Dal momento in cui Achille riprende a combattere, un solo, ossessivo pensiero domina la sua mente: vendicare la morte di Patroclo uccidendo Ettore. Il massacro dell’esercito troiano non ha infatti altro fine che quello di aprirgli dinanzi un varco sanguinoso per raggiungere l’avversario, che, ancora protetto da Apollo, riesce tuttora a sfuggire al suo fato. Il poeta appare ben consapevole dell’importanza di questo momento così a lungo preannunciato e sempre rimandato; perciò si accinge a descrivere il più drammatico fra i duelli dell’iliade accentuando al massimo l’effetto di suspense fin qui sapientemente costruito.
Rimasto orami solo, Ettore non ignora il pericolo mortale che incombe su di lui, tuttavia, poiché i valori del codice eroico secondo il quale è stato educato gli impediscono di cercare scampo nella fuga, egli appare ben deciso ad attendere l’attacco del Pelide, che avanza verso di lui, splendido come una stella funesta, nel fulgore delle sue armi divine. Ma quando i due sono ormai vicinissimi, Ettore è colto da un umanissimo senso di paura e si lancia in una corsa disperata intorno alle mura, inseguito da Achille. Per tre volte essi compiono il circuito delle mura, senza riuscire a diminuire la distanza che li separa, mentre gli dei osservano dall’alto la scena, quando gli eroi passano per la quarta volta di fronte alle sorgenti dello Scamandro, Zeus decide che venuto il momento di verificare quanto Ettore abbia ancora da vivere, procedendo al rito della pesatura delle anime.
“ἀλλ' ὅτε δὴ τὸ τέταρτον ἐπὶ κρουνοὺς ἀφίκοντο,
καὶ τότε δὴ χρύσεια πατὴρ ἐτίταινε τάλαντα,
ἐν δ' ἐτίθει δύο κῆρε τανηλεγέος θανάτοιο,
τὴν μὲν Ἀχιλλῆος, τὴν δ' Ἕκτορος ἱπποδάμοιο,
ἕλκε δὲ μέσσα λαβών· ῥέπε δ' Ἕκτορος αἴσιμον ἦμαρ,
ᾤχετο δ' εἰς Ἀΐδαο, λίπεν δέ ἑ Φοῖβος Ἀπόλλων.”