggi né ieri. L’operazione teocritea, pur senza volontà di teorizzazione,
ripropone il tema della dialettica tra natura e cultura. È significativo, a questo proposito, che il
Polifemo omerico, emblema del mondo selvaggio, che non conosce né socialità né leggi e disprezza
le norme prime della civiltà, divenga in Teocrito un eroe positivo, dalle profonde affinità
psicologiche con la sensibilità comune.
Nell’Idillio X, I mietitori i protagonisti non sono pastori, ma contadini all’opera nei campi per la
mietitura. Milone chiede al compagno Buceo perché resti indietro nel lavoro come dietro al gregge
una pecora con una spina nel piede (X, 4). L’amico progressivamente rivela la sua sofferenza
d’amore e sfoga nel canto il suo dolore. La donna, Bombica, è scura perché bruciata dal sole, ma è
bella secondo Buceo, che si avvale di immagini tratte dalla natura per descriverne le grazie: Anche
la viola e il giacinto iscritto hanno un colore scuro, / eppure sono i più preziosi per farne corone.
La capra segue il citiso, il lupo la capra,/ la gru l’aratro, io sono pazzo di te (X, 28-31). Teocrito
alterna immagini erudite ad immagini popolaresche, per giungere ad una sintesi nella poesia
soggettiva.
Il distacco si avverte in modo particolare quando nell’Idillio XI, Il Ciclope, Teocrito dà la parola a
Polifemo per fargli descrivere la bellezza dell’amata ninfa Galatea: tu, più bianca del formaggio,/
d’un agnello più tenera, più altera / d’una vitella, più lucente e liscia/ dell’uva acerba (vv. 28-31).
L’ingenuità di Polifemo costringe il pubblico a guardarlo con simpatia, in un ribaltamento del
omerico, ma anche a prendere le distanze dalla sua semplicità. La ricchezza del ciclope è
fatta di cose semplici, ma genuine (vv. 47-51), come le prove del suo amore (vv. 55-57). Più
letterariamente per la presenza di particolari coloristici, poco oltre, offre di donarle bianchi gigli e
tenero papavero/ con i petali rossi (ib. vv. 79-81). E’ molto efficace l’opposizione degli ambienti: il
mare, in cui vive Galatea, è sentito come estraneo e minaccioso, la campagna, in cui vive Polifemo,
è idilliaca, ricca e gioiosa. Verso il mare rimane un atteggiamento di curiosità, alimentato dal
desiderio di essere comunque vicino alla Ninfa amata, che genera nel mostro il buffo desiderio di
diventare un animale marino, o almeno anfibio, ed il rimprovero ai genitori, la divinità marina